Medio Oriente, il realismo contro la politica di potenza

Di Gian Arturo Ferrari Giovedì 01 Aprile 2004 02:00 Stampa

Nel 1989 David Fromkin pubblicò una grande monografia sulla storia del Medio Oriente nel Novecento, più precisamente sulla genesi e l’accumularsi delle tensioni che nell’arco di un secolo hanno trasformato un teatro periferico della politica internazionale nel centro di crisi più acuta, in una sorta di ombelico negativo del mondo. L’origine e la causa di questo capovolgimento stanno secondo Fromkin non in una guerra, ma in una pace, nella pace di Versailles. Il suo libro si intitola infatti «A Peace to end all Peace», una pace per porre termine a ogni pace, che in italiano diventa, perdendo alquanto vigore e precisione, «Una pace senza pace».

 

Nel 1989 David Fromkin pubblicò una grande monografia sulla storia del Medio Oriente nel Novecento, più precisamente sulla genesi e l’accumularsi delle tensioni che nell’arco di un secolo hanno trasformato un teatro periferico della politica internazionale nel centro di crisi più acuta, in una sorta di ombelico negativo del mondo. L’origine e la causa di questo capovolgimento stanno secondo Fromkin non in una guerra, ma in una pace, nella pace di Versailles. Il suo libro si intitola infatti «A Peace to end all Peace», una pace per porre termine a ogni pace, che in italiano diventa, perdendo alquanto vigore e precisione, «Una pace senza pace».1 A dimostrazione del fatto che la pace come esigenza morale e aspirazione universale – nella forma sia di assunto religioso, sia di principio regolativo kantiano – ha poco a che vedere ed è anzi spesso in contrasto con la pace come risultato concreto di un’azione politica. E, si potrebbe aggiungere, ha ancor meno a che fare con l’idea puramente propagandistica di pace, che serve in realtà a definire e rinsaldare uno schieramento, a prendere una parte, una parte appunto militante, all’interno di uno scontro. È stata dunque una pace ben concreta a determinare una condizione di guerra che nello specifico caso israelo-palestinese è diventata un continuum bellico condotto ininterrottamente per oltre mezzo secolo alternando fasi di alta intensità – nel 1948-1949, nel 1956, nel 1967, nel 1973, nel 1982 – a fasi di bassa intensità. Sempre che la fase attuale si possa definire tale.

Bassa o alta che sia l’intensità militare del conflitto israelo-palestinese, l’intensità emotiva, ideologica, politica e in definitiva culturale rimane altissima. Per spiegare questa sorta di avvitamento parossistico si ricorre spesso a motivazioni che si suppongono di lungo periodo e pertanto profonde, attinenti all’identità religiosa, culturale, etnica dei protagonisti. Dei palestinesi, cioè degli arabi e per estensione dei musulmani, e degli israeliani, cioè degli ebrei e dunque degli israeliti. Non sono spiegazioni convincenti. Per oltre un millennio arabi ed ebrei, israeliti e musulmani hanno intensamente convissuto. Per oltre un millennio è stato molto più conflittuale il rapporto tra musulmani e cristiani, tra ebrei e cristiani. Dunque le cause sono molto più prossime, tutte legate alla storia ottocentesca e novecentesca, specialmente europea, e tutte sovrapposte le une alle altre, come strati di sedimenti deformati e metamorfizzati dal peso dei nuovi che si sono andati aggiungendo. A partire dall’ideologia nazionalistica, per venire alla politica di potenza tra gli Stati coloniali, alla distruzione degli ebrei d’Europa, alla guerra fredda, al mondo dopo il Muro e dopo le Torri. In tutte queste torsioni il conflitto israelo-palestinese ha agito come un terribile e tragico distruttore delle buone intenzioni, delle retoriche positive, capovolgendo pesi e sensi, trasformando i superstiti di un atroce sterminio tedesco in una piccola Prussia mediorientale, miti coltivatori di ulivi della valle del Giordano in terroristi tra i più sanguinari e spietati che la storia ricordi, sapienti tessiture diplomatiche in mortificanti prove di impotenza, la grande idea guida dello Stato nazionale in un inestricabile mosaico di microfrontiere.

Di fronte al calor bianco di queste contraddizioni, l’opinione colta, europea e italiana, specie di sinistra, ha cercato una difesa rifugiandosi dietro semplici dicotomie o scelte di campo che dir si voglia. Più per non voler vedere, che per ubbidire agli schemi della guerra fredda. Ma in sostanza scegliendo uno schieramento a priori e ammassando poi ragioni, motivazioni e analisi – spesso accompagnate da appelli fortemente emotivi – a difesa e consolidamento della posizione. Un modo di atteggiarsi che è stato ben comprensibile, condivisibile e condiviso, ma che oggi non può più essere mantenuto. A rischio di non comprendere che nel mondo nuovo che ci sta di fronte i valori specificamente culturali hanno acquistato autonomia e forza, al punto che la loro identificazione, costruzione e difesa può costituire in alcuni casi – e probabilmente il conflitto israelo-palestinese è tra questi – l’unica forma di azione efficace. Un tratto distintivo e a modo suo pionieristico del conflitto israelo-palestinese è stata la sua elevatissima spettacolarità, l’essere rappresentato di fronte a e in funzione di una platea mondiale che, per questa via è in certa misura in grado di condizionarlo. E oltre a esprimere, questa platea, il suo vivo sostegno alla Road Map dovrebbe fermamente attestarsi su due posizioni, che sono due rifiuti. Definitivi e incondizionati.

Il primo è il rifiuto della politica di potenza, nelle due varianti classiche, e qui fuse insieme, dell’ingrandimento territoriale e della politica del fatto compiuto. In termini molto sintetici, ma molto efficaci, questo principio è stato formulato da Thomas Friedman quando ha detto che Israele non può essere insieme tre cose: uno Stato democratico, uno Stato ebraico, e uno Stato esteso su tutta l’Israele biblica. Se ne possono prendere due alla volta (e sullo Stato ebraico ed esteso sull’Israele biblica, ma non democratico, ci sarebbe da ridire), ma tutti e tre no. La politica di potenza di Israele, fondata sull’assunzione contemporanea di questi tre principi, è in prima istanza inefficace. L’ingrandimento territoriale, per la legge di inversione dei segni che caratterizza il conflitto israelopalestinese, si traduce non in maggiore sicurezza, ma in crescente insicurezza, come si può vedere dall’inopinato ritorno sulla scena di vetuste tecniche di assedio e di fortificazione. La politica del fatto compiuto, pensata per acquisire maggior forza negoziale, a ogni suo passo rimanda e sposta in avanti il momento del negoziato vero, fino a farlo svanire in un futuro potenzialmente infinito. Ma non sono le ragioni di inefficacia pratica a determinare il rifiuto della politica di potenza. È la sua stessa idea a essere inaccettabile, la sua legittimità teorica a essere condannata. La visione bismarckiana, incentrata sull’ordinamento internazionale nato con la pace di Westfalia, ha condotto a due guerre mondiali. Non si può consentire che nel mondo senza frontiere in cui viviamo contribuisca a provocarne una terza, anche nella forma più strisciante e pullulante ma onnipersuasiva della bassa intensità.

Il secondo rifiuto, reciso, riguarda ogni forma di giustificazione o comprensione del terrorismo suicida. Non che, ovviamente, il terrorismo non suicida sia ammissibile e giustificabile. Ma quello suicida, soprattutto se praticato su larga scala fino a configurare una sorta di normalità nel suo uso, rappresenta un ultimo decisivo progresso verso l’idea di un’arma finale, assoluta. Il carattere assoluto del terrorismo suicida riguarda innanzitutto l’impossibilità in via di principio, e in larga misura anche pratica, a difendersene e dunque l’esaltazione estrema dell’aspetto propriamente terroristico, ispiratore di terrore. Ma ancor più importante è la magnificazione totale, totalitaria, di quell’aspetto oblativo che è all’origine e alla radice di ogni forma di adesione ideale. Il darsi, il dare se stessi comporta sempre un’attribuzione di nobiltà verso chi lo compie, quanto meno un rispetto. Nella sua versione estrema fa sì che l’orrore delle conseguenze venga quasi pareggiato dalla totalità del sacrificio, del prezzo pagato, come se l’essere inermi delle vittime si trasferisse sull’essere inerme dell’aggressore, su una sua nudità essenziale: non abbiamo altro che noi stessi. La terminologia stessa con cui ci si riferisce al terrorismo suicida è rivelatrice, o che prenda a prestito da un codice militaresco feudale la denominazione dei votati alla sconfitta – kamikaze – o che conferisca al gesto un’aura religiosa, di testimonianza irrevocabile alla propria fede – martiri. In realtà, quello che opera nel terrorismo suicida è l’estremo della strumentalità. Trasformo me stesso in un’arma. Mi uccido per meglio uccidere. Nel finale del Deutsches Requiem di Borges il criminale di guerra nazista Otto Dietrich sur Linde, in procinto di essere fucilato come torturatore e assassino, si compiace perché, anche se la Germania è crollata, il mondo ha ricevuto il dono «circolare e perfetto» della violenza e della fede nella spada. «Si libra ora sul mondo un’epoca implacabile. Fummo noi a forgiarla, noi che ora siamo le sue vittime. Che importa che l’Inghilterra sia il martello e noi l’incudine? Quel che importa è che domini la violenza non la servile viltà cristiana». L’epoca implacabile si è rivelata suscettibile di perfezionamenti.

Il terrorismo suicida, nella sua totale strumentalità riflessiva, rappresenta un sicuro progresso. Il famoso motto di Rabin, trattare come se il terrorismo non ci fosse, combattere il terrorismo come se non si stesse trattando, si è rivelato bello, ma non è stato finora in grado di ispirare soluzioni praticabili. Forse si può trattare solo se il terrorismo suicida è realmente condannato e isolato nell’opinione colta mondiale. Forse si può soffocare il terrorismo suicida solo se le trattative sono reali, solo se l’opinione colta mondiale esige e impone un termine e una conclusione.

 

Bibliografia

1 D. Fromkin, Una pace senza pace, Rizzoli, Milano 1992.