Un programma riformista per la società delle libertà e dei diritti

Di Giuliano Amato Lunedì 01 Aprile 2002 02:00 Stampa

Ci attanaglia il timore di una società sempre più povera di valori sociali e non solo ritualmente religiosi, una società che rimanga per questo senza tessuto connettivo e risulti incapace di missioni che vadano oltre il perseguimento da parte di ciascuno dell’egoismo individuale o di gruppo – si tratti di gruppo economico, etnico, professionale o locale. Ci attanaglia per ciò stesso il timore di una società che possa definirsi liberale e che sia invece acquisitiva, appropriativa, segnata solo dall’accaparramento privato. Non è un incubo solo nostro, né un incubo di oggi.

Ci attanaglia il timore di una società sempre più povera di valori sociali e non solo ritualmente religiosi, una società che rimanga per questo senza tessuto connettivo e risulti incapace di missioni che vadano oltre il perseguimento da parte di ciascuno dell’egoismo individuale o di gruppo – si tratti di gruppo economico, etnico, professionale o locale.

Ci attanaglia per ciò stesso il timore di una società che possa definirsi liberale e che sia invece acquisitiva, appropriativa, segnata solo dall’accaparramento privato. Non è un incubo solo nostro, né un incubo di oggi. Per quanto riguarda l’Italia, è almeno da quando Pasolini lamentò «la scomparsa delle lucciole» che la modernizzazione, la caduta delle gerarchie, la scoperta e la pratica estesa della libertà individuale – che pure sono state e sono lo sviluppo più straordinario per noi di civiltà e di crescita – hanno dimostrato di portare con sé questi rischi. Ed oggi non è soltanto il Papa dei cattolici a lamentarli, a mettere in guardia contro l’aridità di società senza più trascendente, dove per trascendente si intende non necessariamente la divinità, ma piuttosto ciò che trascende le ragioni egoistiche dell’Io. Tuttavia non in un’enciclica, ma nella rivista americana «Harper’s» leggevo giorni addietro che «facendo cadere quelli che i broker classificano come valori non di mercato siamo lasciati con una società definita non come unione delle sue energie e delle sue speranze collettive, ma come un labile aggregato di interessi egoistici, muniti ciascuno del proprio manifesto, leali ciascuno alla propria agenda, sicuri di sé soltanto entro l’armatura dei rispettivi linguaggi. La demo crazia diviene così null’altro che un gradevole nome greco per una carta dell’American Express o per un catalogo natalizio, mentre il governo è visto come un hotel della Florida, con il suo assortimento di beni e di servizi che merita rispetto nella esatta misura in cui soddisfa i desideri dei suoi sponsor e offre ai suoi diversi clienti i previsti sconti-vacanze».

Non sono soltanto ragioni morali quelle che portano a contrastare il radicamento di una società del genere (e ragioni morali – è indubbio – ve ne sono). Essa è anche pericolosa per le esclusioni che può generare e quindi per i conflitti che può aprire; ed è inefficiente sul piano economico, per le risorse che spreca in termini di capitale sociale e per quelle a cui rinuncia in termini di maggiore e più diffusa conoscenza e quindi di più estesa e pagante innovazione. Non so se è questa la società a cui aspira il centrodestra da cui oggi siamo governati. Ritengo ragionevolmente che non sia così. Ma se è questa la società verso la quale rischiamo da tempo di andare, di sicuro, le azioni e i messaggi del centrodestra – lungi dal contrastarla – la favoriscono, le aprono la strada, le costruiscono addirittura degli scivoli con le sue offerte di libertà di fare da soli, di arrangiarsi, di appropriarsi di quanto ciascuno è in grado di far suo, sotto l’occhio di una legge a questi fini benevola e lassista (salvo che con gli immigrati, anche se questo fa simmetricamente parte del quadro). Si è arrivati a trasformare beni collettivi – com’era la correttezza dell’informazione societaria – in un bene privato degli azionisti; e, se nessuno di questi protesta, anche buona parte dei falsi in bilancio rientrano nella norma e sono tollerati. Pensavamo di passare dal Welfare State alla Welfare community (e quanto spirito comunitario, quanta voglia di non lasciare soli gli altri, di cooperare con gli altri sono già in campo nel nostro paese!) e temiamo invece di passare al Welfare del voucher: ciascun italiano solo con i suoi cento Euro in mano. Chi ha la fortuna di averne di più penserà da solo a trovarsi i servizi che gli servono, se invece ha soltanto quelli finirà metaforicamente per berseli, come faceva – non metaforicamente – il padre di Frankie McCourt. Pensavamo di passare dall’economia del nanismo industriale che si arrabatta sui costi (corretta soltanto da poche grandi imprese di origine pubblica) all’economia di imprese che crescono in un nuovo contesto di conoscenza e di innovazione, e temiamo di rimanere invece con gli stessi nani che di diverso hanno solo maggiore libertà legale di arrabattarsi sui costi.

Insomma l’incubo si può avverare: ciascuno per sé in un habitat sociale senza coesione e tutti per uno in un habitat politico che è l’unico ad offrire, attraverso una visione parossistica e totalizzante del principio maggioritario, un collante, che non è tuttavia solidale, ma antagonista: una prospettiva tanto più lacerante in un paese come il nostro, che – a differenza di altri pur attraversati da rischi simili – ha perso nei decenni trascorsi i contenitori a loro modo ordinanti delle sue antiche diversità (i grandi partiti della Repubblica), e queste diversità vede oggi riemergere «come faglie in movimento» – ha scritto Alfredo Reichlin – «in un pericoloso disordine». Dovrei soffermarmi a questo punto sulle responsabilità che abbiamo – e ne abbiamo – non per non aver fatto, ma per non aver fatto abbastanza per prevenire un’evoluzione come questa negli anni dei nostri governi. Sarebbe un passaggio doveroso che affronterò sicuramente in un altro contesto. Preferisco soffermarmi su ciò che dobbiamo fare ora per spingere l’Italia a ritrovare la rotta. E questo farà capire cosa penso degli anni appena trascorsi e dei limiti che ravviso nella nostra cultura e nelle nostre azioni di allora.

Dobbiamo reagire e dobbiamo farlo perché – come già ho accennato – una società di individui che ha il maggioritario al posto del trascendente (di ciò che trascende l’egoismo dell’Io) non solo è fonte inevitabile di esclusioni e quindi di lacerazioni e conflitti, ma non è neppure conveniente per l’economia, perché manca di quelle missioni e di quegli impegni collettivi dai quali dipende largamente la nostra competitività e quindi la nostra crescita. Attenzione però: guai se nell’evocare missioni e impegni che ci appaiono simili a quelle che ci caratterizzarono in passato pensiamo di poter restaurare questo passato. E tuttavia c’è chi lo pensa. Chi ha subìto i cambiamenti di questi anni con il silenzio imposto dalla rovinosa sconfitta del comunismo, conservando l’insofferenza e la diffidenza di chi aspetta al varco la società libera per poter dire che non funziona e che – in fondo – aveva ragione lui con la sua fiducia nello statalismo, nel dirigismo, nella potenziale razionalità della decisione pubblica contro la sicura irrazionalità delle decisioni private.

No, questo passato è proprio finito. Il bisogno effettivo di decisioni pubbliche e il confine – che realmente esiste – fra economia di mercato e ambiti nei quali non ci si può affidare ai meccanismi di mercato non cambiano la premessa dalla quale dobbiamo partire. E la premessa – ce lo insegnerebbe Marx – è che le nostre società sono profondamente, strutturalmente cambiate: sono cambiati i processi produttivi, sono cambiate le tecnologie, è cresciuta, grazie anche a noi, la coscienza di sé, l’istruzione, la consapevolezza dei propri diritti da parte di milioni di individui. Fortunatamente nelle nostre società l’aspirazione alla libertà, al diritto di scegliere e di dire la propria, non è più dei pochi, ma è dei più. Sono società libere e, proprio perché lo sono, noi dobbiamo fare i conti con i frutti positivi della nostra storia (che era iniziata come un grande moto di libertà per chi non l’aveva: il socialismo – fu scritto – è la libertà che si fa per la povera gente), senza pretendere di riviverla nei suoi successivi passaggi. E quanto più sapremo farlo, tanto più ci accorgeremo che la società degli individui senza trascendente non è la società libera, ma è una devianza resa possibile dalle nostre insufficienze, dalle nostre latitanze sul terreno della libertà. Ci dobbiamo riappropriare della libertà, perché nessuno ne inquini la natura di stupendo, straordinario valore universale, che non ammette esclusi, ma c’è in quanto l’abbia l’altro e non soltanto io. Un valore che non è fondato sull’egoismo, ma sulla facoltà e quindi sulla responsabilità di scegliere un bene che non ci è imposto, ma che tocca a noi trovare; che non chiude nella solitudine, ma sollecita tutti quei momenti di impegno e di azione collettiva e pubblica che sono necessari ad allargarne gli ambiti a beneficio di chi manca delle capacità per farlo da solo, oltre che a combattere i poteri soverchianti che restringono la libertà nell’economia, nell’informazione o altrove.

Ci dobbiamo riappropriare della libertà, perché è una domanda di libertà quella che viene da una società in cui il valore del poter scegliere è venuto crescendo non meno del tradizionale bisogno di essere protetti davanti ai rischi fondamentali della vita, sino al punto di connotare i modi in cui questo stesso bisogno ha preso a manifestarsi. Ed è – attenzione – una domanda di libertà quella che viene dai movimenti che manifestano contro la povertà nel mondo o, più di recente da noi, per testimoniare un’opposizione più vigorosa: migliaia di persone che dimostrano così di volersi riappropriare della politica e che certo non lo fanno perché i politici – che a volte neppure accettano al loro fianco – li governino poi dall’alto come benevoli ma inamovibili angeli custodi. Ci dobbiamo riappropriare della libertà, perché è la libertà – intesa appunto come capacità di scelta di cui ciascuno deve essere dotato e come assunzione di responsabilità per sé e per gli altri di cui ciascuno deve essere capace – il fattore ordinante di una lungimirante e aggregante piattaforma di governo per la sinistra del nostro tempo.

Ed eccoli i capitoli del nostro lavoro culturale e politico. In un mondo segnato dalla mobilità e dalla velocità del cambiamento e dell’innovazione, la libertà senza esclusi e quindi come chiave per la lotta all’esclusione significa esattamente le cose che ci ha insegnato Amartya Sen e che a sinistra si ama più citare che praticare. Significa fornire le sicurezze essenziali, perché non può essere libero chi è preda dell’insicurezza sull’abc della sua vita futura. Ma significa al di là di questo allargare le capacità, mettere in condizioni di scegliere, mettere in grado di non essere spiazzati né dalla mobilità, né dal cambiamento. Di qui la centralità della formazione e delle opportunità di adeguamento e di aggiornamento per tutti, di qui la centralità dei servizi alla famiglia senza i quali nessuna donna è davvero in condizioni di scegliere, di qui la lotta al degrado urbano e ad una scuola troppo precocemente selettiva, per evitare ai figli di nascere in serie B ed alla serie B essere condannati per il resto della vita. Di qui la necessità di configurare tutto questo in termini di nuovi assetti, di nuovi diritti, di istituzioni sociali adeguate ai rischi del nuovo secolo perché i rischi della mobilità e del cambiamento si è in condizione di fronteggiarli in ragione dei diritti che si posseggono, diritti ad essere difesi, ma anche diritti a difendersi e a farsi valere.

Ma la libertà come allargamento delle capacità non investe soltanto il mondo del lavoro, la scuola e la sicurezza sociale. Investe l’impresa e l’economia nel suo insieme, che per essere competitive hanno bisogno non soltanto di ridurre i loro costi (se fosse soltanto così, converrebbe restarsene sommersi o andare tutti in Romania, lasciando emerse in Italia le sole attività finanziarie: in fondo c’è chi questo sogno assurdo lo coltiva e lo persegue), ma di crescere alle dimensioni necessarie ad avvalersi di tutte le potenzialità offerte oggi dal mercato finanziario, di crescere nella qualità necessaria a offrire a loro volta al mercato finanziario opportunità superiori di investimento, di avvalersi di un capitale collettivo circostante che promuova questa crescita e ne potenzi i risultati. Di qui l’essenzialità di politiche volte non soltanto ad assolvere le imprese nane dai loro peccati, ma a promuoverne la crescita dimensionale, la trasparenza richiesta dal mercato, la propensione all’investimento in ricerca e innovazione, ad occupare management innovativo,  all’europeizzazione e all’internazionalizzazione e inoltre a dotare le imprese dei servizi e delle infrastrutture in cui giustamente vedono il sacrosanto ritorno delle tasse che pagano.

Sono solo esempi, ma sufficienti – spero – a illustrare le potenzialità dei cardini di un programma riformista per la società delle libertà e dei diritti e per chiarire il senso complessivo della missione culturale e politica di cui dobbiamo assumerci la responsabilità. E la missione è quella di un paese che, dopo la caduta del vecchio ordine in cui era comunque cresciuto, sa leggere nelle incognite della nuova realtà in cui si trova a muoversi le ragioni e le tracce di un ordine nuovo e si impegna ad inverarlo, promuovendo l’esercizio responsabile delle libertà dei suoi cittadini e quindi la valorizzazione di ciascuno e di tutti. Eccola allora la competitività dell’Italia, che non discende dalla possibilità conferita ai pochi di licenziare più facilmente i più, ma dal rendere i più indispensabili alla crescita complessiva, dotandoli di competenze, mettendoli in condizioni di aggiornarle in ogni fase della loro vita, portando tutti idealmente alla possibilità di essere loro a licenziare i loro datori di lavoro e di scegliere liberamente il proprio futuro. Non è il capitale umano, oggi e domani, il bene maggiore di cui può disporre un paese che ha fiducia in se stesso? Né è nel mercato del lavoro la ragione che rende oggi così esigua la presenza delle nostre imprese nei processi industriali di integrazione europea e nell’investimento diretto. Anche qui sono altre le capacità da allargare per rafforzare la competitività italiana.

Eccolo inoltre, nell’orizzonte di questa stessa missione, il ruolo dell’Italia in Europa, che non si realizza battendo il pugno sul tavolo contro gli altri, ma perseguendo insieme agli altri quegli interessi comuni che nessuno Stato da solo può oggi assicurare, dallo sviluppo ambientalmente sostenibile alla lotta alla criminalità organizzata, dalla sicurezza dei cibi alla garanzia che il mercato integrato sia l’arena della libertà economica e non di poteri dominanti, dal coordinamento del nostro enorme potenziale di ricerca a quello della formazione di un personale di eccellenza che abbia la stessa Europa come habitat comune, dalla stabilizzazione delle regioni che ci circondano alla riduzione delle intollerabili diseguaglianze che segnano il mondo. E quindi la pace. La pace di cui anche ai nostri amici ed alleati dobbiamo avere la forza di far condividere le ragioni e le radici; che non escludono certo la reazione al male e alla sua punizione, specie quando il male è così terribile come quello che si è manifestato l’11 settembre, ma non ci consentono di estendere al mondo la biblica spietatezza che ha portato il governo di un paese amico, Israele, a diffondere i semi di una violenza senza fine in Palestina. Rispetto a tutto questo, la somma delle nostre sovranità nazionali è solo la somma delle nostre impotenze. E qui siamo già al ruolo dell’Europa e al ruolo dell’Europa nel mondo, un ruolo che nei fini e nelle modalità siamo ora nell’impegnativa condizione di poter riplasmare, in funzione delle domande e delle aspirazioni dei nostri cittadini: i quali chiedono anche qui più democrazia e più trasparenza, ma anche meno intrusioni burocratiche e più efficacia nell’attuare le tante promesse che i capi di governo europei fanno nei loro comunicati comuni, salvo poi a paralizzarsi a vicenda nella trappola non europea, ma intergovernativa, delle loro procedure di (non) decisione.

È davvero difficile il mondo che abbiamo davanti, e difficile è in esso fare politica, se è ancora vero che fare politica è dare un senso e un ordine finalizzati a mete comuni. C’è chi questo senso lo trova immaginando un semplicistico ordine avverso che si tratta solo di abbattere perché i fiori riescano armoniosamente a fiorire. Ma l’immaginazione di un mondo in via di assorbimento da parte di una gigantesca idrovora che tutto lo assimila al suo accento americano – se pure segnala squilibri che ci sono e che vanno corretti – deforma pericolosamente una realtà fatta invece di identità molteplici e di diversità frammentate che dobbiamo caso mai comporre, rispettandole e disinnescando allo stesso tempo i veleni ora particolaristici ora distruttivamente ideologici che molte hanno in sé. Per noi, in Italia, questo significa dare un orizzonte morale e civile comune alle tante dimensioni degli italiani: alle loro libertà individuali, alle formazioni sociali in cui – come dice la nostra Costituzione – si svolge la loro personalità, alle loro comunità territoriali, al loro essere europei, alla loro aspirazione – perché molti hanno questa aspirazione – a un mondo più sicuro e più giusto. Occorrono a tal fine, prima di tutto e al di sopra di tutto, il coraggio e il candore delle grandi idealità, che alimentano un tessuto comune. È in questo, si badi, l’anima, il filo teso del riformismo, che non è solo proposta, non è solo articolazione di commi tecnicamente corretti, ma è progetto di insieme, è tratto finalistico di identità comune, è visione del futuro in cui proposte e commi tecnicamente corretti trovano il loro senso e la loro ragione. Ma oggi, più ancora di ieri, il coraggio delle grandi idealità, che va chiesto in primo luogo alla dirigenza politica, deve accompagnarsi da parte di questa al coraggio e all’umiltà di saper contare sugli altri, di stimolare e far crescere la responsabilità dei cittadini in modo da affidarsi poi ad essa, affinché – direbbe Sen – le capacità si realizzino e si realizzino con esse le idealità di cui avremo saputo nutrire il tessuto sociale. Solo così si potrà davvero entrare nel profondo della società di oggi e muoverla verso i fini e i valori comuni. Non si conti su gerarchie che non ci sono più, né su deleghe che sono sempre revocabili, non si pensi che la retorica del populismo possa andare oltre adesioni superficiali e retoriche.

E qui entra in campo l’ultimo capitolo, quello delle regole e delle istituzioni, che sono oggi in discussione per il mondo nel suo insieme, per l’Europa, per l’Italia. Ovunque la domanda è di democrazia, ma non ne capiremmo il senso né gli sbocchi possibili, se non capissimo le insoddisfazioni e le aspirazioni che in essa si esprimono; insoddisfazioni e aspirazioni che certo partono dagli squilibri oggi esistenti e quindi dal bisogno di contrapporre – in primo luogo nell’arena globale – poteri sovranazionali legittimi ai soverchianti poteri economici e finanziari che in essa si muovono senza regole e senza argini. E tuttavia sono le insoddisfazioni e le aspirazioni di quei milioni di Io che sono arrivati finalmente alla ribalta della storia e che per democrazia intendono non solo dei poteri in cui riconoscersi, ma anche spazi per sé, garanzie non manipolabili per le proprie libertà, strumenti efficaci per il proprio diritto a far valere le responsabilità di chiunque sia stato chiamato ad agire per conto loro e in nome dei loro interessi.

La democrazia di cui c’è bisogno non è dunque esaurita da un potere legittimato dal voto popolare in una chiave tutta rousseauiana, che assegna alla volontà della maggioranza e di chi la rappresenta il tratto divino della verità al di sopra di qualunque legge superiore. Più di questa chiave, che sembrava esaurita con le democrazie totalitarie del XX secolo e che viene invece ripresa dai populismi di destra del nostro tempo, è la chiave lockiana in versione madisoniana quella più rispondente alla domanda che abbiamo davanti: una chiave che non nega affatto la centralità del principio maggioritario per il governo della democrazia, ma la colloca in un contesto di doppia divisione dei poteri: da una parte di autorità indipendenti, a partire dall’autorità giudiziaria, a garanzia di diritti e libertà non prevaricaribili dalla maggioranza né assorbiti dall’esserne eventualmente partecipi, dall’altra di effettiva sussidiarietà e quindi di limitazione reciproca, e di necessaria, reciproca integrazione, fra diversi livelli di governo.

È un tempo di trasformazione profonda quello che abbiamo la ventura di vivere. Perdute le vecchie certezze, alcuni cedono alla tentazione di mantenerle artificialmente in vita, altri rischiano di smarrire il senso del possibile e dell’osabile e, in nome della modernità dilagante, predicano e praticano i piccoli aggiustamenti e la navigazione a vista. No, guardiamo al futuro e cerchiamo di essere consapevoli delle risorse che abbiamo per farne un grande futuro: un futuro di lavori che sempre più potranno perdere il loro carattere alienante, un futuro di competitività che potrà essere sempre più valore aggiunto e sempre meno erosione dei diritti di chi lavora, un futuro di innovazioni scientifiche che potranno darci tanta più libertà e cancellare tanto dolore e tanta malattia, un futuro di riequilibrio fra l’enorme ricchezza e l’enorme povertà del mondo di oggi.

È un futuro che possiamo costruire, ma dobbiamo muoverci presto. Dobbiamo riappropriarci della libertà prima che il veleno dell’egoismo e del ciascuno per sé ne adulteri il valore e le potenzialità. Fu scritto settant’anni fa che «il socialismo è l’attuazione progressiva dell’idea di libertà e di giustizia fra gli uomini (…) consentendo loro di svolgere liberamente la loro personalità, in una continua lotta contro la corruzione di una civiltà troppo preda del successo e del danaro». Allora ad alcuni parve poco. Oggi ci accorgiamo che di qui dobbiamo partire, se è ancora nostra l’ambizione di promuovere una società migliore.