Quo vadis ONU?

Di Giandomenico Picco Lunedì 02 Giugno 2003 02:00 Stampa

Negli ultimi mesi, molti hanno espresso l’opinione che l’impatto della crisi irachena avrebbe avuto un effetto devastante sulle Nazioni Unite. Molte di queste opinioni furono manifestate all’avvicinarsi del conflitto. Per diversi motivi fu prevista la rovina dell’ONU. Simili pareri erano già stati espressi nel 1999, quando alcuni Stati membri decisero di usare la forza in Kosovo senza l’approvazione dell’ONU. Non ci fu alcuna riunione del Consiglio di sicurezza, e non si contemplò neppure la possibilità di una risoluzione che implicasse il ricorso all’uso della forza. Le Nazioni Unite non fecero parte del processo decisionale e la loro sede non fu neppure utilizzate per dibattere la questione.

 

Negli ultimi mesi, molti hanno espresso l’opinione che l’impatto della crisi irachena avrebbe avuto un effetto devastante sulle Nazioni Unite. Molte di queste opinioni furono manifestate all’avvicinarsi del conflitto. Per diversi motivi fu prevista la rovina dell’ONU. Simili pareri erano già stati espressi nel 1999, quando alcuni Stati membri decisero di usare la forza in Kosovo senza l’approvazione dell’ONU. Non ci fu alcuna riunione del Consiglio di sicurezza, e non si contemplò neppure la possibilità di una risoluzione che implicasse il ricorso all’uso della forza. Le Nazioni Unite non fecero parte del processo decisionale e la loro sede non fu neppure utilizzate per dibattere la questione. Eppure l’ONU sopravvisse alla crisi del Kosovo. È probabile che sopravvivrà anche alla crisi irachena.

Il motore delle Nazioni Unite si attiva quando entrano in contatto tra loro, creando quindi una forza motrice, due elementi diversi: «legittimità e partecipazione». Legittimità per le azioni realizzate dai suoi Stati membri e partecipazione nel processo decisionale che fornisce tale legittimità. Quando il contatto tra questi due elementi non avviene, l’ONU non funziona. Per questo motivo, gli Stati membri vanno alle Nazioni Unite: o perché desiderano partecipare al processo decisionale o perché auspicano di ottenere una legittimità per il loro operato. È molto semplice: coloro che cercano legittimità sono disposti a pagarla, offrendo agli altri la partecipazione al processo decisionale; coloro a cui è offerta la partecipazione contraccambiano con la legittimità. Se le due parti non sono pronte ad offrire ciò che possiedono, il motore delle Nazioni Unite s’inceppa. Lo chiamerei un contratto sociale internazionale tra i membri della comunità internazionale, indipendentemente dal loro peso e dal loro potere.

L’obiettivo fondamentale delle istituzioni moderne, sorte dopo la Rivoluzione francese, è stato quello di creare un processo decisionale collettivo, volto a tenere a bada le bizze del singolo, ossia del monarca come simbolo dell’irrazionalità individuale, e a mettere in primo piano il processo collettivo considerato come garanzia di razionalità. In un certo qual modo, il successo dell’ONU nel creare un processo decisionale collettivo a livello internazionale è stato alquanto significativo. Nessuno Stato membro ha ancora deciso di abbandonare l’Organizzazione internazionale, nessuno ha ancora presentato la sua lettera di dimissioni. L’ONU è sopravvissuta all’epoca più difficile di tutta la sua storia, l’età della Guerra fredda. Fu allora che la battaglia ideologica produsse la più lunga e profonda paralisi dell’istituzione internazionale. E tuttavia neppure allora le due superpotenze decisero di ridurre il livello della propria rappresentanza presso il quartier generale delle Nazioni Unite, a New York. In verità, ogni Stato di nuova costituzione ha sempre richiesto di aderire all’Organizzazione. L’ONU attira ancora alle sue riunioni più capi di Stato e di governo di ogni altra istituzione internazionale. Più di ogni altra istituzione simile l’ONU costituisce uno strumento, e come tale il suo utilizzo dipende dai protagonisti della scena internazionale, ossia gli Stati membri. Aggiungo immediatamente, però, che le Nazioni Unite sono molto più che la somma di tutti gli Stati membri. Come una nazione è più della somma dei suoi componenti, così accade per l’ONU, che possiede certamente organi intergovernativi, ma che è anche caratterizzata dal Segretario generale e dal suo Segretariato, organi significativamente diversi da qualsiasi altro organo intergovernativo. Non si tratta né di organizzazioni governative né di organizzazioni private, né di organismi statali né di organismi di base. Il Segretario generale ha offerto agli Stati membri, negli anni, quell’aiuto che altri non potevano offrire. Naturalmente, tale assistenza era vincolata al tipo di persona ch’era il Segretario generale e alle idee da lui concepite.

Si potrebbe sostenere che la qualità dell’ONU dipenda dall’uso che ne fanno i suoi Stati membri. La politica ha sempre influenzato l’istituzione. In fondo si tratta, principalmente ed essenzialmente, di un’organizzazione politica. Forse non molti rammentano che per 41 anni, ossia sino all’autunno del 1986, i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza non si riunivano come gruppo. Oggi è un’abitudine che molti considerano acquisita. Si tratta, anche, di un modo per far lavorare il Consiglio di sicurezza diverso da quello a cui era abituato. Furono i britannici e il Segretario generale del tempo a incoraggiare tale evoluzione, che avrebbe cambiato l’immagine delle Nazioni Unite almeno fino ad oggi. Tale cambiamento non era contemplato nella Carta, né fu imposto da nessuno. Verso la metà degli anni Novanta, vi furono alcuni che capirono prima di altri che il fenomeno Gorbaciov avrebbe avuto un effetto diretto sul funzionamento dell’istituzione. E così avvenne, considerando anche che all’epoca era in corso una guerra unica nel suo genere: si trattava della prima guerra (Iran-Iraq) in cui Est e Ovest si trovavano dallo stesso lato (quello di Saddam). La fine di quella guerra, gli accordi sull’Afghanistan per il ritiro delle truppe sovietiche, l’indipendenza della Namibia, la fine della guerra civile in El Salvador, la liberazione degli ostaggi occidentali a Beirut, sono tutti avvenimenti che portano la chiara – anche se di volta in volta diversa – firma dell’ONU e sono tutti avvenuti prima della fine ufficiale della Guerra fredda. In realtà, per le Nazioni Unite, la Guerra fredda si è conclusa nel 1986.

L’elemento fondamentale era quello di riuscire ad anticipare il cambiamento, traendone vantaggio. E così fu. Anticipare il cambiamento può certamente essere stato il segreto all’epoca; in realtà, è probabile che sia valido in qualsiasi periodo. L’ONU ha raccolto i maggiori successi quando il Consiglio di sicurezza e il Segretario generale hanno assunto ruoli diversi in un balletto ben coreografato, in cui entrambi utilizzavano le proprie capacità al meglio, come in quei primi anni di una nuova era. Negli anni Novanta i cinque membri permanenti accettarono di stipulare un «contratto sociale internazionale», in cui alcuni offrivano partecipazione al processo decisionale e altri offrivano legittimità alla decisione. La guerra del Kosovo si svolse, invero, al di fuori dell’ONU, proprio perché non fu possibile siglare tale accordo. Accordo che fu prontamente recuperato quando fu chiesto alle Nazioni Unite di partecipare alla ricostruzione post-bellica del Kosovo.

La recente crisi irachena sembrava aver interrotto, per alcuni, tale unità. Tuttavia, può darsi che il mondo abbia semplicemente continuato a cambiare e che il concetto stesso di alleanze, su cui si sono formati molti degli accordi delle Nazioni Unite, sia giunto anch’esso alla fine. A mio avviso lo è. Siamo stati testimoni della fine delle alleanze fondate sull’ideologia, ossia sull’essere amici indipendentemente dalla questione o dal momento. In realtà, il mondo in cui stiamo vivendo ora sembra essere caratterizzato da schieramenti – non alleanze – costituiti ad hoc su ogni questione. Pertanto gli amici possono essere d’accordo su alcuni punti e in contrasto su altri. La crisi irachena è stata un caso esemplare. Il mondo non è crollato, è soltanto cambiato. Le alleanze che garantivano una lealtà assoluta sono scomparse per lasciare il posto a schieramenti, forse più veri, fondati sui problemi da risolvere e non sulle ideologie. A ciò non è risultata immune neppure l’ONU.

Stiamo di fronte, in un certo qual modo, al maggior livello di democrazia internazionale degli ultimi sessant’anni. I paesi ora sembrano più inclini a scegliere la propria posizione su ogni singolo problema, piuttosto che sulla base di dogmi o scelte ideologiche precostituite. Naturalmente, tutto ciò rende più difficile la gestione del sistema internazionale. Il contratto tra legittimità e partecipazione resta valido, è solo più difficile da conseguire. In altri termini, l’ONU opera nello stesso modo, è soltanto più difficile portare a buon fine il processo decisionale collettivo. Naturalmente, viviamo in un mondo dominato da un’unica superpotenza, ma nel quale tutti sono vulnerabili: dalla potenza più piccola alla più grande, siamo tutti esposti al terrorismo internazionale, alle malattie infettive, alle crisi economiche e finanziarie (vivendo in un’economia relativamente globalizzata) e certamente ai cambiamenti dell’ecosistema. Pertanto, dobbiamo adeguarci a un sistema internazionale con una singola superpotenza e alla scoperta abbastanza recente di essere tutti ugualmente vulnerabili.

In realtà, è proprio questa «uguaglianza nella vulnerabilità» di recente acquisizione, come dimostrato dall’11 settembre 2001, ad essere all’origine della necessità per gli Stati Uniti di dimostrare la propria potenza. Pochi potrebbero ancora dubitare della loro reale potenza, tuttavia lo sfoggio di potere sembrerebbe non essere stato altro se non un’esigenza interna statunitense. L’effetto dell’11 settembre sull’America può essere stato sottovalutato da molti a livello mondiale. Sarebbe un errore persistere nel sottovalutarlo. Il rallentamento economico dell’economia mondiale, e, in particolare, di quella statunitense, ha reso la miscela composta da «superpotenza e vulnerabilità» ancora più complessa. Ci sarebbe stata la guerra contro l’Iraq senza gli avvenimenti dell’11 settembre? Tutti questi sviluppi hanno inciso sull’ONU, perché hanno influenzato il sistema internazionale.

Quelle chiare e semplici alleanze da guerra fredda sono ormai un ricordo del passato. È di moda lo schieramento basato sui singoli problemi. Non è più possibile prevedere il comportamento dei membri di un’alleanza. Dall’11 settembre, le preoccupazioni principali degli Stati Uniti riguardano la sicurezza, la percezione di essere un obiettivo primario del terrorismo, e prevalgono persino sulle questioni economiche: una posizione che può non essere totalmente condivisa dalla «Europa continentale», ma che lo è, forse, dalla Russia, dalla Cina e dall’India. È in atto una gara per il cuore e l’anima dell’Islam nel mondo musulmano, così come è in arrivo quella, pacifica, per il cuore e l’anima dell’Occidente (la silenziosa gara tra shareholder capitalism e stakeholder capitalism, che sembrava conclusa tre anni fa, è di nuovo in corso).

Le priorità sembrano essere cambiate in modo disuguale per gli Stati membri della comunità internazionale. Certamente, le priorità sono sempre state diverse, se consideriamo la totalità dei membri dell’ONU, ma, recentemente, ci siamo resi conto delle diverse priorità dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza. Sicurezza, terrorismo, economia, diritto internazionale, diritti dell’uomo, ambiente, hanno una posizione diversa a seconda del governo a cui ci si riferisce. Eppure, se alcuni si sono sorpresi delle divergenze emerse tra i cinque prima della guerra irachena, molti furono certamente stupiti dell’accordo raggiunto al momento dell’adozione da parte del Consiglio di sicurezza della risoluzione 1483 sulla cancellazione delle sanzioni contro l’Iraq e sul riconoscimento dell’autorità delle potenze occupanti in Iraq. Un ulteriore accordo fu raggiunto, pochi giorni dopo, con la risoluzione 1484 sull’invio di nuove truppe delle Nazioni Unite, sotto comando francese. La rottura è stata ricomposta? O non si tratta piuttosto della dimostrazione che il consenso non è più la conseguenza di alleanze, ma è costruito, invece, caso per caso?

In verità, negli ultimi anni, il Consiglio di sicurezza ha prodotto due risoluzioni molto significative per la loro portata e per il consenso politico: la risoluzione 1373 su come affrontare il terrorismo a livello mondiale, e la già ricordata risoluzione 1483. Sulla scia dell’11 settembre, il consenso tra i membri del Consiglio sulla lotta contro il terrorismo era, in effetti, così ampio da influenzare le legislazioni nazionali a livello mondiale. Alcuni hanno persino osato affermare che il testo era «ultra vires», ovvero che il Consiglio aveva oltrepassato le proprie competenze giuridiche. Tuttavia, tali voci non furono altro che un sussurro, essendo il consenso non soltanto forte ma anche esteso. Una novità assoluta è stata anche la risoluzione 1483 sull’Iraq del maggio 2003. In realtà, queste due risoluzioni, senza precedenti, hanno dimostrato che il Consiglio di sicurezza dell’ONU possiede, su questioni critiche relative alla pace e alla sicurezza, un peso maggiore e un ruolo più importante di quanto non avesse trent’anni fa.

L’ONU è sempre importante in tutte le circostanze? No, naturalmente. Ciò, comunque, non può certo considerarsi una conseguenza della recente crisi irachena o della politica di una superpotenza. L’istituzione ha forse partecipato da protagonista nella guerra del Vietnam, o nel conflitto in Irlanda del Nord, oppure nella guerra in Afghanistan negli anni Ottanta, o nel Kashmir? Quanti paesi hanno, negli anni, obiettato contro le indagini nell’ambito dei diritti dell’uomo? Il multilateralisme à la carte è un fenomeno recente o di vecchia data? È tipico di una superpotenza o riguarda numerosi paesi? Ci siamo anche trovati di fronte a nuovi concetti, volti a giustificare l’operato dei membri della comunità internazionale. Il concetto di «uso preventivo della forza» significa, per alcuni, allontanarsi in modo significativo dalla Carta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Tuttavia, ben prima che gli USA enunciassero la loro nuova disciplina militare, l’ONU aveva conosciuto la nozione di «intervento umanitario», sostenuta dallo stesso Segretario generale dell’Organizzazione mondiale. E Kofi Annan ha introdotto un concetto persino più rivoluzionario, ossia quello di «sovranità individuale», come ulteriore pilastro del nuovo sistema internazionale, insieme, ma non inferiore, alla sovranità nazionale. Prima, la comunità internazionale era sottoposta al droit de regard, fortemente difeso dalla Francia in alcuni dei suoi interventi africani dell’epoca. La prestigiosa rivista Foreign Affairs ha già scritto l’epitaffio delle Nazioni Unite con un lungo articolo, in cui sostiene che gli sforzi tesi a sottomettere l’uso della forza alla legge della forza hanno in realtà fallito, principalmente perché «gli Stati, perseguendo il potere, perseguono la sicurezza».

A mio avviso, sia coloro che disdegnano l’ONU, sminuendo il diritto internazionale, sia coloro che l’accusano di «debolezza», stanno in realtà parlando di un’istituzione immaginaria, «sovranazionale», che non è mai esistita, e non esiste certo oggi. l’ONU non è un’istituzione come l’Unione europea e non è una rappresentazione statica di un trattato di giurisprudenza. Da un lato l’istituzione internazionale produce continuamente nuove leggi, poiché ogni organismo intergovernativo dell’ONU è, secondo la terminologia dell’istituzione, «padrone dei propri atti»: in altri termini, può decidere qualsiasi cosa su cui vi sia consenso da parte dei suoi membri, anche aprendo nuove strade al diritto internazionale. Dall’altro, non è strutturata in modo da poter diventare un governo sovranazionale, né si è mai ipotizzato che lo fosse, offrendo, piuttosto, una pletora di nuovi strumenti per la gestione della comunità internazionale. L’ONU può offrire, se e quando i governi ne fanno richiesta, «legittimità» e «partecipazione nel processo decisionale», ma i governi non sono sempre interessati. Può forse imporlo l’ONU? Certamente no.

Il funzionamento dell’istituzione riflette una continua tensione tra potere e Stato di diritto. Tale tensione a volte cede a uno, a volte all’altro. In tale processo, si elaborano leggi e nel contempo si esercita il potere. Tuttavia, il ricorso alla guerra non è, in generale, il risultato abituale. Non possiamo farci accecare dai recenti avvenimenti in Iraq tanto da dimenticare che, nella maggior parte dei casi, le principali potenze non esercitano l’uso della forza in maniera unilaterale. Dobbiamo, invero, ricordare che dal punto di vista di Washington l’uso della forza contro l’Iraq era legalmente giustificato non solo dalla risoluzione 1441 del novembre 2002, ma anche dalla prima risoluzione sulla tregua in Iraq. Essendo una tregua una sospensione delle ostilità sulla base di condizioni specifiche, la violazione di tali condizioni riapre, per alcuni, uno spiraglio a favore della ripresa delle ostilità.

Non posso naturalmente sostenere che l’ONU non sia stata colpita dai recenti sviluppi. L’equilibrio tra forza e Stato di diritto è stato chiaramente messo a dura prova e più del solito. La parità fittizia che esiste tra i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza e la reale disuguaglianza tra loro e il «mondo reale» sono venute in contatto, o meglio in contrasto, negli ultimi mesi come mai prima di allora.

Nella prima fase della Guerra fredda, ci fu un simile scontro tra l’unità fittizia delle potenze alleate della Seconda Guerra Mondiale - i cinque membri permanenti - e il reale confronto tra Est e Ovest. Il funzionamento delle Nazioni Unite era stato fondato sull’unità dei cinque. Forse l’istituzione si bloccò? Fu senz’altro parzialmente paralizzata, ma trovò anche il modo per essere relativamente utile nella gestione dei conflitti, inventando il concetto stesso di «forze per il mantenimento della pace», che non era mai stato contemplato nella Carta.

Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, l’istituzione dei Tribunali per i crimini di guerra è stata il contributo maggiore dell’Organizzazione all’odierna gestione del mondo. Mai prima d’ora nella storia si era avuta un’istituzione che potesse indagare non la responsabilità degli sconfitti, bensì quella dei vincitori. Abbiamo portato, per la prima volta, la nozione di responsabilità individuale alla ribalta delle relazioni internazionali. È giunto il momento per una nuova «invenzione». La capacità di adattamento ai tempi è un elemento fondamentale di sopravvivenza anche per le istituzioni. E adattamento non significa chinare il capo di fronte alla resa. Guidare l’ONU nei prossimi anni sarà compito difficile, ma il ruolo dell’istituzione è molteplice e non mancano certo d’ingegno né il Segretariato dell’Organizzazione, né le cancellerie di quei governi che credono e auspicano che l’ONU rimanga uno strumento utile per la governance mondiale. Si è scritto molto negli anni sulle possibili riforme delle Nazioni Unite, si è parlato molto dei cambiamenti nei diversi organi; ma poco, se non nulla, è stato scritto sul fatto che, indipendentemente dai cambiamenti strutturali, ciò che fa la differenza è la qualità dei singoli che servono l’Organizzazione mondiale. La qualità dei singoli che servono l’ONU, come in ogni altra attività umana, dipende molto dall’abilità e dal coraggio di assumersi le proprie responsabilità in prima persona. A volte l’Organizzazione è stata diretta da un Segretario generale che ne attribuì il fallimento all’istituzione stessa, come se ciò lo esonerasse dalle proprie responsabilità. Fortunatamente, oggi non ci troviamo in questa situazione.

L’Organizzazione può certamente essere riuscita con successo a istituire processi decisionali collettivi, ma la responsabilità per quelle decisioni resta profondamente individuale. In fin dei conti, ogni attività umana ha a che fare con le idee e ritengo, fino a prova contraria, che le idee nascano solo nella mente dei singoli. La crisi irachena non farà dell’ONU un organismo irrilevante. Potrebbe farlo l’incapacità di adattarsi al cambiamento. Burocrati e a politici temono il cambiamento, leader e statisti vi prosperano.