Una sinistra che parla a tutti

Di Giuliano Amato, Sergio Cofferati e Massimo D' Sabato 01 Giugno 2002 02:00 Stampa

La sensazione che si ha guardando a quanto sta accadendo in Europa, alle serie di sconfitte elettorali della sinistra, è che non si tratti solo della somma di singoli casi nazionali. Siamo di fronte alla fine di un ciclo avviatosi alla metà degli anni Novanta, quando le forze riformiste conquistarono il governo della maggior parte dei paesi europei. Un ciclo che ebbe proprio nella vittoria dell’Ulivo nel 1996 il suo punto di partenza. Credo dunque che dobbiamo seriamente interrogarci su quanto sta avvenendo, rispondendo a domande stringenti ma del tutto legittime.

Massimo D’Alema

La sensazione che si ha guardando a quanto sta accadendo in Europa, alle serie di sconfitte elettorali della sinistra, è che non si tratti solo della somma di singoli casi nazionali. Siamo di fronte alla fine di un ciclo avviatosi alla metà degli anni Novanta, quando le forze riformiste conquistarono il governo della maggior parte dei paesi europei. Un ciclo che ebbe proprio nella vittoria dell’Ulivo nel 1996 il suo punto di partenza. Credo dunque che dobbiamo seriamente interrogarci su quanto sta avvenendo, rispondendo a domande stringenti ma del tutto legittime. Perché le forze di sinistra in molti paesi vengono battute pur avendo governato bene? Che ne è stato del socialismo europeo? Si tratta di una sconfitta storica? Trovo più semplice rispondere a queste domande riflettendo sulle ragioni che ci portarono alla vittoria alla metà degli anni Novanta. Allora la sinistra seppe presentarsi come la forza politica maggiormente capace di gestire le politiche di risanamento necessarie per giungere al traguardo della moneta unica, senza mettere in discussione le garanzie e i diritti sociali fondamentali. Una forza capace di coniugare coesione sociale e innovazione, in grado di svolgere una funzione di argine civile dinanzi alla durezza delle prove che attendevano le società europee.

Abbiamo effettivamente svolto bene quel compito. Ma quando si è trattato di rendere evidenti le nostre capacità di riforma, una volta esaurito il compito del risanamento economico, non siamo stati in grado di restituire ai cittadini quel «dividendo Europa» in termini di maggiore sicurezza e opportunità di crescita e di lavoro che veniva giustamente reclamato. Hanno certamente pesato i limiti che oggi gravano sulle politiche nazionali, costrette dentro angusti quadri di compatibilità sovranazionale al cui interno è sempre più difficile rendere evidente la differenza tra sinistra e destra. Ma oggi ci troviamo comunque di fronte ad una pesante battuta d’arresto per la nostra iniziativa politica, ad un grave vuoto di capacità d’innovazione. Questo vuoto è stato abilmente sfruttato dalla destra, cavalcando il senso di insicurezza che attraversa oggi il nostro continente. Un continente vecchio e ricco, dove sono ormai fortissimi i timori per la perdita di identità e privilegi. La destra ha saputo intercettare questi sentimenti con una proposta populista, ma non dispone di quella carica innovatrice che seppe avere agli inizi degli anni Ottanta quando la «rivoluzione liberista» ebbe comunque l’effetto di favorire e accompagnare la globalizzazione. Ma pur non avendo alcun disegno strategico, la destra si è mostrata capace di intercettare il consenso nel vuoto della nostra capacità di innovazione.

La conclusione che dobbiamo trarne, io credo, è che siamo davvero arrivati a quella fine del ciclo dei riformismi nazionali di matrice socialdemocratica di cui si parla da tempo. E che per recuperare l’iniziativa politica sia indispensabile che il socialismo europeo – autentico campo delle forze del cambiamento – esca dal recinto dell’ortodossia socialdemocratica per allargare i suoi confini ad altre culture politiche. Penso sia al rapporto tra riformismo socialista e nuovi movimenti, sia al dialogo con la cultura liberale, le forze di ispirazione cristiana e l’ambientalismo. Vale la pena ricordare che il Partito popolare europeo ha saputo rifondare se stesso nella seconda metà degli anni Novanta aprendo a forze moderate, conservatrici e persino populiste assai diverse dalla sua tradizione culturale. Si è trattato di una operazione discutibile e spregiudicata, ma che fa oggi del PPE la maggiore forza politica europea che sembra trarre nuove opportunità dal legame con l’amministrazione conservatrice degli USA. Per tornare a vincere – e per evitare un disastroso riflusso delle sinistre sconfitte verso radicalismi nazionali condannati a restare minoranza – il socialismo europeo deve allargare i propri confini culturali e politici e assumere il tema dell’unità politica dell’Europa come asse centrale di una nuova strategia riformista.

 

Sergio Cofferati

Esiste una difficoltà oggettiva a svolgere un’analisi che tenga insieme i singoli fenomeni nazionali e le più generali tendenze europee. Personalmente credo che le componenti locali e le ragioni dei diversi paesi contino molto in questa successione di sconfitte. E che concentrarsi sulla somma degli effetti, che pur merita attenzione, non sia una chiave interpretativa sufficiente. In ogni caso siamo davanti ad uno scenario che conferma come la sinistra non sia capace di raccogliere consensi se non introduce nelle politiche di risanamento visibili elementi di riformismo. Da Maastricht in avanti le politiche di contenimento sono state affidate alla sinistra europea, per comprensibili ragioni storiche. Ma laddove vi è una cesura tra risanamento e riformismo, sono i ceti moderati che incassano gli effetti per loro positivi del processo di aggiustamento economico ed è la destra a raccogliere i migliori risultati in termini di consenso. Perché in questo modo il processo europeo non è percepito né tantomeno condiviso nella sua interezza, ovvero come «moneta più democrazia e nuovo modello sociale», lasciando in evidenza solo  l’Europa dell’euro e l’accentuazione delle ingiustizie sociali.

Ciò che appare davvero come un dato uniforme è l’effetto che questa congiuntura politica potrà avere sul processo di costruzione europea. Temo molto le crescenti resistenze all’allargamento dell’Unione, perché se l’Europa si limita a rafforzarsi senza allargarsi ai paesi candidati avremo solo maggiore esclusione e più facili meccanismi di dumping sociale. Oggi più che mai è fondamentale che l’Europa si dia una Costituzione e nuove regole democratiche, anche attraverso la cessione di quote di sovranità nazionale. È su questo terreno che l’Europa può ritrovare fascino nelle opinioni pubbliche e che la sinistra può ritrovare la sua antica idea di «nuova patria». Ma soprattutto è solo in questo modo, attraverso un solido rapporto tra dimensioni sovranazionali, che potremo dare nuove regole alla globalizzazione. L’alternativa alla costruzione europea non è il semplice ritorno agli Stati nazionali ma la prospettiva assai più preoccupante del localismo, nella quale prevalgono inevitabilmente le dinamiche del protezionismo e dell’autarchia. Anche qui la sinistra ha mostrato una propria debolezza, non assumendo con sufficiente coraggio questi temi. E anche per questo è stata penalizzata dal voto.

Credo, in sostanza, che sia fondamentale rendere evidenti le finalità ideali delle nostre politiche. Sarebbe stato necessario farlo anche nel caso delle politiche di contenimento della spesa pubblica, che la sinistra e il sindacato hanno condotto sulla base di una comune assunzione di responsabilità di fronte all’opinione pubblica: esistevano concreti problemi da affrontare ed era necessario risolverli attraverso alcuni precisi passaggi. Per questo sono convinto che la chiave per ridare iniziativa alla sinistra in Europa sia il rinvigorimento dei nostri comuni valori e delle nostre comuni identità politiche. Non so immaginare quale sia il modello più efficace per coniugare, oggi, valori e identità. Ma resto convinto che sia necessario dare ad entrambi nuovo vigore. Solo così il socialismo europeo avrà un futuro, a prescindere dalle diversità nazionali. Anzi, proprio a partire dalle specificità storiche e sociali delle diverse nazioni europee. In fondo è una sfida simile a quella che viene posta oggi al sindacato europeo, storicamente diviso tra i due modelli nordico-professionale e mediterraneo-confederale anche sul tema del rapporto con la rappresentanza politica: è la Confederazione europea dei sindacati il luogo dove oggi vengono riunite le tante diversità nazionali e la ricerca del profilo del futuro sindacato europeo riguarda anche la ricerca dei criteri di redistribuzione e di protezione sociale più giusti per la società post-fordista. Perché per la sinistra è del tutto naturale che le forme della rappresentanza politica e quelle della rappresentanza sociale siano sempre intrecciate.

 

Giuliano Amato

La questione da cui partire è effettivamente lo stato di salute della sinistra europea. In questo senso sono rimasto molto colpito, all’ultima riunione della presidenza del PSE, quando ho ascoltato le spiegazioni degli olandesi e dei francesi sulle loro recenti sconfitte elettorali. In entrambi, che pure hanno svolto considerazioni assai diverse, ho colto riflessioni che anche noi italiani avevamo svolto dopo la sconfitta dello scorso anno. Da parte dei socialisti olandesi, che hanno registrato una autentica emorragia di voti verso il partito neopopulista di Fortuyn, si sottolineava l’importanza delle identità culturali ed etniche rispetto agli elementi esclusivamente economico-sociali, nella loro capacità di aggregare trasversalmente gruppi sociali diversi. «Non ce ne eravamo resi conto», dicevano. Da parte dei francesi l’accento cadeva sulla constatazione che gli ottimi risultati del governo Jospin non erano stati sufficienti a mantenere il consenso dei più ampi ceti popolari, con l’effetto di mantenere alla sinistra il solo sostegno compatto di quelli che un tempo avremmo definito «borghesi progressisti». Il voto degli esclusi e degli abitanti della banlieue ha mostrato, oltre a chiusure anti-immigrati, una profonda insoddisfazione per gli stessi risultati economico-sociali del governo di centrosinistra. È inevitabile che la nostra riflessione si concentri perciò su questi due elementi, il tema delle identità culturali e quello del consenso dei ceti più disagiati. Perché da questi elementi originano domande alle quali la sinistra non ha saputo trovare risposte adeguate, facendosi trovare impreparata davanti alla forza ed anche alla durezza delle questioni non economiche e insufficiente anche su quelle economiche nel passaggio dal fordismo al post-fordismo.

Sono d’accordo con D’Alema quando indica le ragioni delle vittorie socialiste della metà degli anni Novanta nella aspettativa che sapessimo offrire maggiore protezione dinanzi ai rischi e alle incertezze che incombevano sulle nostre società. Oggi si dimostra che a quell’aspettativa non abbiamo evidentemente corrisposto in maniera adeguata. Ed anche domande che vengono da quelli che dovrebbero essere i nostri elettori vengono raccolte dalla destra. Una destra che si limita ad esasperarle, senza avere le risposte adatte a governarle, ma raccogliendo da quella esasperazione un vasto consenso elettorale. La insufficienza delle nostre risposte, la nostra ridotta capacità di iniziativa, è derivata anche dalla nostra incapacità di comprendere ora l’esasperazione di una parte rilevante della società, ora i temi da affrontare per rispondere. Si prenda l’immigrazione: non si può pretendere che vi sia convivenza non traumatica se non funziona il sistema giudiziario, che dovrebbe garantire il funzionamento dei meccanismi di sanzione e di controllo. Noi non abbiamo saputo capire che il vero neo della legge Turco-Napolitano era non nella legge in sé, ma nell’inefficienza del sistema giudiziario. La stessa cosa vale per le politiche di integrazione attiva, che sono rimaste largamente sulla carta, lasciando non sciolti i nodi della predicata convivenza fra gruppi diversi. Accanto a questo, va sottolineato come le nostre politiche di risanamento si siano in parte sconnesse dalle nostre politiche sociali. Troppo spesso abbiamo lasciato che le conseguenze sociali di alcune nostre giuste scelte semplicemente accadessero – penso ad esempio alle liberalizzazioni – senza preoccuparci con tempestività di predisporre reti di protezione. E quanti, fra coloro a cui le liberalizzazioni sono costate il posto, hanno semplicemente concluso che esse erano un male! In questo senso la politica è sembrata perdere di forza e di incisività sull’economia, anche per quanto riguarda un’Europa dipinta spesso a ragione come un soggetto economico impotente di fronte alle ingiustizie del mondo. Di tutto ciò è stata soprattutto la sinistra a fare le spese, com’era inevitabile. Perché la destra ha avuto buon gioco nell’improvvisare un impasto di legge e ordine, di liberismo e protezionismo, che ha saputo intercettare le varie domande a cui noi non abbiamo saputo rispondere.

Guardando al futuro, sono convinto che il compito della sinistra sia quello di ritrovare quella che in termini gramsciani definirei una capacità di egemonia. Ovvero la capacità di comprendere e rappresentare una società estremamente diversificata, dove i potenziali esclusi che diffidano di noi convivono con quanti ritengono che l’economia debba essere ulteriormente liberata anche con gli strumenti di una maggiore concorrenza. Ciò che abbiamo fatto ha espresso la nostra ricerca di un terreno comune che, all’insegna di una modernizzazione improntata ad equità, tenesse insieme questi aggregati sociali. Ma la ricerca non è riuscita e la sinistra di governo ha perso, insieme, una parte dei suoi consensi tradizionali e una buona parte di quelli non tradizionali che si erano rivolti a lei e che poi le hanno revocato la fiducia. Ecco, la nostra ricerca di una nuova egemonia deve tendere a ricomporre quell’insieme.

 

Massimo D’Alema

Io credo che al centro di una nuova visione del riformismo debba essere posto il nodo dell’unità europea. Perché l’euro non può limitarsi ad essere – come d’altra parte non è – solo il fondamento di un mercato più grande. Occorre lavorare ad un’idea di Europa che dia risposte anche a domande di segno non economico. Sotto questo aspetto il dato elettorale degli ultimi mesi costituisce anche un segno di crisi del tradizionale economicismo socialdemocratico. Perché le domande che ci vengono poste – lo ricordava Giuliano Amato a proposito degli olandesi e dei francesi – vanno ben al di là del dato puramente economico. Dobbiamo essere noi riformisti a prendere la bandiera dell’Europa-potenza globale, perché ciò corrisponde al bisogno degli europei di sentirsi protagonisti ma soprattutto al bisogno del mondo di vedere rafforzato quel reticolo di istituzioni sovranazionali che è l’unica garanzia di un governo multipolare della globalizzazione. È su questo piano che emerge con chiarezza il fascino dell’Europa: un soggetto forte dei suoi valori di civiltà che può agire sul nodo mondiale legalitàsicurezza-democrazia e rispondere anche per questa via alle domande di sicurezza e identità dei suoi cittadini. Su questo piano dobbiamo prendere atto di un ritardo della sinistra europea, ancora troppo frammentata ed esposta alle tentazioni dei diversi nazionalismi. Possiamo e dobbiamo recuperare questo ritardo, anche attraverso l’aggregazione di forze culturali e politiche diverse da quelle tradizionalmente nostre. E rispondendo così alla richiesta di una globalizzazione più giusta che ci viene dalla parte più avveduta dei movimenti.

Vedo particolarmente complessa, ma decisiva, la sfida del «rinvigorimento» degli ideali del socialismo, per riprendere le parole di Sergio Cofferati. È un tema sul quale ci siamo confrontati seriamente in passato, com’era inevitabile. Il dissenso non è sull’attualità dei valori della sinistra, ma sul modello sociale nel quale queste idee si sono realizzate nel corso della vicenda europea. È inutile nasconderci che tra di noi convivono idee distinte sui conflitti generazionali che si giocano intorno allo Stato sociale e sulle diversità che esistono all’interno del mondo del lavoro. Sotto questo aspetto sono convinto che la sinistra europea stia correndo un rischio molto grave. Essa rappresenta infatti una parte importante della società: quella parte – composta da ceti medi in particolare intellettuali e da larghe porzioni del lavoro salariato – che ha raggiunto un certo benessere e un livello mediamente elevato di cultura. Una parte che ha conquistato una buona qualità di vita, anche grazie alle battaglie sociali e civili segnate dalle iniziative della sinistra. Mi riferisco ad una componente fondamentale della società che garantisce la coesione sociale. Quelli siamo noi, quella è la nostra parte. Il problema è costituito dal fatto che questa parte della società tende a mobilitarsi solo quando vede in pericolo le conquiste materiali e valoriali che ne compongono l’identità. Quel «noi» scatta solo quando si sente minacciato. Ma in realtà esso è sottoposto ad una duplice pressione: dal basso, da parte di coloro che essendo fuori dal sistema delle garanzie vivono il lavoro in modi più incerti e precari; dall’alto, da quelle parti più affluenti della società che reclamano ancor più libertà dai vincoli e dalle garanzie. Il rischio che corre la sinistra è di perdere la rappresentanza di quelle componenti della società maggiormente interessate al mutamento dello stato di cose esistenti. E dunque di assestarsi su una posizione di diffidenza verso qualsiasi cambiamento. Si tratta di un paradosso storico per una sinistra che è nata rappresentando coloro che non avevano che da «perdere le proprie catene». Perché i nostri gruppi sociali di riferimento sembrano guardare al cambiamento con una miscela di adesione ideologica e di diffidenza sociologica.

Il nostro più urgente bisogno politico è di mettere in movimento la parte di società che meglio rappresentiamo, «i nostri», intorno a contenuti che siano in grado di coinvolgere anche altre forze sociali e quindi abbiano un certo significato «altruistico». Nel senso che dobbiamo convincere quella parte della società già tutelata che l’allargamento dello spazio dei diritti anche a coloro che non ne sono compresi è una esigenza fondamentale della sua stessa sicurezza. Perché un modello sociale più inclusivo e dinamico è garanzia non solo di maggiore democrazia ma anche di maggiore stabilità e di maggiore giustizia. Perché una sinistra che rappresenta un sistema di welfare che poggia solo su una minoranza sociale assai difficilmente può pretendere di guidare la nazione. Capisco quanto sia difficile la sfida della costruzione di un nuovo welfare anche perché non è facile arrivare a questo lasciando inalterato il nostro Stato sociale. Ma dobbiamo prendere l’iniziativa in questo campo. Senza attendere l’arrivo di ricette miracolistiche, che non esistono in nessun paese europeo.

 

Sergio Cofferati

Tra le ragioni della crisi della sinistra europea credo che non sia affatto marginale la difficoltà ad interpretare i grandi processi, come è avvenuto in più di una occasione negli ultimi due decenni. Penso in particolare ai temi dell’immigrazione e della sicurezza, rispetto ai quali non abbiamo capito che una maggiore disuguaglianza tra le diverse aree del mondo avrebbe prodotto fenomeni migratori più consistenti soprattutto in presenza di un impressionante calo demografico delle società opulente. Il problema ha dimensioni tali da non poter essere affrontato e risolto da politiche di breve periodo. Occorre predisporsi ad una logica di programmazione: costruendo i rapporti multietnici della società futura; costruendo accoglienza e cultura della diversità. Lo stesso si può dire per i temi della liberalizzazione e della concorrenza. Perché la globalizzazione scatena sia il liberismo che il protezionismo. E se sul piano delle regole è necessario contrastare entrambi questi fenomeni, su quello delle nostre politiche dobbiamo assumere una visuale di lungo respiro. Su questi temi, in particolare, la sinistra ha mostrato di subire il fascino della novità o ha peccato di distrazione. Perché se è vero che le nuove tecnologie e i nuovi linguaggi cambiano il modo di percepire il tempo e di esercitare la democrazia, occorrono politiche che siano in grado di tradurre il nuovo in maggiore libertà. E troppo spesso la sinistra ha mostrato di subire il fascino del nuovo senza distinguere tra i suoi effetti benefici o deleteri.

Vorrei tornare sul tema degli ideali, rispondendo alla riflessione di D’Alema. Credo che l’esigenza di dare nuova vita ai nostri ideali non possa sottrarci all’obbligo di declinarli in modi nuovi. Penso ad esempio che oggi il valore dell’eguaglianza non possa essere disgiunto dal tema dell’accesso al sapere, ovvero che non ci si possa più limitare alla dimensione materiale delle condizioni umane senza guardare all’inclusione sociale anche come consapevolezza di sé. E dunque all’esigenza di rendere paritarie le condizioni di accesso al sapere, prendendo atto del valore completamente diverso che oggi ha l’istruzione come chiave di uguaglianza. Così come uguaglianza significa anche uniformità di diritti, laddove le catene di cui dobbiamo liberarci non sono più le nostre sole condizioni materiali. Sotto questo aspetto credo che i ceti medi non siano affatto appagati, che non si muovano solo per difendere le proprie condizioni materiali ma sotto la spinta dei propri valori e del senso della propria appartenenza. Questa parte della società può promuovere il cambiamento, a patto che ciò non le venga chiesto guardando a gerarchie del passato. Credo anche che se la sinistra ha colpevolmente lasciato alla destra il tema della libertà, è il tema dei diritti che torna ad affermarsi con prepotenza in tutta Europa (e penso anche al lavoro della Convenzione europea, dove sarà fondamentale il tema della Carta dei diritti). Così come ritorna ad imporsi il tema della dignità, dove nell’identità del lavoro la dignità della persona fa ormai premio sul metro della retribuzione.

Naturalmente non è facile tradurre queste parole-chiave in nuovi modelli di welfare. Ma se vogliamo discutere di un nuovo Stato sociale, è indispensabile prendere atto di quanto è avvenuto nella serie di elezioni europee. Non ho mai condiviso l’entusiasmo per i meriti del «modello olandese», ritenendo sempre troppo specifiche le condizioni di quel paese. E l’ultimo dato elettorale ha certamente confermato che anche quel modello, da tanti esaltato, non si è mostrato capace di tenere insieme valori e politiche di inclusione. Insomma, io credo che qualsiasi discussione sui modelli di welfare perda di significato senza la dovuta attenzione alla dimensione immateriale dei valori e ai modi nei quali politiche anche efficaci vengono percepite. Continuo a stupirmi, tra l’altro, del fascino che l’idea di libertà propugnata da Silvio Berlusconi ha avuto su un paese come l’Italia. E non c’è dubbio che la sinistra non abbia altra alternativa se non quella di tornare a guardare ai suoi valori e alle sue identità di riferimento.

 

Giuliano Amato

È vero anche, tuttavia, che la nostra strumentazione intellettuale è cambiata. E che questo rende ancora più difficile il compito di realizzare una nuova progettualità riformista. La prospettiva egemonica a cui mi riferivo poco fa deve tenere insieme convenienza individuale e altruismo. E oggi, nel mondo globalizzato, qualsiasi progetto di segno altruistico passa attraverso il miglioramento delle condizioni del mondo. Certamente su questo piano le nostre risposte non sono state adeguate alle aspettative, così come è vero che ben poco fino ad oggi ci ha fatto davvero credere che l’Europa possa svolgere in questo senso un ruolo adeguato alle sue potenzialità. Eppure tali potenzialità sono straordinarie, perché l’Europa può davvero dare risposte efficaci al bisogno di maggiore giustizia nel mondo. È da poco iniziata – devo dire sotto la spinta di quell’embrionale opinione pubblica mondiale rappresentata dai movimenti – la revisione critica della promozione dello sviluppo nei paesi poveri tutta imperniata sul favorire investimenti diretti, che favorisce in realtà lo sfruttamento delle risorse locali da parte delle nostre imprese più che il radicamento dello sviluppo locale. È un cambiamento cruciale, che può dare frutti positivi e diminuire non poco l’esasperata ostilità nei confronti dei paesi industrializzati. Ebbene, quanto di più può fare l’Europa, facendosi valere come soggetto unitario nelle istituzioni finanziarie internazionali, all’interno delle quali (e penso in particolare al Fondo monetario internazionale e alla Banca mondiale) può davvero diventare l’azionista di riferimento!

Mi pare evidente che questa prospettiva riesca a tenere insieme l’antico internazionalismo della sinistra con una nuova idea di libertà. Quell’idea che Amartya Sen è stato capace di declinare e che si presenta come libertà di partecipare pienamente al mondo nuovo dell’interdipendenza. Perché la chiave di volta di un programma riformista del futuro deve essere l’obiettivo di mettere tutti in condizione di poter partecipare ad un mondo nel quale nessuno è più in grado di pianificare la vita altrui, lavorando per potenziare le capacità individuali. E oggi, come ricordava Cofferati, è il sapere che ci mette in condizione di esprimere le nostre capacità e dunque di migliorare la nostra condizione. Su questo bisogna costruire. E bisogna farlo, in un’ottica fondata sugli stessi principi, anche all’interno dei nostri paesi Ma naturalmente è necessario costruire essendo consapevoli delle capabilities di ognuno e soprattutto avendo un relativo agnosticismo davanti alle figure sociali che in questo modo possono dispiegarsi nell’insieme delle nostra società. E allo stesso tempo essendo consapevoli che la libertà così intesa nasce dal possesso di una serie di diritti. Diritti che non possono essere immediatamente letti come rigidità, pena la scomparsa di qualsiasi equilibrio tra coloro che operano nello stesso mercato del lavoro e a cui deve essere sempre riconosciuta una capacità contrattuale. Se la definizione di un nuovo modello di welfare dovrà tracciare i rinnovati confini tra diritti, flessibilità e rigidità è indiscutibile che anche la flessibilità abbia bisogno di diritti certi. Varrà la pena di distinguere fra diritto e diritto e non necessariamente tutti dovranno avere gli stessi. Ma si dovrà pur convincere, o riconvincere, l’imprenditore che il riconoscimento di diritti in chi lavora per la sua impresa risponde anche ad una sua convenienza e non contrasta con ciò che egli rappresenta. Non c’è alternativa ad una modulazione intelligente di diritti e flessibilità.

Tornando al tema dei modelli di welfare, è evidente che in nessun paese europeo esiste una ricetta miracolosa. Anche per questo il riformismo europeo deve assolutamente integrare le due prospettive socialiste che hanno convissuto sul continente, quella mediterranea e quella nordica. È dunque necessario integrare le politiche sociali ed economiche, facendo assolutamente più attenzione che in passato alle politiche sociali, le quali, pur riflettendo opzioni nazionali, non devono essere per questo le sorelle minori nell’ambito delle policies europee. Dove ciascuno Stato europeo avrà i suoi margini di libertà, ma sul fondamento di standard comuni. Penso ad esempio ai sistemi pensionistici – sui quali continua a gravare un anacronistico limite alla «portabilità» tra i diversi Stati europei – o anche ai sistemi sanitari nazionali, tra i quali potrebbe aprirsi una proficua concorrenza. Perché i sistemi di welfare del futuro dovranno accompagnare i cittadini europei nella loro mutevole e sempre più duratura vicenda di vita, offrendo sia garanzie di sicurezza che opportunità di sapere.

 

Massimo D’Alema

Credo, in conclusione, che questa nostra riflessione confermi la necessità di una sinistra che sia in grado di parlare a tutti. Quando Gramsci parlava di egemonia – per riprendere la suggestione di Amato – egli si riferiva non solo alla capacità di cogliere l’interesse generale ma anche a quella di individuare gli elementi di verità contenuti nelle tesi degli altri per tradurli nel nostro linguaggio. È precisamente quello che dobbiamo fare oggi. Perché la sinistra può ambire a declinare a modo suo i temi della libertà e della sicurezza, sfidando la destra su un terreno che non le appartiene. Perché questa ha tentato di strappare alla sinistra alcune delle sue più forti parole-chiave, come «libertà» e «riforme», senza essere capace di accompagnarle ad una visione strategica di governo della società. La sinistra deve affermare con le sue parole che libertà significa realizzazione di ciascuno attraverso le chiavi del sapere e della conoscenza. E attorno ai nostri valori possiamo costruire una convergenza di consensi che vada oltre i nostri tradizionali blocchi sociali, definiti dalle politiche di welfare che abbiamo contribuito a realizzare.

È questa necessità generale, comune a tante forze della sinistra europea, che deve essere tradotta anche per l’Italia in una nuova proposta di governo del paese. Nel 1996 vincemmo soprattutto perché avevamo un’idea chiara sul governo dell’Italia e riuscimmo anche ad aggregare attorno ad essa un rinnovato orgoglio nazionale. Quell’idea si è esaurita, anche perché è stata ampiamente tradotta in pratica, ma oggi il problema del riformismo italiano è di costruire un nuovo progetto di governo che abbia una più forte capacità espansiva verso il centro e verso la sinistra. L’attenzione alle alleanze, alla costruzione di un nuovo cartello di centrosinistra, è positiva ma non basta. Nel 2001 non abbiamo perso solo perché le alleanze non hanno funzionato ma anche perché il centrosinistra non aveva un forte e convincente progetto di governo per l’Italia. E al di là delle alleanze oggi dobbiamo ritrovare un progetto comune. Nel 1996 la scelta era fra l’integrazione nella moneta unica europea e il distacco dall’Europa. Oggi il problema è più complesso. Dobbiamo rispondere alla domanda: quale Europa vogliamo? Quale modello di competitività e di società? Per questo è essenziale la capacità di declinare in modi nuovi i temi della libertà e della sicurezza. Se la destra divide il paese, dobbiamo essere consapevoli che nello scontro sociale vince chi trova maggiore ascolto presso le componenti più ragionevoli della parte avversa. E io credo che, guardando alle ultime elezioni amministrative, sia già evidente un positivo segno di reazione dei diversi elettorati di sinistra. Per cui è possibile che proprio in Italia, dove la sinistra è stata la prima a cadere, il ciclo conservatore possa essere interrotto prima che in altri paesi. È per questo che, mentre è indispensabile reggere il conflitto con il centrodestra e cogliere i frutti positivi della rivitalizzazione del centrosinistra, è ormai necessario mettersi in grado di lavorare ad un nuovo progetto per il futuro dell’Italia.