Europa e Stati Uniti: la contrapposizione necessaria

Di Daniel Cohn-Bendit Sabato 01 Giugno 2002 02:00 Stampa

L’indirizzo di politica estera che si è delineato negli Stati Uniti dopo l’11 settembre sembra riflettere una precisa declinazione dell’interesse nazionale. Ed è guardando alla percezione del ruolo che l’America ha di se stessa nel nuovo contesto mondiale, così come al definirsi di interessi economici e sociali ben definiti, che si spiega la direzione unilaterale intrapresa dagli USA nella gestione delle relazioni internazionali. Un orientamento che non può coincidere con quello degli europei per le ragioni stesse che lo determinano. Poiché l’interesse sociale ed economico, e dunque la visione del mondo, di quindici entità statuali europee diverse tra loro e determinate a proiettarsi con un’unica politica verso l’esterno dell’Unione non può essere indentico a quello degli americani.

 

L’indirizzo di politica estera che si è delineato negli Stati Uniti dopo l’11 settembre sembra riflettere una precisa declinazione dell’interesse nazionale. Ed è guardando alla percezione del ruolo che l’America ha di se stessa nel nuovo contesto mondiale, così come al definirsi di interessi economici e sociali ben definiti, che si spiega la direzione unilaterale intrapresa dagli USA nella gestione delle relazioni internazionali. Un orientamento che non può coincidere con quello degli europei per le ragioni stesse che lo determinano. Poiché l’interesse sociale ed economico, e dunque la visione del mondo, di quindici entità statuali europee diverse tra loro e determinate a proiettarsi con un’unica politica verso l’esterno dell’Unione non può essere indentico a quello degli americani. Costruire un «partenariato atlantico» equilibrato, che vada oltre gli aspetti retorici di una collaborazione altrimenti limitata dalla divergenza di interessi, significa dar vita a un assetto multilaterale i cui attori siano allo stesso livello. O almeno vi aspirino bilateralmente. Il che presuppone da parte dell’Europa la volontà e l’iniziativa per poter difendere i propri interessi e la propria visione del mondo – e soprattutto la propria visione specifica della mondializzazione – rispetto alle linee unilateralistiche che gli americani sembrano in questo momento volerci dettare.

Gli europei hanno a loro disposizione gli strumenti della cooperazione internazionale, a partire dalle istituzioni finanziare ed economiche internazionali, di cui devono avvalersi come un’unica entità statuale. Tali strumenti offrono spazi in cui l’Europa deve agire come un’entità sovranazionale, secondo linee unitarie e univoche all’interno dei contesti internazionali, facendo leva sui risultati già consolidati dell’integrazione. L’Euro, in primo luogo, come forza aggregante e fondamento dell’Europa «potenza civile». È necessario che gli europei siano rappresentati al Fondo monetario internazionale come «Eurozona», poiché sarà solo a partire dal momento in cui gli Stati che aderiscono all’euro saranno identificati come tali che l’euro potrà porsi come forza economica all’interno del FMI. Solo l’Europa-Eurozona può incidere concretamente sulla determinazione delle politiche del Fondo. Ed è altrettanto necessario che gli europei promuovano, all’interno dell’Organizzazione mondiale del commercio, l’adozione di linee originate dalla loro peculiare concezione della solidarietà mondiale. Una concezione che sollecita il ridimensionamento del ruolo del mercato e del libero scambio, e che in essi vede solo due degli elementi da cui deve muovere l’attività delle istituzioni economiche internazionali. Il che implica l’integrazione nelle regole di funzionamento dell’OMC dei principi dettati dalle convenzioni a cui fa riferimento l’Organizzazione internazionale del lavoro, di quelli promossi dalle convenzioni internazionali sull’ambiente, sui diritti dell’uomo e sulla giustizia mondiale. Gli ostacoli posti dagli USA a queste convenzioni, come ci confermano il rifiuto di Bush di sostenere il protocollo di Kyoto e il ritiro della firma statunitense dal trattato sul Tribunale penale dell’Aja, non possono che acuire le nostre critiche all’unilateralismo del governo americano.

È del tutto evidente il pericolo che nel contesto delle istituzioni di cooperazione economica internazionale si riflettano le contraddizioni di un partenariato «mutilato», all’interno del quale le posizioni degli Stati Uniti e quelle dell’Europa sono destinate alla lunga a divergere. Poiché l’America continua di fatto ad alimentare politiche neoliberiste dettate dal proprio interesse economico. Ciò si ripercuote in maniera negativa sulle relazioni fra gli stessi Stati membri dell’Unione, mettendo in cattiva luce la «relazione speciale» fra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Che ormai è qualcosa che va al di là dello storico legame preferenziale fra i due Stati. Se continuerà ad oscillare fra la scelta di una integrazione completa in Europa e il ruolo di partner tradizionale degli americani, all’interno dell’Unione europea la Gran Bretagna corre il rischio di essere guardata con sospetto, più o meno esplicitamente, come il «cavallo di Troia» del neoliberismo americano. Continuando a rinviare la scelta, e mantenendosi su una posizione di incertezza fra l’America e l’Europa, la politica del governo Blair rischia di perdere in credibilità. Non a caso Blair viene ormai sempre più spesso definito, proprio dalla stampa americana, come il pussycat di Bush. Mentre certamente non gli giova il fatto che Colin Powell continui a confidare in lui come l’interlocutore ragionevole in grado di operare affinché «il solco fra l’Europa e l’America non si approfondisca». Il governo laburista dovrebbe affrontare la questione dell’euro, che continua a pesare sull’equilibrio politico ed economico fra Europa e America: indire finalmente un referendum sull’adesione alla moneta unica e spingere a favore dell’integrazione britannica nell’Eurozona. La scelta non può più essere rinviata. La Gran Bretagna è parte essenziale dell’Unione europea e su questa base deve definire la propria identità, prima come Stato membro e solo secondariamente come alleato degli Stati Uniti, rinunciando ad essere l'alleato europeo privilegiato dell’America all’interno dell’Unione.

D’altra parte l’Unione europea deve delineare meglio il proprio disegno e dotarsi degli strumenti attraverso i quali impostare i suoi futuri progetti. Così come deve potenziare il ruolo riformatore che le appartiene, elaborando proposte capaci di tenere insieme le eterogenee realtà nazionali degli Stati membri e dei paesi candidati all’allargamento. In una tale prospettiva, se i protagonisti dei tradizionali «assi privilegiati» riusciranno nuovamente ad assumere un ruolo propulsore per il processo di integrazione e di definizione delle politiche dell’Unione verso l’esterno, ciò non sarà più un risultato scontato e inevitabile ma dovrà essere l’esito di un processo che scaturisca da contenuti concreti. Perché l’Europa deve per prima cosa ridefinire il proprio ruolo nel contesto del nuovo equilibrio geopolitico che scaturirà dall’allargamento dell’Unione e della NATO, vero e proprio spostamento dei confini europei a ridosso di paesi «difficili». E soprattutto deve dare una risposta alla necessità di impostare con la Russia una relazione che non sia in contraddizione con l’evoluzione dei rapporti tra Mosca e Washington, ma che si fondi su un dialogo e su una cooperazione inspirati da considerazioni più ampie della sola lotta al terrorismo internazionale.

L’alleanza che si è costituita dopo l’11 settembre sembra infatti aver trovato la sua principale ragione d’essere nella necessità di sostenere l’intervento militare in Afghanistan. Per avere un senso politico, tuttavia, essa deve alimentarsi della condivisione di principi e valori comuni tra i diversi attori che la compongono. L’Europa in questo momento sembra invece voler delimitare la sua relazione con la Russia, seguendo l’esempio degli americani, alla sola lotta al terrorismo. Il che non è certamente sufficiente per passare ad una fase più avanzata del dialogo fra Europa e Russia - e fra Russia e Stati Uniti - poiché qualsiasi forma di approfondimento delle relazioni con Mosca non può prescindere dalla considerazione dei valori fondamentali che devono animare un’intesa multilaterale. Di fatto ciò significa porre il problema delle libertà democratiche e della solidità della vita democratica in Russia, su cui inevitabilmente e negativamente si riflette la «politica dei massacri» condotta dall’esercito russo nel conflitto ceceno. Limitare la collaborazione con Mosca alla dimensione del terrorismo internazionale, senza che sia riconosciuta al tempo stesso la necessità di una democratizzazione reale della Russia, renderebbe a lungo termine improduttivi anche gli accordi che gli Stati Uniti e la NATO hanno di recente formalizzato con la Russia. Il Consiglio dei venti, il trattato sul disarmo nucleare e la continua ricerca di un compromesso sugli sviluppi del sistema di difesa missilistico statunitense dovrebbero infatti disegnare un nuovo assetto di potere nel mondo e consacrare, o almeno confermare, la fine della guerra fredda. E tuttavia questi non sono che aspetti formali, per quanto da non sottovalutare, di una collaborazione che resterà inevitabilmente parziale senza il fondamentale ricorso a valori condivisi. Quei valori che presuppongono il rispetto da parte della Russia dei grandi principi su cui si fonda la democrazia: a partire dal rispetto dei diritti umani, questione spinosa e pregiudiziale affinché la relazione con la Russia divenga davvero un’alleanza proiettata nel futuro.

D’altra parte l’11 settembre ha rappresentato nella psicologia statunitense la conferma che in ultima analisi il potere di decidere, a maggior ragione quando è l’America ad essere colpita sul proprio territorio, non spetta che alla sola America. È un tratto che potrebbe rivelarsi pericoloso, poiché confermerebbe che al di là dell’aggregazione di una eterogenea coalizione intorno alla causa comune del momento, gli alleati europei non sono riusciti a dimostrare agli americani la necessità di una politica multilateralista. La politica di coalizioni a geometria variabile su cui gli Stati Uniti continuano a puntare, nel caso della Russia come nel caso del Medio Oriente, non è mossa di fatto dalla volontà di stabilire una collaborazione paritaria con gli alleati. Si tratta invece di una politica che muove da una posizione di superiorità e che cerca di persuadere gli alleati della correttezza delle decisioni americane senza avere come priorità la ricerca di orizzonti comuni. Difficilmente si potrebbe definire multilaterale questa politica estera, malgrado gli sforzi di alcuni dei suoi principali attori (Colin Powell per primo) a trovare le argomentazioni appropriate per giustificare la necessità di operare secondo le linee dettate dagli Stati Uniti. L’America si trova oggi in una condizione di «splendido isolamento ideologico», la cui manifestazione più immediata è la risolutezza a decidere in quanto parte lesa i modi e le strategie di risposta e di difesa.

Dietro ad un’impostazione della politica estera degli Stati Uniti così chiaramente unilateralista emerge, in maniera preoccupante, il suo legame con la tradizione politica americana. Il che diventa ancora più inquietante se si riflette sull’assenza, nel panorama politico statunitense, di una forza alternativa a quella dell’amministrazione Bush che si faccia promotrice di un progetto non tanto concorrenziale quanto diverso e innovativo. È dunque inevitabile concentrarsi sul tema per noi davvero fondamentale: dobbiamo discutere meno dell’America, poiché quello di cui abbiamo veramente bisogno è più Europa. E l’Europa deve definire e rafforzare la propria identità di attore internazionale che aspira ad essere riconosciuto come tale dai propri interlocutori. Di fatto l’Europa sarà considerata dagli americani su una base a tutti gli effetti paritaria solo nel momento in cui il presidente dell’Unione europea si recherà in visita negli Stati Uniti e verrà accolto con manifestazioni di sostegno o di critica come qualsiasi altro capo di Stato. Solo allora l’Europa sarà presa sul serio e le sarà riconosciuto il ruolo determinante che ha dimostrato di avere in tutti quegli interventi internazionali – Bosnia, Kossovo, Afghanistan – dove è stata avviata una strategia efficace nella fase di ricostruzione civile ed economica. Un merito innegabile degli Stati Uniti è la capacità di intervenire militarmente quando ciò si dimostra necessario, ma alla pianificazione della strategia iniziale di intervento gli USA non riescono a dare un seguito di politiche economiche e civili chiare e convincenti. E ciò che resta è spesso solo un quadro caotico in cui non si riesce a costruire niente di positivo. È dunque necessario che, come contrappeso all’atteggiamento isolazionista dell’America, gli europei prendano iniziative politiche nei vari scenari di crisi in cui l’assenza di una linea precisa da parte dell’Europa diventa motivo di ulteriore instabilità.

Le divergenze fra l’America e gli alleati europei sulla questione dell’intervento in Iraq, più volte minacciato e probabilmente imminente, ne sono un esempio. Qui, di nuovo, il ruolo dell’Europa si rivela fondamentale. Poiché se gli Stati Uniti sostengono che fare la guerra al regime dittatoriale di Saddam Hussein significa andare alle cause più profonde della lotta al terrorismo, secondo le stesse intenzioni degli alleati della coalizione anti-terrorismo, in realtà l’intervento militare non rappresenterebbe affatto il modo più adatto per sconfiggere quel regime. Gli europei devono farsi promotori di iniziative politiche che perseguano un duplice obiettivo: rafforzare la lotta contro il potere dittatoriale di Saddam e tutelare la condizione dei curdi e delle altre minoranze; spingere verso un’apertura del paese, dimostrando che la riduzione o la fine dell’embargo dipende dall’avvio di un processo di democratizzazione del paese. Un’iniziativa politica efficace in Iraq renderebbe il ricorso a una nuova dimostrazione di hard power dell’amministrazione Bush incompatibile con l’obiettivo di instaurare un regime democratico. L’Europa dimostrerebbe così che una politica europea è possibile e necessaria per instaurare un rapporto nuovo e paritario con gli Stati Uniti. Perché lo slogan «con noi, o contro di noi» non basta più.