La modernizzazione ecologica

Di Edo Ronchi Mercoledì 01 Gennaio 2003 02:00 Stampa

Londra, capitale della rivoluzione industriale e, all’inizio del Novecento, città più grande del mondo, è stata a lungo anche la capitale mondiale dell’inquinamento. Il termine smog nasce proprio lì e indica la somma di smoke e fog, di fumo e nebbia. La situazione dell’inquinamento costituiva allora un problema di enormi dimensioni. È passata alla storia la morte di oltre quattromila londinesi nel dicembre 1952 quando la città fu avvolta per sette giorni consecutivi da una intensa nebbia: basse temperature, assenza di vento, emissioni inquinanti del riscaldamento domestico e degli impianti industriali a carbone provocarono una vera strage.

 

Londra, capitale della rivoluzione industriale e, all’inizio del Novecento, città più grande del mondo, è stata a lungo anche la capitale mondiale dell’inquinamento. Il termine smog nasce proprio lì e indica la somma di smoke e fog, di fumo e nebbia. La situazione dell’inquinamento costituiva allora un problema di enormi dimensioni. È passata alla storia la morte di oltre quattromila londinesi nel dicembre 1952 quando la città fu avvolta per sette giorni consecutivi da una intensa nebbia: basse temperature, assenza di vento, emissioni inquinanti del riscaldamento domestico e degli impianti industriali a carbone provocarono una vera strage. Ci vorranno circa trenta anni per arrivare, negli anni Ottanta, a ripulire l’aria, con una legislazione anti-inquinamento sempre più rigorosa che eliminò il «fumo di Londra», sostituendo il carbone con gas o elettricità negli usi domestici, migliorando e decentrando molte produzioni industriali.

La stessa strada fu seguita anche dalle altre importanti città ed aree industriali del pianeta. Il distretto industriale della Ruhr, il più importante della Germania, è stato fortemente inquinato fino agli anni Sessanta e solo nel trentennio successivo fu oggetto di normative ambientali che hanno prodotto tagli drastici delle emissioni inquinanti. Negli Stati Uniti, le principali città industriali, da New York a Pittsburg, da Chicago a St. Louis, per citarne alcune, sono state grandi divoratrici di energia, in particolare di carbone, e anche fortemente inquinate, almeno fino agli anni Sessanta, quando cominciarono a prendere provvedimenti che produrranno miglioramenti sostanziali. L’area più inquinata del Giappone era il distretto industriale di Hanshin che comprende un’impressionante continuità e commistione di abitazioni e industrie, attorno alle città di Osaka (chiamata non a caso dai giapponesi «città del fumo») e Kobe. Dopo le distruzioni causate dai bombardamenti statunitensi, Hanshin fu ricostruito rapidamente e divenne un luogo dove le industrie, per il «superiore interesse nazionale», ebbero licenza di inquinare selvaggiamente. Il problema fu affrontato tardi, anche in Giappone, ma con decisione: nel 1955 il carbone costituiva la metà delle fonti energetiche primarie, nel 1975 era ridotto a un sesto; nel 1983 il consumo energetico per unità di prodotto dell’industria mineraria e manifatturiera era sceso a un terzo di quello del 1973.

Aiutati da un recente lavoro storico di Mc Neil,1 dagli esempi sommariamente citati traiamo le seguenti conclusioni: la questione ambientale fu affrontata con risultati positivi dai paesi industrializzati come questione locale a partire da talune città e località di particolare rilievo e nella parte finale, più matura, del processo di industrializzazione. Ritengo che si possa parlare di modernizzazione ecologica dei sistemi di produzione negli ultimi decenni del secolo scorso perché i consistenti miglioramenti ambientali furono realizzati, nei paesi industriali più avanzati, con innovazioni organizzative, di gestione, tecnologiche, di processo e di prodotto, come fattori costitutivi di un più avanzato livello di sviluppo. Non che le politiche ambientali di quegli anni non avessero oppositori: in tutti gli esempi considerati, gli oppositori c’erano ed erano anche consistenti; ma non prevalsero. Le loro previsioni sulla perdita di competitività e sui costi eccessivi causati dalla nuova legislazione ambientale si rivelarono infondate. In molti casi, al contrario, la modernizzazione ecologica fu anche un buon affare: promosse efficienza energetica e risparmio di combustibile, ricerca e innovazione, una più forte identificazione sul mercato del prodotto più pulito come migliore e più competitivo. Un esempio è quello della benzina additivata col piombo. Questo additivo che migliora il potere antidetonante e lubrifica le valvole fu impiegato per oltre cinquanta anni nelle benzine, anche se si conoscevano i suoi effetti nocivi per la salute. Nonostante le proteste delle compagnie petrolifere e anche di alcune case automobilistiche, la benzina con piombo fu vietata nei paesi industriali, dagli Stati Uniti al Giappone, all’Europa, a partire dalla fine degli anni Ottanta. L’abolizione della benzina con piombo, incompatibile con l’adozione di marmitte catalitiche poiché il piombo le mette fuori uso, non mise in crisi né i petrolieri, né il mercato dell’auto. I petrolieri modificarono il processo di raffinazione e i costruttori di auto introdussero alcune modifiche ai motori e dotarono le auto di marmitte catalitiche, continuando a vendere come prima; anzi, chi arrivò prima a produrre benzine e auto meno inquinanti si aggiudicò anche vantaggi di mercato.

 

L’ambiente alla fine del XX secolo

Nonostante i miglioramenti introdotti in alcuni paesi industrializzati e in talune produzioni e prodotti, il bilancio sulle condizioni ambientali del pianeta, ufficializzato e ampiamente condiviso al World Summit delle Nazioni Unite sullo Sviluppo sostenibile tenutosi, dieci anni dopo Rio, a Johannesburg tra la fine di agosto e i primi di settembre del 2002, è pesantemente negativo e in peggioramento.

Dal 1980 al 2000 le emissioni di carbonio in atmosfera, infatti, sono aumentate da 4,6 a 6,1 miliardi di tonnellate, contribuendo ad aggravare l’effetto serra e i cambiamenti climatici. Dal 1990 al 2000 la terra ha perso un totale netto di novantaquattro milioni di ettari di foreste. Più di 11.000 specie sono state incluse negli elenchi di quelle minacciate di estinzione; circa un quarto delle barriere coralline mondiali è stato distrutto; più di un quarto dei banchi di pesca mondiali è sfruttato a un livello superiore alla sua possibilità di riproduzione. L’elenco potrebbe continuare, ma la conclusione è chiara: l’inquinamento produce ormai danni globali e le risorse naturali sono sempre più intaccate; alcuni miglioramenti ambientali locali e/o settoriali, seppure rilevanti, non sono sufficienti a rendere sostenibile l’attuale tipo di sviluppo.

Nel XX secolo la popolazione mondiale è quasi quadruplicata (da 1,6 a 6,1 miliardi); l’economia mondiale è cresciuta molto più della popolazione, il PIL mondiale è aumentato infatti di quattordici volte; i consumi di energia di ben sedici volte e la produzione industriale di quaranta. Senza dimenticare il fatto che una parte consistente della popolazione mondiale nei paesi in via di sviluppo, nonostante la crescita economica e industriale, continua a essere esclusa da ogni forma di benessere e vive in condizioni di estrema povertà: ottocento milioni di persone soffrono la fame, un miliardo e duecento milioni vivono con meno di un dollaro al giorno. Siamo, quindi, in presenza di un doppio problema globale dell’attuale tipo di sviluppo: una insostenibilità ecologica e una sua non estendibilità a molta parte delle popolazioni del pianeta. Per capire meglio questa affermazione consideriamo l’esempio del petrolio, la risorsa naturale economicamente più importanti del XX secolo e che maggiormente influisce sul più grave problema ambientale globale: il cambiamento climatico. Gli americani hanno consumato nel 2000 3,5 tonnellate di petrolio a testa; gli europei 1,5 tonnellate a testa; le popolazioni dei paesi in via di sviluppo (PVS), solo 0,25 tonnellate a testa. Per estendere alle popolazioni dei PVS i consumi degli europei, già più moderati di quelli americani, supponendo che nel frattempo i consumi americani ed europei non crescano, occorrerebbero ancora 6,2 miliardi di tonnellate di petrolio, quasi triplicando i consumi attuali. Ciò comporterebbe un insostenibile aumento delle emissioni di anidride carbonica, un incremento del prezzo del barile tale da produrre un vero shock all’economia internazionale. Ammettendo che fosse disponibile una capacità produttiva per far fronte a una simile crescita della domanda, sarebbe comunque accelerato l’esaurimento delle riserve e verrebbero fortemente alimentati i conflitti, politici e militari, per il controllo dei giacimenti di petrolio (che sono per il 78% nei paesi OPEC). La conclusione di queste valutazioni, a me pare chiara: il modello di produzione e di consumo a alto contenuto di petrolio non è né sostenibile a lungo, né estendibile alla gran parte delle popolazioni della terra.

 

La via di Johannesburg

«Lo sradicamento della povertà, il cambiamento dei modelli insostenibili di produzione e consumo e la protezione e la gestione delle risorse naturali, fondamentali per lo sviluppo economico e sociale, sono contemporaneamente obiettivi principali e presupposti essenziali per lo sviluppo sostenibile».2 Ritengo che la più importante novità di Johannesburg sia proprio la rilevanza attribuita al cambiamento dei modelli di produzione e di consumo insostenibili, cambiamento collocato tra i tre obiettivi e presupposti fondamentali dello sviluppo sostenibile. Nel terzo capitolo del piano di Johannesburg sono riassunti i contenuti di una modernizzazione in chiave ecologica dei modelli di produzione e di consumo. In linea generale viene proposto di «sviluppare politiche di produzione e di consumo che migliorino i prodotti ed i servizi forniti riducendo gli impatti sull’ambiente e sulla salute», aumentando notevolmente l’ecoefficienza, in modo da poter fare di più e meglio, per far fronte ai bisogni di tutte le popolazioni della terra, con minor consumo di risorse naturali e minore inquinamento. Si afferma, inoltre, che occorre «aumentare notevolmente e con urgenza la quota globale delle fonti di energia rinnovabile», insieme a «un uso più efficiente dell’energia» e a «un’accelerazione delle tecnologie ad alta efficienza energetica».

Per i trasporti, altro settore strategico, il piano indica la necessità di avere trasporti «accessibili, efficienti e comodi», con tecnologie veicolari, modalità e destinazioni d’uso del territorio che consentano di migliorare la qualità dell’aria delle città e di ridurre l’emissione di gas-serra, nonché la congestione del traffico. Per questo sarà necessario: «promuovere gli investimenti e i partenariati per lo sviluppo di sistemi di trasporto multi-modali sostenibili e a risparmio energetico, compresi sistemi di trasporto pubblico collettivi». Il terzo settore nel quale viene posta l’attenzione del piano di Johannesburg riguarda i consumi di materiali per i quali si richiede di «minimizzare e prevenire gli sprechi e massimizzare il riutilizzo, il riciclaggio e l’uso di materiali ecocompatibili (…) per minimizzare gli effetti nocivi sull’ambiente e migliorare l’efficienza delle risorse». Il che comporta, tra l’altro, di «promuovere la prevenzione e la minimizzazione dei rifiuti incoraggiando la produzione di beni di consumo riutilizzabili e di prodotti biodegradabili», nonché «costruire sistemi di gestione dei rifiuti dando la massima priorità alla prevenzione e alla minimizzazione dei rifiuti, al riuso e al riciclaggio (...)».

Infine, l’attenzione viene posta sui prodotti chimici e i rifiuti pericolosi, generati in grandi quantità e diffusi praticamente in tutto il pianeta, per i quali si richiama la necessità di applicare il principio di precauzione. Per la realizzazione di questi obiettivi viene proposta una vasta gamma di strumenti che vanno dal rafforzamento della ricerca scientifica e tecnologica agli incentivi economici e fiscali, dall’orientamento dei consumatori alla responsabilizzazione delle imprese con sistemi di contabilità e di certificazione ambientale.

 

La modernizzazione ecologica all’inizio del XXI secolo

Il World Summit di Johannesburg fornisce una chiave di lettura delle politiche ambientali globali, all’inizio di questo nuovo secolo, consentendo alcuni confronti con quelle attuate nei paesi più industrializzati negli ultimi decenni di quello passato. Le politiche ambientali degli ultimi decenni del secolo scorso erano essenzialmente locali, attuate per affrontare problematiche anche gravi, ma con impatti sostanzialmente circoscritti. Nelle politiche ambientali del nuovo secolo ha grande peso la tutela dei global commons, dei beni globali di interesse comune, come l’atmosfera, il clima, la biodiversità. La globalizzazione dei mercati, dei nostri modelli di produzione e di consumo, ha compiuto enormi passi avanti in pochi decenni. L’insostenibilità dei nostri modelli di produzione e di consumo, a elevato spreco di risorse, basati su energia fossile e con elevato inquinamento, è diventata ormai globale. Il summit di Johannesburg, alla ricerca di una via per assicurare a tutte le popolazioni della terra uno sviluppo durevole e possibile, propone una modernizzazione ecologica dei modelli di produzione e di consumo, non più riferita solo agli impatti locali, non più come politica successiva allo sviluppo industriale, ma come costitutiva della stessa qualità dello sviluppo.

Questa impostazione è stata anticipata dall’Unione europea che, non a caso, a Johannesburg ha svolto un ruolo di punta. In particolare, con il «processo di Cardiff» (dalla città gallese dove, nel giugno 1998, si riunì il Consiglio europeo), l’Unione ha avviato l’integrazione delle politiche ambientali e di sviluppo sostenibile in tutti i principali settori economici (trasporti, energia, agricoltura, mercato interno, industria, cooperazione, pesca, economia e affari generali) con l’adozione, per misurare i progressi, di indicatori settoriali di sviluppo sostenibile. Successivamente, con la «strategia di Lisbona», è stato definito il «pilastro sociale» del progetto di sviluppo sostenibile, per sradicare la povertà, combattere la disoccupazione e l’esclusione sociale, con l’obiettivo di dare vita, in Europa, all’economia più dinamica e competitiva del mondo. Il «processo di Cardiff» e la «strategia di Lisbona» sono due facce della stessa medaglia: la sostenibilità viene, infatti, promossa in un contesto di innovazione, di efficienza e la competitività viene perseguita con politiche che assicurino migliore qualità, migliore utilizzo di risorse scarse, maggiore efficienza energetica e minori impatti ambientali. In questo modo la modernizzazione ecologica, mettendo in sinergia sostenibilità e competitività, può diventare un fattore decisivo per lo sviluppo di economie più avanzate: le economie della conoscenza e dei servizi, fondate sulla preziosa e rinnovabile risorsa dell’intelligenza con le sue protesi tecnologiche e informatiche, capaci di ridurre i consumi di risorse naturali e gli impatti, non solo locali, ma anche globali. Capaci, inoltre, di promuovere cambiamenti di consumi e di stili di vita, con più qualità e sobrietà, maggiore consapevolezza e capacità culturale di relazione.

Il problema di questa prospettiva economica, sociale ed ecologica, non è tanto nei suoi obiettivi finali, sui quali non è difficile costruire ampi, anche se ovviamente non unanimi, consensi. Il problema è l’atterraggio morbido verso quella prospettiva: atterraggio morbido necessario per avere quel consenso che, nei sistemi democratici, è indispensabile per attuare politiche rilevanti e anche per costruire intese tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo, per affrontare i temi di rilevanza globale. Alla fine del secolo scorso, per un insieme di fattori, la modernizzazione ecologica ha trovato nei paesi più industrializzati la via per un atterraggio morbido. All’inizio di questo nuovo secolo, nel contesto di una più estesa globalizzazione, tale via, che richiede maggiori e più radicali innovazioni e più complessi approcci multilaterali, risulta più difficile da tracciare e da percorrere. 

 

 

Bibliografia

1 J.R. Mc Neil, Qualcosa di nuovo sotto il sole. Storia dell’ambiente nel XX secolo, Einaudi, Torino 2002.

2 Cfr. Plan of Implementation del World Summit di Johannesburg, 4 Settembre 2002.