Dopo Kyoto: inquinamento, politica dei trasporti e industria dell'auto

Di Andrea Boitani e Marco Ponti Martedì 01 Marzo 2005 02:00 Stampa

Sono quotidianamente davanti ai nostri occhi due rilevanti problemi nazionali: l’inquinamento urbano – troppo spesso fuori dai limiti imposti dall’Unione europea – e la crisi dell’industria automobilistica nazionale. Lo scopo di questo intervento è mostrare come sia possibile affrontare tali emergenze sinergicamente, ovvero come una politica attenta all’ambiente possa avere degli spillover molto positivi per l’industria automobilistica italiana e non solo per essa.

 

Sono quotidianamente davanti ai nostri occhi due rilevanti problemi nazionali: l’inquinamento urbano – troppo spesso fuori dai limiti imposti dall’Unione europea – e la crisi dell’industria automobilistica nazionale. Lo scopo di questo intervento è mostrare come sia possibile affrontare tali emergenze sinergicamente, ovvero come una politica attenta all’ambiente possa avere degli spillover molto positivi per l’industria automobilistica italiana e non solo per essa.

I limiti di inquinamento urbano imposti dall’Unione europea e recepiti dalla normativa nazionale sono illustrati nella Tabella 1. Essi riguardano diversi tipi di inquinanti e divengono più restrittivi nel tempo, o perché si prevede una riduzione del livello massimo di emissioni giornaliere (oppure orarie) o perché si prevede un minor numero di giorni in cui le emissioni possono superare il massimo giornaliero o, infine, perché vengono abbassate le soglie di allarme.

Tabella 1

Gli ultimi dati ufficiali e completi circa la situazione delle principali città italiane risalgono al 2003 e sono riportati nella Tabella 2, con esclusione di quelli riguardanti il monossido di carbonio e il biossido di zolfo, per i quali negli ultimi anni la situazione è andata molto migliorando e i casi di non rispetto dei limiti attuali e futuri sono rarissimi. Con riferimento agli inquinanti ancora oggi problematici, i dati rilevati mostrano che nel 2003 molte città non rispettavano i limiti imposti per il 2005 ed erano molto lontane dagli obiettivi fissati per il 2010, in particolare con riferimento alle polveri sottili e all’ozono. Inoltre, nel 2004 e soprattutto in questi primi mesi del 2005, la situazione è andata peggiorando per i particolari (ma ormai non rari) eventi climatici che hanno caratterizzato questi due anni.

Tabella 2

Il contributo dei trasporti ad alcune componenti dell’inquinamento atmosferico è rilevante: il 30% delle polveri sottili, il 65% del monossido di carbonio, il 67% del benzene, il 36% dei composti organici volatili, il 53% dei vari ossidi di azoto. Viceversa, i trasporti c’entrano molto poco con gli ossidi di zolfo (2%). Poiché le emissioni dei veicoli avvengono a livello del suolo o quasi, il loro impatto a livello locale è assai più significativo di quanto sia a livello nazionale, cui le percentuali prima citate si riferiscono. Quanto all’inquinamento acustico nelle città, il movimento dei veicoli a propulsione interna contribuisce per quasi il 100% del rumore non prodotto da lavori stradali e ristrutturazioni di edifici.

Spesso la politica e i mass media tendono a trattare l’inquinamento urbano come «emergenza», come se negli anni passati l’inquinamento non vi fosse stato e non fossero state promesse misure strutturali e in alcune città, come Milano, non fossero addirittura stati conferiti poteri speciali al sindaco (risultati poi quasi del tutto inefficaci). Targhe alterne e chiusure domenicali non sembrano proprio misure strutturali, mentre è ormai provata la loro modesta efficacia soprattutto nei confronti delle polveri sottili, generate in grande misura dai veicoli diesel, in primo luogo furgoni, e poi mezzi pesanti (compresi gli autobus) e auto diesel private. Anche lo squilibrio modale a favore del trasporto privato contribuisce a peggiorare l’inquinamento. È infatti evidente che, seppure ogni singolo veicolo adibito al trasporto collettivo è più inquinante del singolo veicolo per trasporto privato (a parità di propulsione), il trasporto privato produce più inquinamento (e più congestione) per passeggero trasportato.

L’intervento fiscale sui carburanti deciso dal governo nel mese di febbraio per generare risorse da destinarsi all’ammodernamento del parco autobus, oltre che gravemente sottodimensionato nei confronti del rinnovo stesso, è comunque poco efficace, e contribuisce a «inquinare» il contesto competitivo per il trasporto locale, mantenendo il finanziamento del parco veicolare direttamente nelle mani degli enti locali e rallentando perciò la creazione di un mercato secondario dei veicoli. Questa è invece condizione essenziale per l’alternanza delle imprese da conseguirsi con le gare, che, secondo la normativa in vigore, dovrebbero svolgersi entro la fine del corrente anno. Gare che – se ben organizzate – sarebbero in grado di ridurre consistentemente i costi unitari dei servizi di trasporto collettivo e, perciò, consentirebbero agli enti locali di avere più risorse finanziarie da destinare all’ampliamento dei servizi offerti e/o a maggiori investimenti per le infrastrutture di trasporto necessarie.

Un esempio, per quanto limitato alla città di Roma, aiuta a capire l’entità delle cifre in gioco. Il corrispettivo per vettura-km3 del servizio di superficie gestito da Trambus nella capitale è stato nel 2004 pari a 3,62 euro, per i servizi di sotterranea di Metro il corrispettivo è stato di 3,35 euro per vettura-km. Per i servizi gestiti dal raggruppamento di imprese guidato da Sita – affidato a seguito di tre gare tenutesi tra il 1999 e il 2001 – il corrispettivo è pari a 2,20 euro. Il totale dei corrispettivi pagati dalla regione Lazio e dal comune di Roma hanno superato i 560 milioni di euro. Se anche le due s.p.a. comunali fossero state in grado di operare ai costi di Sita, vi sarebbe stato un risparmio (nel solo 2004) di circa 193 milioni di euro, ovvero del 34% dei corrispettivi totali effettivamente erogati.

Già l’ultimo Piano generale dei trasporti riconosceva come il riequilibrio modale dal trasporto su strada a quello su rotaia e, più in generale, dal trasporto privato a quello collettivo fosse strumento da utilizzare con molta cautela e comunque non attraverso il semplice aumento dei sussidi alle attuali inefficienti imprese di trasporto. Va considerato, in primo luogo, che a motorizzazione invariata del parco circolante lo spostamento di mobilità dai mezzi privati a quelli pubblici dovrebbe essere di una dimensione ingente e quindi sarebbe molto oneroso per la finanza pubblica in termini di maggiori sussidi.

D’altra parte, non è affatto scontato che un simile onere finanziario garantisca il raggiungimento degli obiettivi di riduzione dell’impatto ambientale dei trasporti che le varie città dovrebbero raggiungere entro il 2010. E ciò per il convergere di molti fattori, spesso interrelati fra loro in meccanismi che si autoalimentano. Innanzitutto il reddito e i modelli di vita e di lavoro. Al crescere del reddito aumentano le occupazioni di tipo professionale-terziario, che prevedono una mobilità spesso non pendolare (cioè rigida nello spazio e nel tempo, con spostamenti casa-lavoro a orari e itinerari fissi). A questo modo di lavorare è funzionale la flessibilità dell’automobile, assai meno la rigidità del trasporto pubblico, anche se reso più efficiente di quello attuale.

Al crescere del reddito, inoltre, crescono le attività connesse al consumo (acquisti ecc.) e al tempo libero, che aumenta anche con l’accorciarsi delle ore lavorative e degli anni di vita attiva di pensionati in ottima salute. Anche il tempo libero è meglio servito dalla flessibilità del trasporto individuale, soprattutto se goduto in famiglia (l’automobile presenta costi bassi e particolari vantaggi se usata per muovere nuclei familiari, rispetto ai modi collettivi).

Infine, l’assetto del territorio è ormai organizzato, in vaste aree del paese, intorno all’automobile: la «fuga dalle città», originata dal combinarsi dei prezzi inferiori delle residenze nelle aree esterne, e dalla possibilità di godere di spazi privati (giardini, box ecc.), ha generato un abbassamento delle densità insediative molto diffuso, che risulta difficilmente servibile dai mezzi pubblici. Questi infatti richiedono flussi consistenti di utenti per essere erogati a costi tollerabili, mentre in molte aree già ora le densità sono così basse che l’occupazione media dei mezzi è scesa al di sotto dei dieci passeggeri per autobus. E anche le attività dedicate al consumo più razionali ed economiche (la grande distribuzione, i locali cinematografici multisala e multifunzione ecc.) si appoggiano all’automobile privata, come pure le scelte localizzative di molte imprese, in un processo circolare di strutturazione del territorio di tipo nordamericano.

Per quanto riguarda la distribuzione urbana delle merci, il cambio modale appare poi del tutto irrealistico, per ragioni che dovrebbero saltare facilmente agli occhi. Ma anche i carichi di breve e media distanza (che peraltro è la quota di gran lunga maggiore di tutto il trasporto merci) sono molto difficilmente spostabili dagli autocarri e dai furgoni, che garantiscono una rapidità e una capillarità di prese e consegne impensabili per la modalità ferroviaria (assai più vocata, viceversa, ai trasporti di lunga distanza).

Il riequilibrio modale, inoltre, non avrebbe sostanzialmente efficacia sull’industria dell’auto, che – come si è detto – rappresenta una delle questioni nazionali più delicate e più difficili da affrontare nel rispetto delle regole di mercato previste dall’Unione europea, cioè senza illeciti aiuti di Stato.

Sembra allora evidente come, per affrontare insieme la questione dell’inquinamento urbano e delle grandi aree metropolitane e quella dell’industria dell’auto, sia necessario mettere in atto una complessa strategia che dissuada dall’uso dei veicoli privati inquinanti e incentivi la sostituzione dei veicoli inquinanti con quelli «puliti», con ciò fornendo alle imprese segnali di mercato forti, capaci di orientare le loro politiche di sviluppo nei prossimi anni. Non è inutile notare quale sia l’impatto sulla riduzione dell’inquinamento derivante dall’utilizzo di mezzi che adottino tecnologie capaci di ridurre le emissioni. La Tabella 3 si riferisce soltanto ai motori diesel, ma appare molto significativa.

Tabella 3

L’esigenza di una simile strategia emerge anche perché si profila all’orizzonte un terzo grave problema: il rarefarsi dei combustibili fossili in assoluto e rispetto alla domanda. Secondo le previsioni più accreditate, la produzione americana di petrolio ha già toccato il suo punto di picco ed è ormai sulla via dell’inevitabile declino, come mostra il Grafico 1. Nel resto del mondo il profilo temporale appare analogo. Il fatto che l’ultimo shock petrolifero, connesso alla guerra in Iraq ma anche alla crescita dei consumi dei paesi emergenti, non tenda a riassorbirsi, ma a stabilizzare prezzi quasi doppi rispetto al periodo immediatamente precedente, sembra sintomatico del formarsi di «prezzi d’attesa» difficilmente comprimibili. Per non parlare del costo economico, oltre che sociale ed umano, connesso al controllo militare, più o meno esplicito, delle fonti petrolifere e quindi delle aree di produzione.

Grafico 1

Una politica pubblica «severa», orientata a Kyoto, che sommi vincoli a interventi di road pricing per i veicoli stradali inquinanti (o ingombranti, per la congestione urbana), invece che essere percepita come un costo, può assumere la connotazione di un’occasione per una efficace ed efficiente politica industriale per il settore automobilistico. Gli strumenti tecnici sono molteplici, e supportati da una rapida diffusione dell’information tecnology, che consente per esempio politiche di tariffazione molto flessibili e mirate, come insegnano l’esperienza di Londra e quella tedesca per i camion, tecnologicamente ancora più sofisticata. Ma anche nel nostro paese sono in corso ricerche e proposte in questo settore, orientate all’uso del telefono cellulare per ottimizzare i flussi di traffico nelle città.

Per quanto concerne i propulsori, non vi sono ragionevoli dubbi che la tecnologia teoricamente più promettente sia quella delle celle a combustibile alimentate direttamente a idrogeno: convergono in questa direzione sia gli elevati rendimenti di tali motori sia il fatto che l’idrogeno è producibile da fonti rinnovabili (o nucleari). L’ostacolo maggiore è che si tratta di un «vettore energetico» e non di una «fonte energetica» come i combustibili fossili. In altre parole, richiede energia per essere prodotto, e anche i problemi tecnici dei propulsori sono risultati più complessi del previsto. Tuttavia, una nota fondamentale di ottimismo per lo «scenario a idrogeno» nella propulsione deriva da considerazioni fiscali: al netto delle tasse italiane attuali sui carburanti, la produzione e la distribuzione (anche capillare) di idrogeno sarebbe già oggi competitiva rispetto ai carburanti fossili tassati.

In altre parole, detassando completamente l’idrogeno il costo del carburante di un veicolo a celle di combustibile sarebbe già oggi competitivo. Queste considerazioni aprono ovviamente spazio in prospettiva a politiche fiscali di incentivazione/disincentivazione molto incisive.

Ma vi sono molte «traiettorie tecnologiche» possibili per arrivare all’idrogeno: motori ibridi di crescente sofisticazione, produzione di idrogeno a bordo veicolo (reformer), combustione diretta dell’idrogeno in motori a scoppio, i progressi ancora possibili nei veicoli elettrici, i sistemi di «assistenza elettronica alla guida» finalizzata, insieme alla riduzione di peso dei veicoli, alla minimizzazione dei consumi ecc. È calcolabile che con un motore ibrido a metano o con un motore ibrido a benzina i costi esterni derivanti dall’inquinamento prodotto da un’auto di medie dimensioni si ridurrebbero di oltre il 60% rispetto a quelli della stessa auto spinta da un motore a benzina che si adegui agli standard Euro IV in vigore da quest’anno e di oltre il 40% rispetto a quelli della stessa auto con motorizzazione diesel, sempre di tipo Euro IV.

Per quanto concerne le tecnologie informatiche, si tratta di sistemi di identificazione dei veicoli, di pagamento di pedaggi relazionati con i livelli di congestione e inquinamento, repressione delle infrazioni, orientamento nella scelta ottimale dei percorsi in relazione a variabili dinamiche (carico sulle strade ecc.), basati sulla tecnologia dei telefoni cellulari connessa a sistemi satellitari GPS.

In futuro esporteremo sempre meno automobili: si tratta di una tecnologia matura, se si escludono alcune componenti sofisticate. Non è certo così per i sistemi propulsivi a basse emissioni: i veicoli innovativi oggi in commercio (ibridi di prima generazione) sono praticamente solo giapponesi e a diffusione limitatissima. E questo è vero anche per le tecnologie informatiche di cui si è detto. I paesi emergenti (soprattutto India e Cina) si troveranno presto di fronte a una motorizzazione «esplosiva», con prezzi petroliferi rapidamente crescenti, anche a motivo dei loro stessi consumi nel settore dei trasporti, e fenomeni di congestione ingestibili. Diventeranno allora esportabili proprio le tecnologie di gestione della «domanda di traffico» e soprattutto quelle di propulsione non inquinante, in cui i paesi industriali, e quindi l’Italia, possono costruirsi un rilevante vantaggio.

Se l’industria automobilistica nazionale orientasse in questo senso la sua strategia, la politica potrebbe «accompagnarne» gli sforzi di ricerca e innovazione tecnologica mediante incentivi mirati e articolati nel tempo a favore del rinnovo del parco auto con veicoli «puliti», senza per questo distorcere la concorrenza. Gli incentivi, infatti, sarebbero fruibili acquistando «qualsiasi» auto pulita, che sia prodotta a Torino, in Giappone o in Corea. A puro titolo di esempio, se nella traiettoria verso l’idrogeno l’industria nazionale puntasse su veicoli ibridi diesel, con filtri antiparticolato, di dimensioni esterne via via decrescenti per ridurre i problemi di parcheggi/congestione, i vincoli agli ingressi nelle aree urbane o sui corridoi densi potrebbero essere modulati nel tempo sulle caratteristiche di ingombro e di emissioni di tali veicoli, formalmente senza discriminare alcun produttore, ma di fatto incentivando l’industria nazionale.

Parimenti, se i sistemi di vincolo fossero appoggiati a tecnologie informatiche di «crediti» e pagamenti basate sui telefoni cellulari connessi al sistema GPS (satellitare), secondo un modello simile a quello in corso di introduzione per i veicoli pesanti in Germania, la diffusione di tali tecnologie potrebbe essere incentivata dalla normativa pubblica in modo non discriminante. Anche in Germania il sistema è stato realizzato in gara, ma le specifiche pubbliche (messe a punto, di fatto, in collaborazione con l’industria tedesca) presupponevano un’approfondita conoscenza del contesto tecnologico e normativo di quel paese e il risultato della gara lo ha pienamente confermato.

L’«accompagnamento» sopra citato potrebbe consistere in un «calendario» di vincoli e incentivi basato sugli standard prescritti a livello europeo per il 2010, ma negoziato e articolato con l’industria nazionale in modo esplicito. Questa non incorrerebbe per ciò in alcuna sanzione, dal momento che qualunque produttore estero potrebbe adeguarsi agli standard e nessun aiuto discriminatorio andrebbe all’industria nazionale. Se, per esempio, quest’ultima puntasse più direttamente sull’idrogeno che sugli ibridi «intermedi», i vincoli sulle emissioni potrebbero divenire più stretti e la detassazione dei carburanti non fossili più immediata (accompagnata dal sostegno alla realizzazione della rete di distribuzione, sempre fatto in modo non discriminatorio). E così per le diverse opzioni tecnologiche e i diversi tempi prevedibili per la loro immissione nel mercato.

La scelta del «polo del lusso», adombrata recentemente dai vertici dell’industria automobilistica nazionale, non sembra, invece, andare in questa direzione: i veicoli ad alte prestazioni presuppongono una scarsa attenzione alle emissioni inquinanti, sia da parte degli utenti che dei produttori. Esiste certo il problema dei margini di utile dei modelli sofisticati e a elevate prestazioni, che sono molto maggiori di quelli di basso prezzo (anche a motivo della concorrenza dei paesi emergenti). Ma la promozione pubblica di veicoli a basso impatto otterrebbe un risultato analogo: cambierebbe di fatto radicalmente il concetto di «elevata prestazione», che verrebbe orientata alla tutela dell’ambiente. Il successo presso una clientela intellettuale e mondana dei veicoli ibridi negli Stati Uniti, che ne hanno fatto una sorta di status symbol di nuovo tipo fa sperare.

Anche i limiti di velocità (e soprattutto il loro rispetto, anch’esso ottenibile con l’ausilio della tecnologia telematica) possono giocare un ruolo importante: uno degli ostacoli all’introduzione di tecnologie propulsive a basso impatto ambientale sono le limitate velocità di punta dei veicoli. Ma se l’attuale limite assoluto (e abbastanza generoso rispetto agli USA) di 130 Km/ora fosse davvero fatto rispettare senza eccezioni apprezzabili, l’appeal (ancora oggi elevato) di veicoli capaci del doppio di tale velocità si ridurrebbe drasticamente.

E, inoltre, il settore «lusso» o «sportivo/lusso» sembra molto ben presidiato dai concorrenti europei, che hanno fatto la stessa scommessa, ma con anni di anticipo. Mercedes, BMW e Audi in Germania, Volvo e Saab in Svezia, e Jaguar nel Regno Unito costituiscono un «blocco storico» difficile da attaccare, se non nelle frange estreme come Ferrari e Maserati, che non rappresentano esattamente dei modelli di sobrietà o di velocità compatibili con le strade italiane. Forse sarebbe meglio spingersi in direzioni più lungimiranti, soprattutto tenendo d’occhio l’evoluzione dello scenario energetico e ambientale su scala mondiale.

 

 

Bibliografia

1 I numeri in parentesi indicano il numero massimo di superamenti annui consentiti.

2 I valori indicati con «max» rappresentano i peggiori livelli rilevati da una centralina; i valori indicati con «media» sono invece i livelli medi calcolati in base alle rilevazioni di tutte le centraline di ogni comune.

3 Si tratta di un corrispettivo di tipo gross cost. All’agenzia comunale (ATAC) affluiscono sia i contributi pubblici che i ricavi da traffico delle varie aziende. Contributi e ricavi da traffico formano insieme il «monte corrispettivi» che vengono distribuiti agli operatori in ragione delle vetture-chilometro prodotte secondo quanto stabilito nei vari contratti di servizio, con i corrispettivi unitari riportati nel testo.