La sussidiarietà presa sul serio

Di Claudio De Vincenti e Andrea Tardiola Venerdì 27 Marzo 2009 20:25 Stampa

L’impostazione sottesa al processo di decentra­mento amministrativo e alla riforma del Titolo V della Costituzione si è fondata sul presupposto del­la ricongiunzione sul territorio del circuito auto­nomia-responsabilità politico-amministrativa. Il campo delle politiche sanitarie costituisce un ter­reno d’elezione per esaminare il processo federa­lista in corso, rappresentando la componente mag­gioritaria dei bilanci regionali.

La storia è ancora maestra?

Un tradizionale connotato della storia istituzionale e amministrativa è quello della mancata implementazione dei programmi di riforma: molte, troppe, quelle varate ma non realizzate. Il dibattito sul federalismo fiscale, al contrario, pone di fronte a serie preoccupazioni sugli effetti di una implementazione poco governabile di un processo istituzionale tanto rilevante, dagli effetti tutt’altro che scontati e, soprattutto, carico di obiettivi dichiarati niente affatto coerenti rispetto a quelli occulti.

Facciamo un passo indietro. L’impostazione sottesa, a partire dagli anni Novanta, al processo di decentramento amministrativo – le cosiddette riforme Bassanini – e successivamente alla riforma del Titolo V della Costituzione si è fondata sul presupposto della ricongiunzione sul territorio del circuito autonomia-responsabilità politico-amministrativa. La teoria, a supporto del processo di trasformazione istituzionale, che dalla metà degli anni Novanta per un decennio ha occupato la scena (con la sola eccezione della Lega, esplicita nelle velleità separatiste) è stata quella di una sussidiarietà orizzontale che avrebbe dovuto liberare le energie delle Regioni più forti ma allo stesso tempo avrebbe consentito di attivare quelle dei territori in ritardo di sviluppo.

Tecnicamente, il processo è passato per un consistente trasferimento di funzioni dal centro a Regioni ed enti locali nella seconda metà degli anni Novanta e per un ribaltamento, con la riforma del Titolo V, delle competenze legislative che ha consegnato alle Regioni il presidio su gran parte delle materie relative ai servizi alle persone e parte consistente dei servizi dedicati al sistema economico. Questo trasferimento di funzioni dal centro alla periferia è stato accompagnato da un potenziamento progressivo dell’autonomia fiscale degli enti territoriali, ma in un quadro ancora incompleto e che solo con l’attuazione dell’articolo 119 della Costituzione può trovare coerenza. Il punto, tuttavia, è che la proposta di federalismo fiscale all’esame del Parlamento consente solo parziali valutazioni sul suo impatto. Le ragioni di questa difficoltà sono relative alle possibili interpretazioni (volutamente irrisolte) di molte clausole del testo che, non a caso, ha la natura di legge delega. Inoltre sono dovute al ricorso a meccanismi quali la definizione dei fabbisogni e dei costi standard che potranno essere tradotti in esercizio concreto solo se il paese si doterà (specie a livello di governo nazionale) di una mole di informazioni interconnesse – cioè di sistemi informativi – ben più maturi di quelli attualmente disponibili, tema che sarebbe finalmente ora di mettere all’ordine del giorno.

Parte della discussione si è concentrata, per queste ragioni, sulla scarsità e volatilità delle cifre che devono descrivere l’atterraggio della riforma sulle amministrazioni regionali e locali, con lo stesso ministero dell’Economia a precisare che a oggi una previsione contabile non può essere sviluppata con apprezzabile affidabilità. Tuttavia, alcune valutazioni possono essere sviluppate anche senza numeri o con quelli esistenti, concentrando l’attenzione più sui meccanismi che il progetto di federalismo fiscale intende adottare e confrontandoli con i successi e gli insuccessi delle prassi istituzionali degli anni recenti. Lo schema d’azione che vuole conformare l’attuazione dell’articolo 119 della Costituzione, infatti, non si discosta da quello che ha tracciato la rotta ideale delle politiche di decentramento del decennio appena trascorso e, poiché queste ultime non ci consegnano un modello istituzionale ben bilanciato sul territorio in termini di chiusura del circuito autonomia- responsabilità, è importante essere consapevoli dei correttivi che vanno introdotti nei prossimi dispositivi. In estrema sintesi lo schema che si persegue è il seguente: le istituzioni territoriali autoderminano il proprio indirizzo politico istituzionale, ma devono rispettare un livello di soddisfacimento dei diritti costituzionali omogeneo a livello nazionale (strumento normativo: livelli essenziali delle prestazioni; strumento contabile: definizione dei fabbisogni standard e degli obiettivi di servizio); le risorse necessarie a dotare della necessaria copertura finanziaria i fabbisogni standard sono in primo luogo le entrate proprie del singolo territorio, inoltre la compartecipazione a entrate erariali e, laddove queste due voci non fossero sufficienti, una quota del fondo perequativo (strumento contabile: definizione dei costi standard); laddove la funzione di indirizzo e quella gestionale di un territorio non fossero in grado di corrispondere ai fabbisogni, oppure di farlo solo con costi maggiori e relativo sfondamento del Patto di convergenza, il sistema prevede misure sanzionatorie fino all’esercizio del potere sostitutivo (strumento normativo: potere sostitutivo come disciplinato dalla legge La Loggia, 131/03; strumento contabile: meccanismo di coordinamento dinamico della finanza pubblica).

A fronte di questo schema la questione centrale che occorre porsi è la seguente: poiché si tratta di un modello teorico che è stato rincorso anche negli anni recenti, quale prova hanno dato gli strumenti di premio e sanzione all’interno della logica autonomia-responsabilità? La risposta, con alcune eccezioni tra cui quella molto importante di cui si dirà più avanti, è purtroppo abbastanza negativa, scontando comportamenti assai poco responsabili di una parte significativa delle amministrazioni. Sono emerse così in questi anni alcune criticità di cui è assolutamente necessario essere consapevoli se si vogliono affrontare i nodi giunti al pettine: la debole capacità del centro nel monitorare l’andamento della spesa locale; una crescente (e comprensibile) ostilità delle amministrazioni virtuose a sopportare i tagli lineari per le gestioni inefficienti di altri; il fallimento dello schema dell’intervento sostitutivo. Si è assistito dunque sia a scelte che hanno sconfessato platealmente il principio del federalismo delle responsabilità – il governatore del buco finanziario della sanità del Lazio che diventa ministro della Salute, il ripiano del Comune di Catania, Comuni che derogano al Patto di stabilità in ragione della maggiore capacità di negoziato politico – sia a tentativi di intervento che riscontrano un sostanziale fallimento – i commissariamenti per il problema rifiuti in Campania.

Diversamente si è dimostrato un percorso di notevole potenziale quello adottato con i piani di rientro per le Regioni in deficit finanziario, per la capacità di reindirizzare le strategie regionali verso equilibri di governo della spesa attraverso programmi di ristrutturazione dei Servizi sanitari regionali. L’aspetto istituzionalmente più interessante dei piani di rientro, inoltre, consiste nelle modalità negoziali che costituiscono la loro principale caratteristica e che li pone come un modello emblematico rispetto al tema del federalismo responsabile: nel caso dei piani di rientro, lo schema è quello di una vera e propria cogestione tra Regione e governo nazionale, laddove tutti i provvedimenti dell’ente sono oggetto di validazione da parte di un tavolo di tecnici del ministero del Welfare e di quello dell’Economia. Un bilanciamento dei rapporti tra livelli di governo che si ispira più ad uno schema di cogestione che al modello teorico del nuovo Titolo V.

La lezione che dall’esperienza di questi anni si può trarre è quella di una netta predominanza di uno schema d’azione, quello del tradizionale negoziato politico tra territori o tra centro e territori, che in alcuni casi produce processi istituzionali positivi – i piani di rientro – in altri genera scelte arbitrarie laddove il negoziato azzera nei fatti il meccanismo premio-sanzione che l’ordinamento prevede. Se non stupisce quest’ultimo esito, tuttavia mette in allarme rispetto alla possibilità di sterilizzare un sistema che vive di relazioni squisitamente politiche con un meccanismo freddamente contabile gestionale, il costo standard, cui il progetto di federalismo fiscale in discussione sembra invece attribuire virtù taumaturgiche.

Sussidiarietà in salute, standard e governance: il Patto per la salute

Il campo delle politiche sanitarie costituisce un terreno d’elezione per esaminare il processo federalista in corso, rappresentando la componente maggioritaria dei bilanci regionali. Da questo punto di vista la sanità ha costituito il battistrada delle riforme istituzionali in senso più ampio – si pensi al tentativo percorso con il decreto legislativo 56/00 – e oggi guarda al dibattito in corso portando un’esperienza molto indicativa che investe, innanzitutto, il nesso stringente tra andamento della spesa sanitaria e capacità di governo del sistema.

L’evoluzione della spesa sanitaria degli anni recenti ha messo in luce, infatti, andamenti molto più collegati alla capacità di governo del sistema che alle tipiche determinanti sottostanti la dinamica di lungo periodo (invecchiamento della popolazione e costi delle nuove tecnologie sanitarie, oltre al cosiddetto morbo di Baumol). L’ISTAT ha certificato che nel 2007 la spesa sanitaria ha fatto registrare una netta frenata: il tasso di crescita nell’anno è stato dello 0,9%, a fronte di una media annua del 6,3% nel quinquennio 2001-06. Anche incorporando nel dato 2007 il costo dei rinnovi contrattuali del biennio 2006-07, slittato al 2008, il tasso di crescita risulterebbe comunque inferiore al 3%, meno della metà del quinquennio precedente. La frenata ha riguardato tutte le voci principali della spesa sanitaria. Che tale andamento della spesa fosse riconducibile per la sua componente principale alla specifica capacità di governo del sistema sanitario regionale è confermato dal fatto che i disavanzi sanitari erano concentrati soprattutto in regioni con livelli di qualità dei servizi inferiori alla media italiana e in alcuni casi connotate per una gestione quanto mai discutibile. Aver recuperato un controllo sulla spesa sanitaria, che si è attestata sul 6,8% di PIL, è il segnale dello sforzo che si è realizzato dentro la cornice del cosiddetto Patto per la salute siglato nel settembre 2006 tra governo e Regioni e implementato fino a tutto il 2008.

Qual è la logica che presiede questo metodo di governo? Il Patto per la salute è partito dai livelli di spesa esistenti e ha introdotto tre correttivi importanti: la predeterminazione per tre anni delle risorse complessive del SSN e delle percentuali del loro riparto pattuite tra le Regioni, interrompendo così la pratica delle trattative annuali e stabilendo una certezza finanziaria di medio periodo che rende possibile sviluppare attività di programmazione di pari periodo; il rafforzamento dei vincoli di bilancio regionali in termini di copertura a carico delle Regioni di spese non programmate e in termini di automatismi fiscali; la separazione del finanziamento ordinario del sistema, da ancorare al PIL, dal finanziamento specifico dei disavanzi delle Regioni in difficoltà con il fondo transitorio triennale condizionato ai piani di rientro.

Con il patto si è puntato quindi a passare da una stagione che vedeva lo Stato lesinare il finanziamento del SSN senza rendere cogenti i vincoli di bilancio regionali, con il risultato di un finanziamento che inseguiva con un anno di ritardo dinamiche di spesa incontrollate, a un quadro di finanziamento ex ante ma stabilizzato in quota di PIL per un triennio.

Questo impianto concettuale ha contaminato ancora una volta il processo di federalismo modellando il Patto di convergenza che, nel testo sul federalismo fiscale approvato dal Senato il 22 gennaio scorso, costituisce la piattaforma negoziale per monitorare gli scostamenti dagli standard di fabbisogni e costi e attivare le necessarie azioni correttive per gli enti fuori standard attraverso un «piano per il conseguimento degli obiettivi di convergenza». L’evoluzione parlamentare del testo presenta quindi elementi di novità che rendono più realista l’impianto rispetto al disegno originario presentato dal governo. Restano aperte questioni dirimenti la cui soluzione darà il segno all’attuazione della riforma, come i criteri per la definizione dei fabbisogni e dei costi standard.

Al riguardo, sarebbe bene abbandonare una pericolosa illusione, quella che sia possibile calcolare per ogni singola prestazione del SSN il costo specifico efficiente, per poi risalire per semplice sommatoria dei costi delle prestazioni comprese nei livelli essenziali di assistenza (LEA) alla determinazione del fabbisogno complessivo e del suo riparto tra le Regioni: prima di tutto, mancano i dati necessari per una simile operazione; ma soprattutto ognuno dei livelli essenziali non può che racchiudere al suo interno una gamma di prestazioni, cosicché il suo costo complessivo non è la mera sommatoria dei costi delle prestazioni ma dipende dal modo in cui quelle prestazioni vengono combinate tra loro. Se è giusta l’esigenza di avere basi informative che facciano da punto di riferimento per la definizione negoziale delle risorse da dedicare alla sanità, la strada possibile e realistica è un’altra: l’elaborazione uniforme sul territorio nazionale di dati aziendali di ricavo e costo classificati per macrofunzione (assistenza in degenza, day hospital, assistenza territoriale, specialistica ecc.) e per tipo di erogatore (ospedali, ambulatori ecc.); scelta, tra gli indicatori quantitativi e qualitativi di output e di outcome del sistema nazionale di garanzia dei LEA, degli indicatori più rappresentativi del soddisfacimento dei bisogni sanitari raggiunto con l’erogazione dei LEA a livello regionale; loro confronto con macroaggregati di spesa, ottenendo così un confronto tra macroperformance.

Come è evidente si tratta di un livello definitorio ben più aggregato del costo per unità di prodotto, che dovrebbe essere l’unità di rilevazione di base, ma rispetto alla quale il sistema è strutturalmente inadeguato a produrre informazioni. E si tenga conto che se non riesce a farlo in campo sanitario, nel quale già da quindici anni si è transitati a una contabilità economica, la possibilità per il resto delle politiche pubbliche ancora incardinate in una contabilità pubblica a marchio finanziario è ancora più lontana.

Conclusioni

Lo sguardo rivolto al passato recente ci dice che anche prescindendo dall’analisi “cifre alla mano” e prima ancora di scandagliare la struttura dei dispositivi previsti dal progetto in discussione in Parlamento, la domanda sull’esito di questo processo è legata alla capacità dei molti decisori politici che animano l’impianto multicentrico di portarne a conseguenza la sue premesse: autonomia e responsabilità. Più di quanto non si è fatto finora, sebbene si disponesse di strumenti ad hoc, visto che il potere sostitutivo è proceduralizzato dal 2003 dalla legge La Loggia e non sono mancate le premesse per una sua attivazione in termini di carente e strutturale garanzia dei diritti civili e sociali da parte di diverse amministrazioni locali. Il paradosso che si rischia è quello di aderire a una retorica molto tecnica – quella dello standard – lasciando che nel frattempo agiscano simboli molto potenti che delegittimano profondamente il sistema. Il citato caso del Comune di Catania è uno di questi, ma sul piano strutturale è ancora più grave l’approccio tentato con la legge 133/08 che, senza un confronto con le Regioni volto a definire indicatori di costo e di performance che facciano da base per un governo più penetrante delle risorse e della spesa, ha tagliato il finanziamento al SSN per 2 miliardi nel 2010 e 3 miliardi nel 2011 rispetto all’invarianza in percentuale di PIL stabilita nel Patto per la salute. Si afferma così la percezione che lo strumento pattizio non sia efficace e che rimanga (purtroppo) nella disponibilità della maggioranza pro tempore. Comportamenti che sabotano qualsiasi tentativo di federalismo preso sul serio che, se intende assumere il connotato di un sistema di solida e metodica azione negoziale basata su valutazioni affidabili e condivise, deve sapere dimostrare innanzitutto che i patti si rispettano.