Le cause del declino italiano

Di Ferdinando Targetti Lunedì 02 Giugno 2003 02:00 Stampa

Dagli anni Settanta si assiste a una caduta tendenziale del saggio di crescita medio annuo del prodotto effettivo e del prodotto potenziale della nostra economia. Negli anni Settanta il saggio di crescita effettivo è stato del 3,6%; negli anni Ottanta il saggio di crescita effettivo è stato del 2,4% e quello potenziale del 3%; negli anni Novanta: effettivo 1,5%; potenziale 2%; nel 2001-2003: effettivo tra 0 e 1%, potenziale tra 1 e 2%.

 

Il declino italiano

Dagli anni Settanta si assiste a una caduta tendenziale del saggio di crescita medio annuo del prodotto effettivo e del prodotto potenziale della nostra economia. Negli anni Settanta il saggio di crescita effettivo è stato del 3,6%; negli anni Ottanta il saggio di crescita effettivo è stato del 2,4% e quello potenziale del 3%; negli anni Novanta: effettivo 1,5%; potenziale 2%; nel 2001-2003: effettivo tra 0 e 1%, potenziale tra 1 e 2%.

 

L’analisi della crescita dal lato dei fattori impiegati

Analizziamo la crescita potenziale dell’economia italiana indagando i fattori capitale e lavoro. La fonte del nuovo capitale privato è data dal risparmio. In Italia il risparmio familiare rispetto al reddito disponibile è diminuito dal 29% del 1985 al 12% del 2001. Eravamo più alti della media europea, ora siamo nella media. Le infrastrutture pubbliche, trasporti, energia, telecomunicazioni, istruzione, sono inferiori rispetto a quelle degli altri paesi europei con un grado di sviluppo analogo al nostro, e la spesa in questo settore rispetto al PIL è in calo tendenziale negli ultimi trenta anni (negli ultimi dieci anni è dell’1,5%).

Per quanto riguarda il lavoro la partecipazione delle forze lavoro sulla popolazione in età lavorativa è più bassa della media europea (60 contro 70), la disoccupazione è più elevata (9 contro 7). Pochi italiani lavorano, e quelli che lavorano sono occupati per relativamente poco tempo (1.543 ore l’anno contro le 1.805 degli Stati Uniti). Quindi anche se il PIL per lavoratore è elevato il PIL per abitante resta basso. In sintesi possiamo quindi affermare che nel tempo, rispetto ai paesi europei più maturi, l’Italia perde un vantaggio comparato di crescita, l’elevata propensione al risparmio, mantiene un gap dal lato dell’impiego delle forze di lavoro e accresce il gap dal lato delle infrastrutture.

Analizziamo ora la produttività di questi fattori. La produttività oraria dei lavoratori italiani dal 1950 al 1980 è cresciuta a tassi molto alti ponendo il paese ai vertici dei paesi industrializzati (a valori più elevati dell’Inghilterra, della Germania e del Giappone). La spiegazione va forse cercata nella tesi, che Sylos Labini definisce delle «macchine di Ricardo», secondo la quale salari reali crescenti inducono una sostituzione di capitale a lavoro con accelerazione della produttività e decelerazione dell’occupazione. Negli ultimi venti anni però qualcosa è cambiato. La crescita della produttività ha cominciato a flettere (anni Ottanta: 2,7%; tra il 1990 e il 1995: 2,5%; tra il 1996 e il 2001: 1,1%). La spiegazione viene sia dalla caduta della dinamica del prodotto (secondo la legge di Kaldor-Verdoorn), sia dalla caduta dell’accumulazione del capitale (anni Ottanta: crescita di 2,3% annuo; anni Novanta: 1,6%). Se si passa dalla produttività del lavoro alla produttività totale dei fattori il calo è ancora più drammatico: 1,6% annuo nel 1986-90; 1,1% nel 1991-95; 0,4% nel 1996-2000.

 

Lo stimolo della domanda

Da sempre si contrappongono le due teorie della crescita (classica e keynesiana); la prima trova la causa della crescita nell’offerta di fattori (di cui abbiamo dato conto), la seconda invece nella domanda di prodotti. Una posizione articolata che vede il motore nella crescita della domanda esogena e nel progresso tecnico è forse quella da preferire; la crescita può tuttavia essere vincolata da rigidità che si rilevano sul terreno dell’offerta dei fattori. La domanda esogena per eccellenza è la domanda di esportazioni sul mercato mondiale (di beni e servizi, l’Inghilterra ha conosciuto una ripresa della crescita degli anni Ottanta e Novanta grazie a questi ultimi). Dall’analisi delle esportazioni e della competitività esterna si comprendono le deficienze dal lato della produzione. Le esportazioni italiane hanno decelerato negli ultimi cinque anni (5% tra il 1981 e il 1995; 3,8% tra il 1996 e il 2001; -1% nel 2002). La quota italiana del commercio mondiale negli anni Novanta è caduta, e questo è ovvio dato l’ingresso di paesi come la Cina, ma la caduta, dal 5 al 3,7%, è stata maggiore di quella degli altri paesi europei. Questi hanno una quota del commercio mondiale doppia rispetto a quella del loro PIL su quello mondiale, sono quindi competitivi, l’Italia invece ha due quote quasi uguali (3,7 di quota di commercio e 3,1 di quota di PIL). Il difetto principale del prodotto italiano è quindi nella qualità, nella composizione merceologica, nel vecchio pertinace modello di specializzazione. I produttori italiani non sembrano più in grado di produrre «cose che piacciono al mondo» (come affermava Carlo Cipolla): di rispondere innovando e riallocando le risorse ai mutamenti nei vantaggi comparati.

 

L’innovazione

Soffermiamoci quindi sulle innovazioni.1 E si considerino tre indicatori sociali delle potenzialità di introduzione dell’innovazione. Il primo è il numero di anni di scolarità media, che in Italia è di 7,2 (come in Spagna e nell’America Latina spagnola), di poco superiore all’età media mondiale che è 6,4 e inferiore ai principali paesi europei (Francia, Regno Unito e Germania da 8 a 10), al Giappone (9,5), ai New industrial countries (NIC) asiatici (da 7 a 11), ai paesi scandinavi e agli Stati Uniti (tra 11,5 e 12).2 Il secondo è il numero di personal computer per 100 abitanti che in Italia è 18, mentre la media mondiale è di 10, da 22 a 48 nei NIC, 32 in Giappone, 39 nell’OCSE in media, 50 in Scandinavia e 59 negli Stati Uniti.3 Infine la percentuale della popolazione che usa Internet: 11 come valore medio mondiale, 28 in Italia, da 33 a 51 nei NIC, 40 nell’OCSE in media, 50 negli USA e tra 50 e 60 in Scandinavia.4 Come si vede da questi dati l’investimento in capitale umano in Italia è molto basso in relazione al resto del mondo: siamo più vicini ai paesi intermedi, che ai paesi sviluppati.

Anche l’investimento delle imprese in ricerca e sviluppo (ReS) non è ai livelli dei paesi sviluppati. Misurato in termini di PIL in Italia nel 1998 è infatti dello 0,55% (era 0,75% nel 1990), 1,1% nell’Unione Europea, 1,5% nell’OCSE, 2,1% negli Stati Uniti, in Giappone e in Corea, quasi 3 in Svezia. In Europa solo Grecia, Spagna e Portogallo, Polonia e Ungheria, ma non la Repubblica Ceca, registrano dati peggiori rispetto a quelli dell’Italia.5 Questi dati sul basso investimento in capitale umano e in ReS spiegano lo scarso grado di innovatività del nostro paese. Come è noto si tratta di un dato difficile da misurare, tuttavia se si prende a indicatore la percentuale di brevetti non americani registrati negli Stati Uniti si osserva che l’Italia ha il 2% come la Svezia (la cui popolazione è meno di un quinto di quella italiana), mentre Canada, Francia, Regno Unito, Taiwan e Corea hanno più del 5% ciascuno, la Germania il 14%, il Giappone il 45%.

 

Le cause del declino

Le cause del declino italiano sono sostanzialmente tre. Il declino della competitività è la causa che ha forse radici più lontane nel tempo. L’elevato onere del debito pubblico sul PIL i cui effetti si avvertono a partire dagli anni Ottanta. L’invecchiamento della popolazione, quest’ultima causa più recente ma che condizionerà a lungo il nostro futuro. Considereremo i tre grandi macroattori a cui va merito e responsabilità di crescita e declino dell’economia italiana: imprese, lavoratori e Stato. Le imprese Dall’ultima relazione della Banca d’Italia appare che nel nostro paese nel periodo 1991-2001 la quota del capitale nella distribuzione del valore aggiunto (a prezzi base) è cresciuta nel settore privato in misura superiore a quanto avvenuto in Francia, Spagna e Germania. Nello stesso periodo, per le imprese italiane non finanziarie, si è assistito a un aumento della quota del capitale sul valore aggiunto di oltre due punti percentuali, se poi si sottraggono gli oneri finanziari (in calo dopo l’ingresso dell’Italia nell’area euro) e le imposte (in calo per le imprese nella seconda metà del decennio) la quota dei profitti al netto degli ammortamenti è cresciuta di cinque punti percentuali.6 Quindi condizioni più favorevoli sul mercato del lavoro e sul mercato del credito non hanno comportato negli ultimi 10-20 anni un elevato tasso di crescita degli investimenti. La profittabilità lorda di impresa e ancora più quella al netto degli oneri finanziari è stata elevata e oggi è ai massimi degli ultimi 30 anni, ma le imprese anziché rafforzare il tasso di accumulazione hanno preferito rafforzare il controllo proprietario. Questa politica ha frenato sia l’accumulazione, sia il ricambio di imprenditorialità.

Quattro milioni di unità produttive costituiscono una potenzialità (una ogni 15 abitanti, in Germania ve ne è una ogni 20). Tuttavia milioni di aziende rimangono di piccole dimensioni e nel sommerso: nell’industria il 95% delle aziende è sotto i 10 addetti. I distretti (40% della manifattura e 10% del PIL) compensano solo in parte questo pesantissimo limite. La mancata crescita dimensionale è responsabile del basso investimento in ReS di cui abbiamo parlato, della bassa accumulazione e del permanere del modello di specializzazione in settori maturi. Il problema non è tanto che ci siano tante imprese piccole e medie, quanto piuttosto che queste non crescano. L’azienda famigliare italiana ha avuto paura di crescere soprattutto perché gli azionisti temevano di perdere il controllo societario. Per converso la grande impresa è presente in poche unità e manca di dinamismo. L’indagine R&S-Mediobanca del gennaio 2003 su 274 grandi gruppi industriali multinazionali mette in luce la debolezza dei grandi gruppi italiani che sono presenti solamente in numero di 15 con un peso sul fatturato dei gruppi multinazionali europei del 6% rispetto al 35% delle francesi e al 23% delle tedesche e superati anche dai grandi gruppi di Scandinavia, Benelux e Svizzera.

Non solo le grandi imprese sono poche, ma contano meno di prima anche nel panorama nazionale. Molti dei settori che sono meno maturi e/o a crescita più rapida della domanda mondiale e/o con forti economie di scala richiedono organizzazioni aziendali complesse e dimensioni superiori a certe soglie, che spesso non è possibile ottenere con i distretti industriali. In settori come l’informatica, la chimica fine, la farmaceutica, la gomma e anche i mezzi di trasporto nel passato c’erano aziende italiane che competevano sui mercati internazionali. Molte imprese, private e pubbliche, sono declinate. Le vecchie famiglie tramontano e non vengono sostituite da nuove famiglie, né da public companies e poco anche da investitori stranieri.

La causa della mancanza di dinamismo risiede nella mancanza di concorrenza sul terreno del governo societario. Gli effetti si ritrovano nella ricerca di aree di rendita in settori protetti come l’edilizia o le public utilities privatizzate (elettricità, telefonia, autostrade); nel ritirarsi dalla competizione, che è difficile e globale, sui mercati maturi; nel non voler puntare su settori emergenti nuovi e rischiosi (bioingegnerie, l’industria dell’idrogeno ecc.); nella ricerca da parte delle famiglie proprietarie di una strategia di differenziazione degli investimenti in più settori: politica saggia per gli investimenti finanziari, generalmente fallimentare per quelli industriali. I limiti del nostro sistema di impresa sono nelle dimensioni e nell’assetto proprietario e nell’elevata domanda di protezione dell’imprenditoria italiana che si ripresenta come un fiume carsico che emerge costantemente nella nostra storia economica.7

 

I lavoratori e i sindacati

Sul fronte del lavoro la situazione italiana è meno drammatica di come spesso la si disegna: il salario reale cresce meno della produttività, il salario nominale è più alto al Nord che al Sud, il turnover aziendale è in aumento e simile a quello di altri paesi europei (dal 25 al 35% dei dipendenti all’anno). La flessibilità in entrata (contratti di assunzione e di prestazioni lavorative) è grandemente aumentata negli anni Novanta; la flessibilità in uscita (licenziamenti) presenta ancora delle storture a cui tuttavia è a mio parere difficile attribuire gravi responsabilità del declino economico del paese. I sindacati all’interno di una generale politica per lo sviluppo dovrebbero porsi un obiettivo di ottima dinamica salariale: non troppo alta, poiché superando la dinamica massima di produttività provocherebbe inflazione e/o indebitamento di impresa (anni Settanta); né troppo bassa (anni Novanta) poiché in questo caso non provocherebbe quello shock competitivo a cui le imprese cercano di far fronte attraverso gli investimenti produttivistici alla Ricardo-Sylos Labini. Detto questo tuttavia, per una generale politica dello sviluppo i sindacati dovrebbero coniugare i diritti dei lavoratori con la mobilità del lavoro che è condizione necessaria alla mobilità del capitale-impresa tra aree geografiche e tra settori, senza la quale molte tipologie di aumento della produttività verrebbero inibite. Dovrebbe essere condivisa l’opinione che gli ammortizzatori sociali e le tutele dei lavoratori devono spostarsi il più possibile dal livello di impresa, la quale deve poter adeguare la sua capacità produttiva alla domanda, che varia sia per fatti ciclici sia strutturali, a livello del sistema economico complessivo: reddito minimo garantito, formazione permanente, integrazione di reddito e contributi sociali nelle fasi di vita di non lavoro involontario. Da un lato dobbiamo rifiutare l’idea che la mancata flessibilità del lavoro sia la causa principale del declino e della bassa partecipazione al lavoro nel nostro paese: infatti le normative sulla flessibilità sono le stesse in Lombardia e nel resto del paese, mentre invece in Lombardia il tasso di partecipazione è del 64% contro il 60% nazionale e il tasso di disoccupazione è solo del 4,4% contro il 9% nazionale (2000). D’altro lato non ci deve venir meno il coraggio riformista. Infine ai sindacati si pone un ulteriore, complesso problema: il contenimento della spesa pensionistica pubblica di cui si tratterà più avanti.

 

Lo Stato

Se le tre principali cause del declino italiano sono debito, competitività e invecchiamento della popolazione una politica per il rilancio economico richiede un complesso intervento di sistema. Il primo problema riguarda la «politica del debito pubblico». Il vincolo di bilancio pubblico in Italia stringe di più che negli altri paesi europei poiché è necessario rispettare non solo il contenimento del disavanzo, ma anche l’impegno di una riduzione annua di tre punti percentuali del debito. Il debito pubblico rispetto al PIL è diminuito dal 125% del 1995, al 110 di quest’anno. Rimane però del 50% più alto del valore medio europeo. Nonostante sia diminuito negli anni Novanta attraverso le privatizzazioni (9% del PIL) e grazie all’abbassamento degli oneri per interessi in seguito all’ingresso nell’area euro, entrambe le strade sono oggi più difficili soprattutto se si attribuisce a riduzione di deficit anziché di debito i ricavi delle cartolarizzazioni. Per ridurre annualmente il debito di tre punti percentuali rispetto al PIL, l’avanzo primario (AP) deve essere tra il 4 e il 5% del PIL, tenuto conto che partiamo da una situazione di debito/PIL del 110% e nell’ipotesi realistica che la crescita del reddito nominale non superi il 3% (2% di inflazione e 1% di crescita del reddito reale) e i saggi di interesse nominali che mediamente lo Stato paga sul debito siano circa il 4%. Questo dà un’idea di quanto più alta (circa tre punti percentuali) debba essere la pressione fiscale italiana in eccesso rispetto alla spesa pubblica corrente e per investimenti in confronto a quella di paesi che non hanno la necessità di ridurre il loro debito pubblico rispetto al PIL.

Il debito pubblico è un fardello sull’economia italiana per tre ragioni. La prima ragione afferisce alla politica anticiclica: diventa impossibile ricorrere a manovre di deficit spending per stimolare la crescita del reddito, anche nelle fasi basse del ciclo. Si è dunque costretti al massimo ad essere monetaristi in Italia e keynesiani in Europa. Le altre due ragioni sono di tipo strutturale. Un elevato avanzo primario obbliga (a parità di spesa) a mantenere alto il prelievo fiscale e deprime quindi il rendimento netto del capitale investito. Infine rende difficile la realizzazione di spese in capitale fisico e umano perché sono le prime a cadere in un programma di contenimento della spesa pubblica. In un mondo globalizzato queste spese acquisiscono non minore, ma maggiore importanza che in passato per consentire di progettare, realizzare e vendere un prodotto di grande serie, ma nel nostro paese, come si diceva, queste spese sono carenti rispetto agli altri paesi europei e in diminuzione tendenziale. Ci troviamo quindi nella condizione, per aumentare il contributo pubblico al capitale fisico e umano, di dover ridurre la spesa pubblica corrente (acquisto di beni e servizi, spese per il personale) e la spesa pensionistica anche a prescindere dalle condizioni demografiche di cui diremo più oltre.

Il secondo problema afferisce alla politica della competitività. Esistono due tipi di politiche, quelle che gravano sul bilancio pubblico e quelle che non gravano sul bilancio pubblico, ma che possono essere costose dal punto di vista del consenso politico. Delle prime, le politiche delle economie esterne ottenute con la spesa in capitale fisico e umano (infrastrutture ed educazione), si è già detto. Oltre a ciò una riflessione a parte andrebbe fatta in altra sede sul tema cruciale della riforma del sistema dell’istruzione e della formazione. Non meno importanti le seconde che afferiscono al ruolo regolatore dello Stato. Si ricordino le più rilevanti. 

 

Politica anti-corporazioni

Le corporazioni nel nostro paese sono numerose, potenti e corteggiate: dai tassisti ai controllori aerei, da molti settori della pubblica amministrazione ai camionisti, dai notai ai produttori di latte. Le corporazioni sono alla base del differenziale di inflazione in Italia in seguito a shock esterni (come ad esempio il recente change-over della moneta). Politica delle liberalizzazioni. I produttori di energia (sulla produzione e distribuzione) e di telefonia fissa (sulle reti) non sono abbastanza in concorrenza e le tariffe stentano a scendere. Politica della concorrenza. C’è una tendenza a livello europeo e a livello italiano di indebolire le istituzioni antitrust che va combattuta, ma la politica dell’antitrust italiana ha un certo grado di passività (muovendosi su denunce), non è in grado di monitorare e intervenire ex ante in settori con grado di monopolio elevato e crescente. Politica del governo societario. Sono necessari incentivi al ricambio imprenditoriale. Va evitata la difesa dei «campioni nazionali», soprattutto se decotti, anche se ciò non significa fare i primi della classe e abbandonare imprese italiane con potenzialità quando gli altri paesi europei non fanno lo stesso con le loro. A questo si aggiunga una riforma degli strumenti legislativi e fiscali che oggi operano a difesa dei «padroni del vapore» incapaci. In questo ambito ricade una legislazione societaria che elimini le piramidi e le scatole cinesi. Politica della legalità. Il pizzo e l’usura sono ancora la regola in vaste aree del paese; l’incertezza sulla normativa fiscale è grande; i tempi dei processi civili sono troppo spesso biblici; la tutela contro varie forme di criminalità commerciale (contrabbando, ad esempio) è carente; le politiche di condoni ripetuti inducono a una bassa fedeltà fiscale; le depenalizzazioni dei reati societari allontanano i risparmiatori dall’investimento diretto nelle imprese; la non punibilità di fatto dell’insider trading tiene lontano i risparmiatori dagli investimenti di Borsa. Tutto questo spiega il motivo per cui il tasso di investimenti esteri sul PIL è nel nostro paese tra i livelli più bassi nell’area euro.

Veniamo all’ultimo terreno di intervento relativo alle politiche pensionistiche, demografiche, e dell’immigrazione. È mia opinione che il divario di crescita, che negli anni Novanta si è manifestato tra gli Stati Uniti da un lato e l’Europa e il Giappone dall’altro, risieda più in elementi demografici che non nella flessibilità del mercato del lavoro. Le proiezioni demografiche danno questo dato strutturale stabile nel tempo. Paesi relativamente più vecchi soffrono di due deficienze: una minore capacità di introdurre innovazioni (sono i giovani ad innovare di più) e un onere di mantenimento dei vecchi maggiore che grava sui giovani (a prescindere dal sistema pensionistico), ai quali resta un reddito ridotto da investire in capitale umano. Le politiche di facile ingresso agli immigrati in un sistema in cui i cittadini hanno diritti civili, ma non diritti sociali (come negli Stati Uniti) spiegano in parte la diversità demografiche USA/Europa (i flussi netti verso gli USA sono di 3 ogni 1000 abitanti, nell’EU sono 2,2).

L’Italia è uno dei paesi con il più basso tasso demografico del mondo. Il rapporto degli ultra-settantenni sulla popolazione in età lavorativa è maggiore di quello registrato negli altri paesi OCSE (26,5% in Italia contro circa 24% in Francia, Germania, Regno Unito e Giappone, 21% nell’OCSE e 19% negli Usa) e in crescita (nel 2030 si prevede che i rapporti saranno circa 48% per l’Italia, 49% per la Germania, 44% per la Germania, 39% per Francia e Regno Unito, 37% per gli USA e 38% per l’OCSE). Ne derivano due problemi: uno finanziario, equilibrio del sistema pensionistico; l’altro reale, offerta di lavoro, che sono interconnessi. Dal punto di vista delle politiche entrambi gli aspetti vanno affrontati congiuntamente.

 

Pensioni

La riduzione, frutto della riforma Dini, della spesa pensionistica sul PIL avrà luogo, ma certamente non a breve. Si pone il problema per i prossimi anni. Le coorti che entrano nel lavoro oggi avranno trattamenti pensionistici futuri già molto ridotti. D’altra parte i diritti acquisiti difficilmente possono essere toccati e vanno tutelate le pensioni minori e aiutati coloro che hanno avuto percorsi lavorativi saltuari. Lo spazio di manovra è ridotto, ma esiste. Si possono indicare cinque punti di intervento. Il primo è quello del sostegno al pilastro pubblico e il rifiuto delle riduzioni delle aliquote contributive. Il problema della riduzione della spesa per pensioni non deve essere impostato come problema di decontribuzione per aumentare la competitività aziendale attraverso la riduzione dei costi, come è stato impostato dal governo di centrodestra, ma come un problema legato al bilancio pubblico: riduzione della spesa corrente a favore di spesa in conto capitale per creare investimento in capitale umano ed economie esterne. Il secondo è quello del versamento del Trattamento di fine rapporto per la costituzione della seconda gamba previdenziale: se il versamento è volontario la seconda gamba non decollerà mai, perché né le imprese, né i lavoratori vogliono versarlo. D’altra parte bisogna prestare la massima attenzione affinché sia evitato il rischio che i risparmi pensionistici vengano bruciati da lunghe ondate di ribassi di Borsa. Il terzo riguarda gli incentivi alla prosecuzione volontaria che sono insufficienti a fronteggiare il problema dell’innalzamento della vita attesa a parità di trattamento; un maggior coraggio riformatore si impone e va innalzata poco alla volta nel tempo la soglia di pensionamento di vecchiaia (di un anno nel prossimo quinquennio e di due in quello successivo). Questa politica deve essere perseguita insieme a quella (perseguita da norme e da contrattazione sindacale) della crescita della partecipazione al lavoro degli ultra-cinquantacinquenni che in Italia è molto bassa (meno del 30%, cifra inferiore alla metà di quella che si registra nei paesi europei più avanzati come i paesi scandinavi). A questa misura andrebbe aggiunta l’estensione pro-quota del sistema contributivo per tutti. Infine una proposta importante necessaria in un mondo in cui sempre di più prevalgono molteplici figure di lavoratore è la proposta di consentire contributi figurativi e cumulabilità tra diverse gestioni ai lavoratori con percorsi di lavoro saltuario e discontinuo. Si tratta di una misura costosa e va finanziata all’interno della spesa complessiva di previdenza e assistenza.

 

La politica demografica

Un aumento del tasso demografico richiede una politica di sostegno alla famiglia che dovrebbe basarsi su due strumenti. Il primo è l’offerta di servizi reali a famiglie con figli, che è stato uno dei fattori di aumento del tasso demografico scandinavo. Il secondo su una riforma dell’IRPEF che ottenga la progressività attraverso un sistema di detrazioni basate su un’imposta negativa erogata in relazione al reddito famigliare. Questa misura potrebbe conciliare un sistema fiscale perequativo a favore della famiglia, risolvere il problema dell’incapienza e conciliarsi con il principio costituzionale sulla individualità dell’imposta personale dei redditi.8 Si noti che la riforma Tremonti conduce a un sistema a bassa o nulla progressività non perché ci sono poche aliquote, ma perché l’aliquota alta è riferita a uno scaglione vuoto e il sistema di detrazioni non risolve il problema dell’incapienza.

Sulla politica per l’immigrazione si può partire, forzando la realtà, ma per rendere il discorso chiaro, dall’assunto secondo cui l’offerta è infinitamente elastica, la domanda determina l’afflusso, la politica delle quote decide quale percentuale di questo afflusso è legale, il residuo è illegale. Tanto più la politica è restrittiva, tanto più cresce l’illegalità e tanto più soffrono le casse dello Stato, perché il lavoro illegale non paga tasse e contributi. Una buona politica è data da: quote determinate dalla domanda, politica attiva dell’integrazione e controllo sulla regolarità nelle imprese.

Il declino economico italiano è un fatto reale, ma non ineluttabile. Innanzitutto ci vuole consapevolezza che il problema esiste, essendo gli italiani molto ricchi (in un confronto mondiale) possono essere tentati dal rimuovere il problema. In secondo luogo individuare i fattori sociali ed economici che determinano il declino. In terzo luogo convincere gli italiani che esistono soluzioni che richiedono politiche di diritti, ma anche di responsabilità. Il modello prospettato è un modello che si avvicina al modello delle economie europee nordiche caratterizzate da: tassazione relativamente elevata; economie esterne create da maggiore intervento pubblico sul capitale fisico e umano; equilibrio pensionistico; politica demografica di offerta di servizi reali e di sconti fiscali alla famiglia; politica dell’immigrazione attenta alla domanda di imprese e alla integrazione degli immigrati; alta flessibilità del lavoro, con forti tutele in tema di reddito, formazione e employability di donne e di ultracinquantacinquenni; politiche di compressione delle rendite professionali; shock competitivo sulle imprese che significa: ottimalità nella dinamica salariale, rifiuto della difesa del campione nazionale, ampliamento dell’interventismo dell’antitrust, contendibilità nella governance societaria. Dunque, un disegno di società più che di politica economica9.

 

 

 

Bibliografia

1 Cfr. G. Dosi, Local and divergent pattern of technological learning within (partly) globalized markets, in «Stato e Mercato», in corso di pubblicazione.

2 Cfr. Human Development Report 2001.

3 Cfr. UN Millenium indicators.

4 Ibid.

5 Cfr. dati OCSE 2000.

6 Banca d’Italia, Relazione annuale sull’esercizio 2001, Roma, maggio 2002, pp. 130-133.

7 G. Nardozzi, The economic miracle, in «Rivista di storia economica», 2, 2003.

8 R. Paladini, L’imposta progressiva e la Finanziaria 2003, in corso di pubblicazione.

9 Uno stimolo rilevante all’elaborazione delle idee espresse in questo articolo mi è derivato dalle discussioni con Pierluigi Ciocca, Michele Salvati e Gianni Toniolo.