Lo show del Far West

Di Lewis H. Lapham Sabato 01 Novembre 2003 02:00 Stampa

Quando il presidente George W. Bush fece il suo ingresso alla Casa Bianca nell’inverno 2001, dichiarò che intendeva condurre il governo come se fosse un business. Due anni dopo, chi potrebbe stupirsi se le previsioni decennali di bilancio sono passate da un surplus di 5.600 miliardi a un disavanzo di 4.000 miliardi di dollari o se la nostra piccola splendida guerra in Iraq è stata venduta al pubblico americano come un’offerta di mercato ben pubblicizzata ma fraudolenta. Il presidente ha mantenuto la parola.

 

In un caso specifico non è facile – a volte è addirittura impossibile,
finché i tribunali non si pronunciano –
dire se si tratta di un’encomiabile arte di vendere
o di un reato punibile con la detenzione.

Thorstein Veblen

 

Quando il presidente George W. Bush fece il suo ingresso alla Casa Bianca nell’inverno 2001, dichiarò che intendeva condurre il governo come se fosse un business. Due anni dopo, chi potrebbe stupirsi se le previsioni decennali di bilancio sono passate da un surplus di 5.600 miliardi a un disavanzo di 4.000 miliardi di dollari o se la nostra piccola splendida guerra in Iraq è stata venduta al pubblico americano come un’offerta di mercato ben pubblicizzata ma fraudolenta. Il presidente ha mantenuto la parola. La corporation della quale si ritiene presidente e amministratore delegato non è diversa dalle società possedute e gestite in passato dai suoi amici, dai procacciatori di fondi e dai colleghi banditi della Enron e della Arthur Andersen. Per avere successo, i piani economici e militari dell’Amministrazione devono fare affidamento sugli analisti di bilancio che riconfigurano il debito come credito e sui revisori dei conti delle agenzie di intelligence che manipolano i bilanci con transazioni fittizie (l’uranio africano), con dati falsi (la creazione di un collegamento tra Saddam Hussein e Al Qaeda), e con organizzazioni off-shore create per scopi speciali (per contenere le armi di distruzione di massa altrimenti invisibili).

All’inizio di luglio, l’ammissione delle false dichiarazioni del presidente in relazione all’uranio africano ha indotto gli attori della compagnia teatrale politica di Washington ad adottare atteggiamenti di profonda indignazione e di sgomento, a chiedere le indagini del Congresso e a far rimbalzare la palla della responsabilità nei talk-show domenicali. Davanti alle telecamere di FOX News, Condoleezza Rice, consigliere per la sicurezza nazionale, affermava che le informazioni sospette erano state fornite dal governo britannico, mentre il segretario alla difesa Donald Rumsfeld, intervistato da Meet the Press della NBC e da This Week della ABC, dichiarava: «Non sappiamo» cosa sia, o sia stato, «inesatto». Osservando i ministri di Stato alla ricerca di mezzi per aggirare la verità, veniva in mente la schiera di direttori generali disonesti che, negli ultimi due anni, sono stati convocati in tutta fretta nelle aule dei tribunali nella speranza che ricordassero dove erano finiti i 47,6 miliardi di dollari di valore di mercato della Global Crossing o i 59.000 dipendenti della Kmart. Nove volte su dieci, le risposte avevano lo stesso tenore delle ipotesi azzardate dal vicepresidente Dick Cheney sugli spostamenti di Osama Bin Laden.

Poiché il modus operandi dell’Amministrazione Bush è simile a quello di un monopolio corrotto (in mano pubblica ma gestito da privati), gran parte della politica interna ed estera può essere intesa in termini di surcharge occulti e di rapporti annuali falsificati. Frode è ormai sinonimo di libertà e «fare un colpo grosso» è la forma più alta di patriottismo e di encomio. Che si tratti di aumentare il prezzo dell’occupazione americana in Iraq da 2 a 4 miliardi di dollari al mese o di guidare la WorldCom nel deserto di un errore contabile da nove miliardi di dollari, che siano Donald Rumsfeld o Bernard Ebbens a spiegare l’aritmetica a Tim Russert o a un giudice, la storia segue un copione ormai familiare. La corporation, che in passato aveva una reputazione ed era affidabile, oggi è invischiata in una rete di false testimonianze e di peculato. Patrimoni da 100 milioni di dollari partono per destinazioni ignote, il prezzo unitario delle azioni scende da 95 dollari a 30 cent, i pensionati sono gettati alla deriva su una barchetta, con una tazza di acqua piovana e qualche pezzo di pesce crudo. Nel frattempo, i massimi dirigenti incassano il miglior prezzo possibile per le loro azioni, ricompensano i grandi e i piccoli furti con indennità di buonuscita di 30 o 40 milioni di dollari, conservano l’appartamento a Parigi e il conto bancario a Zurigo e partono per il Colorado con le mazze da golf e gli sci. Se trasferiamo questo schema dal settore privato a quello pubblico, vediamo un governo che gonfia il bilancio della difesa, invia soldati e carri armati a pascolare in Iraq, elimina dagli arsenali del Pentagono le armi obsolete e distribuisce gli appalti per i lavori di ricostruzione alla Bechtel, alla Halliburton o ad altri amici della libertà disposti a dare una mano con le torri di trivellazione attorno a Baghdad e con i palloncini da lanciare alla convention repubblicana del prossimo anno.

Le attuali leggi fiscali dell’Amministrazione avrebbero potuto essere scritte (e probabilmente sono state scritte) da una cricca di amministratori finanziari della Merrill Lynch o della Goldman Sachs. Non si tratta di cattiva politica, ma di un vero e proprio furto ampiamente fondato sull’antico principio tanto amato da generazioni di piazzisti di Wall Street: rubare ai poveri per ingrassare i ricchi. Se vi chiedono di spiegare il meccanismo di un affare, parlate dei valori della famiglia. Lo scorso febbraio, presentando la proposta di legge, il presidente ha detto che 92 milioni di americani avrebbero beneficiato di una riduzione media dell’imposta di 1.083 dollari. Un sentimento nobile che Veblen avrebbe indubbiamente definito un caso di «encomiabile arte di vendere», ma che, come per l’uranio africano, non risponde alla verità e probabilmente deve essere considerato un «reato punibile con la detenzione». Per le famiglie con redditi tra i 30.000 e i 40.000 dollari, la riduzione delle imposte ammonta a 24 dollari. Nelle zone più sicure della città dove il vino viene servito in bottiglie sigillate, John Snow, Segretario al tesoro, beneficia di un rimborso di 275.000 dollari, mentre il Segretario alla difesa riceve 184.000 dollari. Nel frattempo, i grandi finanziatori della campagna elettorale comprano un’altra casa sulla spiaggia assolata della Florida e il presidente Bush fa il giro del paese con un la Bibbia in mano; posa per i fotografi davanti ai cartelli con il motto «Responsabilità aziendale» e dice agli impiegati e agli operai disoccupati riuniti nella sala del convegno: «Credo che la gente abbia fatto un passo indietro e si sia posta una domanda: cos’è importante nella vita? In fondo, questa storia della Corporate America è realmente importante? O non è forse importante fare del bene al prossimo e amarlo come vorreste essere amati?».

Considerata l’evidenza delle menzogne dell’Amministrazione Bush, la viscidità della sua voce e la sua noncuranza unilaterale per qualsiasi legge (civile, internazionale morale o finanziaria) perché non facciamo arrivare a Dio le nostre voci per niente gioiose? Non è un caso né una coincidenza che la Borsa abbia perso circa 6 miliardi di dollari negli ultimi due anni e mezzo, che il tasso di disoccupazione registri attualmente il valore più alto degli ultimi dieci anni (6,5 %) e il deficit di bilancio sia al massimo storico di 450 miliardi di dollari. Il governo che abbiamo davanti agli occhi non risponde ai criteri di una corporation qualsiasi (che per lo più conserva un certo senso del dovere nei confronti del benessere pubblico e del bene comune), ma di una corporation particolarmente rapace, più simile a un’associazione a delinquere nella quale il rischio viene scaricato sul contribuente disinformato e non sull’investitore inconsapevole. Allora, perché c’è questo silenzio percettibile nei media e nei nostri politici democratici, almeno di nome? Come mai nelle sale municipali o nelle strade non si raduna una folla armata di tubi di piombo?

La risposta assume la forma di un sermone sulla nostra fede tipicamente americana in un futuro migliore e in un domani più luminoso. I servi dello status quo spostano la sede degli eventuali processi dalla giurisdizione penale a quella civile, mettendo a tacere i mormorii dell’obiezione con una cantilena rassicurante sull’assenza di una coscienza di classe nel paese. L’oligarchia americana non depreda la democrazia americana perché in America non esiste niente di simile a un’oligarchia. Lungi da noi il solo pensiero. In questo grande paese abbiamo quella che i propagandisti repubblicani amano definire «l’economia del Far West», la porta girevole di un saloon alla vecchia frontiera con l’Arizona dove chiunque avesse una fiche da poker da cinque dollari e un mulo poteva godere di una fortuna inattesa. Le parole di saggezza ripetono invariabilmente la lezione insegnata da Norman Rockwell, da Walt Disney e dai direttori del Wall Street Journal. A parte qualche libertà nell’uso delle parafrasi, il testo è invariabilmente il seguente:

«Essendo americani e quindi benedetti fin dalla nascita dal gene dell’egualitarismo, non invidiamo chi è più ricco di noi, né ci affanniamo all’ombra delle false distinzioni di classe che offuscano ancora la mente della ‘Vecchia Europa’. Se un direttore generale guadagna 500 volte più di un suo segretario o di un operaio alla catena di montaggio (15 milioni di dollari contro 30.000 dollari l’anno), non significa che quel direttore sia un mascalzone egoista. Il sospetto è segno d’invidia ed è francese. L’uomo perbene deve la sua fortuna al duro lavoro e alla sua fede in Dio. Non proviamo rancore per lo stile di vita opulento (troppo snob, non c’è mai tempo da dedicare ai vicini o al rospo addomesticato) perché sappiamo che presto, probabilmente prima di quanto possiamo immaginare, diventeremo ricchi anche noi. Nel frattempo, in attesa della valutazione del nostro oro o del rapporto del coroner, siamo capitalisti in attesa, senza risentimento, felici di vivere in un paese di grande abbondanza e di opportunità illimitate. Siamo americani, benedetti i nostri cuori; siamo gente che preferirebbe comprare in un Wal-Mart che in uno di quei negozi alla moda di Madison Avenue o di Rodeo Drive. Chiunque voglia parlare con noi di conflitto di classe o di Karl Marx sappia che da noi non esiste il concetto di una società che sembra una specie di torta a strati inglese».

Non metto in dubbio la generosità di spirito e il dono naturale della tolleranza degli americani, ma ritengo che il ritratto di Norman Rockwell sia due o tre generazioni indietro rispetto ai tempi e sospetto che la posizione del presidente Bush nei sondaggi sia il risultato della nostra inclinazione, altrettanto tipicamente americana, di trasformare i criminali e i fuorilegge in personaggi da romanzo. Nelle vesti di eroe buono o di cattivo, l’uomo abituato alla violenza modifica le regole per adeguarle alle circostanze, certo che i fini sempre nobili giustificano i mezzi, talvolta meno nobili. Anche quando sappiamo che il gioco è truccato, ci piace pensare che il proprietario del tavolo della roulette ama sua madre e somiglia a Michael Corleone.

Il presidente Bush cammina come immaginiamo si camminasse in passato sulla strada di Chisholm o di Santa Fe. Il suo diritto a questa andatura spavalda gli viene dall’aver rubato la sua elezione alla presidenza. Questa rapina è sullo stesso piano della truffa di 28 miliardi di dollari perpetrata dalla Enron ai danni del tesoro dello Stato della California e fa accogliere a pieno titolo il presidente Bush tra la lunga serie di antenati criminali dell’America che discendono, con crescente grado di sofisticazione di armi e di computer, dai cacciatori di renne di James Fennimore Cooper, dai mercanti di pelli delle Montagne Rocciose, da John Jacob Astor, da Sundance Kid, dai baroni texani del bestiame, dai magnati delle ferrovie newyorkesi, da John D. Rockefeller, Boss Tweed, Al Capone, Humphrey Bogart, Huey Long, Lyndon Johnson, Clint Eastwood, Michael Milken, Oliver North, Ivan Boesky, Tony Soprano e altri troppo numerosi per essere citati, come si dice alle cerimonie per l’assegnazione dell’Oscar.

Dove potrebbero trovare Hollywood e la stampa scandalistica la nostra compagnia di eroi se non tra gli archetipi dei cavalieri che vagano nelle polverose città dalle case di legno per incendiare l’ufficio dello sceriffo o eliminare i messicani ghignanti che terrorizzano le ragazze dei saloon con sparatorie indiscriminate e maniacali? Quando, nel 1872, Frank e Jesse James rapinarono la Fiera di Kansas City, il giornale locale definì l’impresa «così diabolicamente audace e totalmente sprezzante dei pericoli da costringerci ad ammirarla e a rispettare i suoi autori» e paragonò la banda ai cavalieri della Tavola Rotonda di Re Artù. Nel 1960 la stampa nazionale riprese la stessa leggenda romantica per annunciare la conquista, da parte della banda Kennedy, di un governo improvvisamente illuminato dagli stendardi di Camelot. I direttori di Fortune e Business Week acclamarono il successo precoce di Bernard Ebbers alla WorldCom e di Kenneth Lay alla Enron con un analogo sfarfallio di insensato timore reverenziale: direttori generali senza paura, capitani di ventura alla guida di imprese commerciali, determinati e risoluti che spingevano in alto il prezzo delle azioni come se spingessero le mucche lungo il Missouri fino al Marlboro Country e al mercato energetico della California.

Quando nelle redazioni dei giornali si accumulano troppe prove sulle ruberie del governo o sull’avidità delle corporation (un altro fornitore del settore della difesa accusato di frode, altri cinque direttori finanziari in possesso di prestiti scandalosi), i media fedeli al paese inscenano l’equivalente di un revival dei bivacchi della prateria, con l’intenzione di invocare il grande spirito della riforma finanziaria fino ai templi di Mammone. Un coro di economisti di Harvard testimonia la rinascita della fiducia negli investitori; Alan Greenspan riduce i tassi d’interesse, quattro commissioni del Congresso cominciano a lavorare per recuperare la bussola morale perduta dell’America. Qualche furfante imbarazzato compare in manette alla CNN. Martha Stewart è legata come un capro espiatorio al palo della conferenza stampa del tribunale. Sandy Weill, presidente di Citigroup, può parlare con i suoi ricercatori soltanto in presenza di un avvocato. George Tenet, direttore della CIA, si assume, con un bel colpo pubblicitario, la responsabilità della cantonata dell’uranio africano e quando l’ufficio del procuratore generale di New York impone una sanzione di 1,4 miliardi di dollari ai principali gruppi finanziari del paese (tra cui Salomon Smith Barney e Morgan Stanley) i giornali annunciano «l’alba di un nuovo giorno a Wall Street».

Il nuovo giorno può durare una settimana o un mese. Poi sui mercati finanziari di New York, cala improvvisamente la notte, come nella foresta pluviale brasiliana. Se nei nostri discorsi pubblici amiamo deplorare il declino della coscienza, nelle nostre conversazioni private, la variazione sul tema «sì, ma l’ho fatto per i soldi» soddisfa tutti, forse anche i critici più fastidiosi. Se Al Capone fosse ancora vivo, probabilmente sarebbe un ospite fisso dei talk-show di FOX News: un vecchio statista, loquace e saggio che ricorda i bei tempi passati di Chicago e consiglia se sia meglio far sparire e riciclare i soldi alle isole Cayman o alle Isole del Canale della Manica.

Il presidente Clinton aveva preso l’abitudine di perdonare i suoi amici colpevoli di reati penali. Il presidente Bush ha preso l’abitudine di conferire loro cariche nel governo federale. In California, Arnold Schwarznegger si presenta candidato a governatore. Il fascino romantico del crimine è divenuto più popolare negli ultimi trent’anni, in parte come risultato del continuo scenario di violenza che ci appare attraverso le pareti di vetro dei nostri media e noi trasformiamo in eroi i politici e i manager simili ai cacciatori di teste che vagavano nelle zone selvagge del Far West americano, figure di predoni nomadi che si attenevano alla regola «arriva, arricchisci, vattene», tediati dagli obblighi di governo e indifferenti ai piaceri della civiltà. Quando, occasionalmente, sono chiamati a portare la giustizia a Gold Hill o a Silver City, agiscono con un senso di vendetta terribile, quasi divino. Dopo aver fatto il numero necessario di morti, se ne vanno (tornando nel tramonto alle portaerei nel Golfo Persico) e lasciano ai comuni mortali i compiti noiosi e nonamericani di sistemare le cose e provvedere alla sepoltura. Non dubito che molti milioni di elettori ammirino il presidente Bush per le gradevoli banalità comminate sotto l’etichetta di «chiarezza morale», ma sospetto che un numero altrettanto elevato di cittadini riponga la propria fiducia nel suo lavoro e nella sua storia di fuorilegge. Forse non ha il calibro di un Meyer Lansky o di uno Shane, ma è sempre un pistolero abbastanza affidabile da poter cavalcare con la banda Clinton, ed è in grado di tenere i cavalli quando è il momento di cacciare gli allevatori di pecore con il fuoco o di assaltare il treno.