Sviluppo di un sistema di autonomie, non parcellizzazione dell'università

Di Guido Fabiani Giovedì 01 Aprile 2004 02:00 Stampa

Va salutato come estremamente positivo il fatto che si stia sviluppando sulla stampa un articolato dibattito sul futuro dell’università. Al riguardo ci si deve solo rammaricare, in verità, che il problema sia divenuto di attualità e abbia guadagnato di importanza a seguito delle decisioni del primo ministro Blair sulle «tasse universitarie » in Gran Bretagna. Non si può non notare come in Italia, negli ultimi anni, ci sia stato ben poco riscontro, a sinistra e nella sua componente riformista, di fronte alle tante sollecitazioni provenienti dall’interno dell’università per affrontare il rischio di declino del sistema.

 

Va salutato come estremamente positivo il fatto che si stia sviluppando sulla stampa un articolato dibattito sul futuro dell’università. Al riguardo ci si deve solo rammaricare, in verità, che il problema sia divenuto di attualità e abbia guadagnato di importanza a seguito delle decisioni del primo ministro Blair sulle «tasse universitarie » in Gran Bretagna. Non si può non notare come in Italia, negli ultimi anni, ci sia stato ben poco riscontro, a sinistra e nella sua componente riformista, di fronte alle tante sollecitazioni provenienti dall’interno dell’università per affrontare il rischio di declino del sistema. D’altronde, la stessa riforma Berlinguer-Zecchino è stata per lo più considerata dalla sinistra (come anche da tutte le altre forze politiche) un intervento settoriale, non posto al centro di una strategia di sviluppo complessivo del paese sulla base di un compiuto progetto, non solo culturale. Se non fosse stato così, forse oggi si discuterebbe di un’università in tutt’altre condizioni. C’è stata una colpevole disattenzione generale che ha anche favorito quel frequente esercizio da parte di taluni che è consistito nello svilire l’impegno, il lavoro e la qualità dei risultati dell’azione dei tanti docenti e ricercatori universitari che fanno il loro mestiere, lo fanno bene e si adoperano per cambiare le cose. Quell’esercizio può essere utile se serve a identificare insufficienze e punti critici (e ce ne sono); pernicioso se diventa un gioco al massacro, come è stato il più delle volte. Ben venga, dunque, un serio approfondimento del problema, che consenta di avviare un confronto costruttivo tra i vari punti di vista e le diverse proposte.

Su questa rivista sono recentemente intervenuti Nicola Rossi e Gianni Toniolo.1 Non vorrei essere iscritto nella categoria dei «conservatori» a fronte di quella dei «modernizzatori», ma non condivido molte delle loro considerazioni e l’impianto del modello di università che propongono. Riconosco che il loro approccio affronta questioni ineludibili; ma non mi convincono le proposte né i modelli di riferimento. Mi sembra, senza entrare nel dettaglio delle singole questioni, che la loro proposta contenga il rischio di una parcellizzazione dell’intero «sistema», con le varie componenti guidate principalmente dall’obiettivo della competitività e con il risultato di un assetto presumibilmente molto squilibrato. Senza alcuna garanzia di qualità scientifica.

Ritengo, al contrario, che anche l’alta formazione debba rimanere «bene pubblico», e che l’obiettivo che deve darsi il paese sia la costituzione di un compiuto «sistema» nazionale universitario, inteso come fattore di «coesione» sociale e culturale, con l’autonomia delle singole componenti che valorizzi la valenza di «sistema» anche a livello internazionale e non porti a una pura contrapposizione competitiva di «differenze», peraltro necessarie.

Inoltre, se ci si muove sul piano della visione politica complessiva, credo che non sia corretto impostare il discorso partendo dal cosa cambiare (e c’è realmente molto ancora da cambiare!) «dentro» l’università, quasi a voler attribuire esclusivamente a fattori interni le cause delle difficili condizioni del sistema universitario nazionale. Un modello compiuto di cambiamento dell’università può venire solo da un confronto molto ampio, dal riconoscimento anche molto critico delle modificazioni in atto e, principalmente, dalla diffusa certezza che a livello politico generale ci si voglia impegnare non in un aggiustamento settoriale, ma in un’azione strategica per il paese, politicamente e culturalmente riconosciuta come tale, e con l’impegno di tradurla in azione di governo.

Proporrei di partire proprio da quest’ultimo aspetto, perché nessuna proposta di cambiamento è credibile se non c’è chiarezza sugli obiettivi generali – come è stato finora. E perché le carenze del sistema universitario, senza voler affatto disconoscere le indiscutibili responsabilità accademiche, si sono formate e cristallizzate nella totale assenza di un progetto politico che definisse ruoli e responsabilità di questa istituzione.

Ci sono domande di carattere pregiudiziale cui bisogna dare una risposta.

Gli atenei italiani, infatti, da qualche decennio aspettano di sapere quale è lo spazio che a essi si assegna per rinnovarsi e per crescere, e quali sono, di conseguenza, gli impegni che debbono rispettare e le regole che ne preservino gli irrinunciabili caratteri originari e l’appartenenza a un «sistema» nazionale. Essi debbono sapere se sono riconosciuti come sede della formazione avanzata e della ricerca innovativa, sulla base dell’enorme patrimonio di saperi che posseggono e che sono una ricchezza fondamentale per il paese.

Al sistema universitario nazionale bisogna dire di quali risorse e di quali supporti organizzativi dispone per divenire, a nome del paese, protagonista della definizione di uno spazio e di una politica europea della cultura e della ricerca: un processo, si badi bene, che l’UE sta portando avanti e al quale le università italiane stanno partecipando su un piano quasi volontaristico, certo non sulla base di un preciso e legittimato impegno politico-istituzionale.

Se, come è auspicabile, si intraprenderà una organica azione riformista a favore dell’università, essa deve partire con un messaggio forte e coinvolgente, che espliciti l’obiettivo di voler preservare questa istituzione come sede privilegiata del sapere, crogiuolo del libero pensiero, elemento unificante e cemento complessivo del tessuto civile.

Un messaggio che solleciti, al tempo stesso, l’università a impegnarsi per far cadere tutte le barriere di comunicabilità che hanno caratterizzato la separatezza del sistema, per rimediare all’enorme dissipazione dell’intelligenza dei giovani, e per mettere in primo piano la dedizione alla ricerca e alla didattica e il rigore nella spesa delle risorse pubbliche.

Se è vero che una collocazione adeguata del sistema paese nella contemporanea società della conoscenza è legata strettamente all’impegno nella formazione del capitale umano, lo Stato non può assolutamente ridimensionare il proprio ruolo e le proprie responsabilità in questo campo, nella ossessiva rincorsa di riforme liberiste. Quasi che solo queste possano risolvere il problema della competitività e della sostenibilità economica. C’è bisogno, in sostanza, di un progetto per il «sistema università » definito negli obiettivi, nei tempi, nelle risorse e, di conseguenza, negli strumenti normativi e valutativi.

Un progetto costruito su tre coordinate fondamentali. La prima riguarda l’esigenza di superare la condizione di pesante sottodimensionamento del sistema universitario nazionale rispetto alla media dei paesi europei. Non è certamente responsabilità dei docenti universitari se in Italia la popolazione tra i 25 e 59 anni e in possesso di un titolo di studio di livello universitario è il 10%, contro il 22% dell’UE, oppure se i dottori di ricerca per ogni 100.000 abitanti sono 16 in Italia contro i 76 della Francia e gli 81 della Germania. La lunghezza dei tempi di studio e l’alto tasso di abbandono sono l’effetto di carenze profonde nei servizi, nelle infrastrutture bibliotecarie, nei laboratori scientifici, negli edifici, nel numero inadeguato di professori e ricercatori rispetto alle dimensioni della popolazione studentesca.

Se il nostro paese, tenuto conto della dimensione della sua popolazione, volesse investire nell’università quanto vi investono in media Francia, Germania e Inghilterra, dovrebbe incrementare la spesa globale sul PIL di almeno il 50%, per aumentare il numero dei dottori di ricerca di tre volte e di quattro il numero delle borse di studio, e, a parità di studenti, per incrementare di almeno il 50% il numero di docenti. Oltre ad accrescere in maniera molto significativa l’investimento per la ricerca universitaria, oggi troppo trascurata.2

Il fatto che il sistema sia sottodimensionato non giustifica affatto – sia ben chiaro – la persistenza di sue pesanti disfunzioni. Ma è dall’insufficienza dimensionale che bisogna partire per valutare le prestazioni attualmente molto insoddisfacenti dell’università, e per individuare le principali azioni correttive. Le cifre prima indicate danno comunque solo l’ordine di grandezza di un programma di interventi che si proponesse, almeno su scala decennale, di avvicinare le dimensioni del sistema universitario nazionale alla media europea (che intanto cresce). Probabilmente mi si dirà che sono tra quelli che «sostengono che l’università italiana va già bene e che per portarla a livelli di eccellenza internazionale basterebbe che il governo accrescesse le risorse a essa destinate». Non è così perché il progetto che ho richiamato dovrebbe rispondere ad altre due coordinate. L’una attiene all’impostazione di un rigoroso meccanismo di valutazione. L’altra impone la verifica e l’utilizzazione di quanto di positivo si è andato costruendo in questi anni.

Voglio soffermarmi sull’una e sull’altra, perché le ritengo questioni ineludibili per rendere credibile e condiviso il progetto per il rilancio del sistema.

Nella prima relazione sullo stato delle università italiane, si è sostenuto: «Autonomia, responsabilità delle scelte, valutazione dei risultati, e infine accreditamento, premi o sanzioni: ecco lo schema che il sistema universitario italiano condivide». L’impostazione di un rigoroso sistema di valutazione (la seconda coordinata) deve essere ritenuto un intervento assolutamente complementare al contesto di progettualità autonoma in cui è opportuno che lavorino le università. Ma, si badi bene, la corretta pratica della valutazione implica anch’essa un consistente investimento strutturale e infrastrutturale, con tempi, risorse umane, finanziarie e materiali affatto indifferenti. In questo caso, concorderei con l’ipotesi di utilizzare come riferimento il modello inglese. Si tratta, allora, utilizzando il lavoro già compiuto in questi anni, di creare una «Agenzia nazionale di valutazione e accreditamento delle attività universitarie». Una struttura complessa cui assegnare il compito di promuovere e guidare la crescita qualitativa del sistema e di valutare i risultati delle autonome scelte degli atenei (e delle loro componenti) relative all’attività didattica, di ricerca e gestionale; e di stabilire, secondo indicatori oggettivi e metodi praticabili di valutazione, le modalità di suddivisione delle risorse finalizzate al raggiungimento di obiettivi politici e di sistema fissati dal governo.

La terza coordinata prima richiamata attiene alla verifica, anche critica, del processo di sperimentazione e innovazione che dal 1995 è tuttora in corso in tutte le università. A questo riguardo, come è noto, le valutazioni sono state spesso molto negative e non c’è dubbio che esse sono motivate anche dagli atteggiamenti autoreferenziali e di difesa corporativa dei privilegi accademici, veri o presunti, piccoli o grandi che siano, e dai fenomeni spesso denunciati di scarsa deontologia dei docenti. Lo spazio che hanno assunto queste valutazioni negative non ha fatto capire quanto impegno si sia profuso in questi anni da parte della maggioranza di coloro che lavorano nell’università e quali risultati positivi si siano raggiunti, pur in condizioni di grandissima difficoltà, nel processo di trasformazione di molti aspetti del sistema universitario.

Oggi, infatti, nelle università non si parte da zero. Nell’ultimo decennio si sono attuati – e senza risorse aggiuntive – costosi cambiamenti, che hanno avuto come premessa l’attuazione dell’autonomia statutaria, dell’autonomia finanziaria e dell’autonomia didattica. È stato un percorso che ha immesso nel sistema importanti componenti innovative, forse inferiori alle attese, ma che non si possono sottovalutare. Con l’autonomia statutaria si sono modificati statuti, regolamenti e norme, si è cambiata la composizione e la rappresentanza dei senati accademici e dei consigli di amministrazione. Con l’autonomia finanziaria si è inciso profondamente nel modo di funzionare del sistema, introducendo nuovi elementi di responsabilizzazione. Si è proceduto a una riorganizzazione amministrativa, finanziaria e gestionale delle strutture centrali e decentrate (facoltà e dipartimenti), anche con l’attivazione di costosi processi di riqualificazione e aggiornamento del personale.

Con l’autonomia didattica si sono riveduti obiettivi, metodi e contenuti dei corsi; adottato il sistema dei moduli e dei crediti; rivisto la struttura e le modalità delle prove di profitto e finali; introdotto nuove attività di tirocinio e di laboratorio. Si stanno ampliando gradualmente le forme di tutorato e orientamento, intensificando i contatti internazionali e la mobilità internazionale degli studenti. Sono stati stabiliti, infine, più mirati contatti con rappresentanti delle forze produttive, delle istituzioni pubbliche e del mondo delle professioni, tradizionalmente estranei al mondo accademico.

Il punto non è di applaudire acriticamente a tutto ciò. Sappiamo che c’è ancora molto da fare, integrare, correggere e perfino eliminare, per realizzare una completa ed efficace autonomia a livello di sistema e di singole componenti, e per legittimarla definitivamente. Ma qualunque ipotesi di intervento deve muoversi in una logica che utilizzi al fine del cambiamento i tanti processi positivi che si sono messi in moto sulla base di un impegno veramente significativo della maggioranza del mondo universitario: docenti, amministrativi, tecnici e studenti. Sarebbe un grave errore politico calare dall’alto modelli precostituiti e non considerare come risorsa fondamentale il contributo di passione, di esperienza, di proposta e di elaborazione che può venire dal più ampio coinvolgimento di questo mondo. Un mondo che si sente oggi minacciato dalla reintroduzione di vecchi meccanismi dirigistici di regolamentazione della vita delle università e dalla possibile revisione dei caratteri fondanti di un’istituzione che ha storicamente costituito il luogo «unico» in cui coesistono i momenti della produzione, della accumulazione e della trasmissione del sapere.  Senza queste risorse non si fa alcuna riforma.

So bene, per concludere, di non aver esplicitamente affrontato tanti altri temi che fanno parte certamente di un programma di rilancio e sviluppo dell’università italiana. In particolare, quelli della governance, dello stato giuridico e del meccanismo di reclutamento. Problemi ai quali nessuno può sottrarsi, ma che possono essere affrontati responsabilmente e in tutta serenità vagliando senza pregiudizi le varie proposte in campo una volta che, come dicevo, ci si impegni, contemporaneamente, a definire il contesto strategico dello sviluppo del «sistema» e a precisare, come necessario complemento, il quadro di un rigoroso e ben organizzato processo valutativo.

Per confrontarsi con le esigenze della società della conoscenza del XXI secolo le università italiane hanno bisogno di una base non ingombrante e dirigistica di principi e di modelli comuni a tutte, di un impianto di autonomie responsabili che legittimi anche le differenze, e di molta, molta valutazione dei risultati. Accrescere la competitività del «sistema» e delle sue componenti non richiede di snaturarne ruolo, status istituzionale e funzioni.

 

 

Bibliografia

1 N. Rossi e G. Toniolo, L’università italiana: autonomia o decadenza, in «Italianieuropei», 1/2004.

2 Rispetto al saggio di Perotti, citato da Rossi e Toniolo, le elaborazioni lì presentate andrebbero approfondite e anche confrontate con i dati riportati nel recente convegno della CRUI (CRUI, La ricerca universitaria, esperienze, modelli, proposte, Roma, 11 giugno 2003) dai quali emerge, di fronte all’oggettiva negatività della situazione, una performance delle università italiane certamente più positiva di quella configurata da Perotti stesso.