Il progetto per la transizione a un regime di flexicurity

Di Pietro Ichino Mercoledì 16 Settembre 2009 14:04 Stampa

La proposta contenuta nel disegno di legge 1481/09 mira a superare l’attuale forma duale che ha as­sunto il mercato del lavoro in Italia, coniugando la flessibilità di cui le imprese hanno bisogno con una nuova forma di protezione della stabilità del lavo­ro e del reddito dei lavoratori, evitando che si al­larghi l’area del lavoro precario.

Il cammino di un progetto

Nel numero 4/2008 di “Italianieuropei” ho dato conto, a grandi linee, del progetto a cui avevo lavorato negli anni immediatamente precedenti con l’aiuto di alcuni colleghi del Dipartimento di studi del lavoro dell’Università di Milano. Da allora quel progetto è venuto affinandosi attraverso più di cento incontri pubblici in ogni parte d’Italia, promossi dalle organizzazioni più diverse: università, confederazioni sindacali (CGIL, CISL, UIL, UGL) e sindacati di categoria di livello centrale o periferico, associazioni imprenditoriali di tutti i settori, circoli e federazioni del PD, circoli del PDL (a Milano e a Mantova anche il maggior partito del centrodestra ha manifestato in questo modo un qualche interesse per questa iniziativa), associazioni religiose, centri culturali e altri ancora. Il progetto è venuto affinandosi, soprattutto, attraverso una sorta di “negoziato” informale tra parlamentari del PD provenienti dal mondo delle imprese e dalle maggiori confederazioni sindacali. Con il risultato che i termini dello scambio politico, nel quale il progetto si concreta, hanno subito un progressivo aggiustamento, giungendo a esprimersi in parametri in parte diversi rispetto a quelli iniziali.
Neppure questi ultimi parametri, comunque, ambiscono a costituire l’equilibrio ideale: l’ulteriore sviluppo del confronto tra le parti interessate potrà portare a modifiche e perfezionamenti ulteriori. Quel che conta è il metodo, per così dire, “contrattuale” dell’elaborazione del progetto di riforma. Questa non può e non deve configurarsi né come una riforma “pro labour” a spese del business, né come una rivincita del business contro il labour, bensì come la soluzione di un problema che riguarda tutti: quello del passaggio da un equilibrio arretrato del mercato del lavoro a un equilibrio più avanzato, che consenta a tutti gli interessati – nessuno escluso – di stare complessivamente meglio. Insomma, un gioco a somma positiva che non venga imposto a nessuno: al punto che la sua attivazione, almeno nella fase sperimentale, viene affidata all’accordo tra le parti interessate.

Il problema: superare il dualismo del mercato del lavoro italiano

Il nostro paese deve affrontare un’emergenza grave nel suo mercato del lavoro: la situazione di vera e propria apartheid che, tra i diciotto milioni di lavoratori sostanzialmente dipendenti, divide la metà che gode di un regime di forte stabilità (dipendenti pubblici e dipendenti di aziende private cui lo Statuto dei lavoratori del 1970 si applica nella sua interezza) dall’altra metà, che oggi porta tutto il peso della flessibilità di cui il sistema ha bisogno. Due facce della stessa medaglia, entrambe prodotto di un ordinamento il cui alto grado di protettività è inversamente proporzionale all’estensione della sua area di applicazione effettiva.
Un paese moderno, attento alla comparazione con le esperienze dei paesi stranieri più civili – dove un simile fenomeno non si manifesta o lo fa in misura enormemente inferiore –, non può rassegnarsi alla perpetuazione del modello del mercato del lavoro duale. Innanzitutto perché quel modello è iniquo: esso genera infatti da una parte posizioni di rendita, dall’altra situazioni di precarietà di lunga durata, per ragioni che hanno poco o nulla a che vedere con il merito delle persone interessate o con esigenze tecnico-produttive. Ma anche perché esso è inefficiente: per un verso, scoraggia l’investimento nella formazione dei lavoratori che ne avrebbero più bisogno, i precari; per altro verso, nella parte più protetta del tessuto produttivo, genera una cattiva allocazione delle risorse umane; per altro verso ancora, espone gli imprenditori più scrupolosi alla concorrenza differenziale di quelli più spregiudicati nell’utilizzo della manodopera al di fuori del tipo legale del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
A questi motivi – di per sé più che sufficienti per giustificare un intervento incisivo di riforma se ne aggiunge oggi uno ulteriore: la fase di recessione che stiamo attraversando. È ragionevole prevedere che, se l’ordinamento resta quello attuale, nel biennio o triennio di grande incertezza che ci attende la maggior parte delle centinaia di migliaia di persone che durante la crisi stanno perdendo il vecchio lavoro ne ritroveranno uno, se pure lo ritroveranno, nelle forme più instabili e meno protette. L’incertezza sul futuro porterà ad aumentare la quota del lavoro “di serie B o C”, in tutte le sue forme, compresa quella del lavoro nero. È proprio in un periodo di crisi economica, cioè di grave incertezza sul futuro, che le imprese sono più riluttanti a effettuare nuove assunzioni con garanzie rigide di stabilità. In questa fase, dunque, è indispensabile trovare il modo di coniugare la flessibilità di cui le imprese hanno bisogno con una nuova forma di protezione della stabilità del lavoro e del reddito dei lavoratori, se vogliamo evitare che si allarghi l’area del lavoro precario.

Una nuova tecnica legislativa

Il progetto contenuto nel disegno di legge 1481/09, presentato al Senato da trentacinque senatori del PD il 25 marzo 2009, si propone di rispondere a questa esigenza vitale. Ma si propone di farlo adottando una strategia di riforma e una tecnica normativa in parte nuove nel panorama delle politiche del lavoro sperimentate nel nostro paese.
In primo luogo, non con un improvviso – e improbabile – mutamento drastico della disciplina del mercato del lavoro e dei servizi in esso disponibili, bensì innescando un processo di superamento graduale del vecchio regime, secondo il metodo che proprio per questo tipo di riforma è stato proposto quindici anni or sono da un autorevole economista e che nel linguaggio dei politologi è indicato con il termine layering: istituire un nuovo ordinamento applicabile soltanto alle fattispecie – in questo caso i rapporti di lavoro – che vengono a esistenza da un dato momento in poi.
In secondo luogo, puntando non su di una palingenesi istantanea del sistema, ma sul metodo del try and go, dove la sperimentazione è oggetto di scelta contrattuale tra impresa e sindacato, cui la legge si limita a offrire una guida e una sponda.
Terzo, scommettendo sulla superiorità effettiva di un nuovo regime, quello ispirato ai migliori modelli della flexicurity nordeuropea, rispetto al nostro vecchio regime di protezione; ma su di una superiorità che non viene presunta a priori, bensì assoggettata alla verifica della negoziazione tra le parti e della sperimentazione concreta.
Quarto, puntando non sull’imposizione autoritativa, ma sull’accordo spontaneo tra le parti interessate, auspicabilmente destinato – se la scommessa verrà vinta – a estendersi a macchia d’olio dopo le prime esperienze positive.
Quinto, puntando non, come sempre avvenuto in passato, sull’impiego di risorse pubbliche, ma sulla capacità del sistema di relazioni industriali di attivare autonomamente, e senza oneri per la collettività, un nuovo gioco a somma positiva nel quale i lavoratori stabili già in organico non hanno alcunché da perdere, mentre i new entrants e le imprese hanno molto da guadagnare.
Infine, last but not least, puntando non su di un improbabile scatto di efficienza dei servizi pubblici di formazione e collocamento al lavoro, ma sull’attivazione da parte delle imprese stesse di nuove strutture di servizi fortemente incentivate (anzi, a ben vedere costrette dal vincolo economico) a essere efficienti.
Alla scelta del metodo del layering si obietta che, in questo modo, ai nuovi rapporti di lavoro verrà ad applicarsi un regime diverso rispetto ai vecchi e che anche questa è una forma di dualismo del tessuto produttivo. È vero; ma è anche vero che il nuovo dualismo è destinato a essere gradualmente superato, via via che i nuovi assunti sostituiranno i lavoratori in uscita. Inoltre – e soprattutto – il precedente sistema duale separa i lavoratori “di serie A”, nettamente privilegiati, da quelli “di serie B e C”, nettamente svantaggiati; con il contratto di transizione al nuovo regime, invece, queste “serie” inferiori vengono drasticamente abolite (perché le imprese rinunciano ad assumere con contratti di lavoro a progetto e, salve poche eccezioni, con contratti a termine). E non è irrealistico prevedere che, quando il nuovo regime comincerà a essere concretamente sperimentato, anche i vecchi dipendenti si renderanno conto che il sistema “alla danese” funziona meglio, offre una protezione migliore; e chiederanno ai loro sindacati di negoziare l’estensione del nuovo regime a tutta l’azienda. Dove questo accadrà, il superamento del dualismo sarà immediato.

Il contratto di lavoro a stabilità crescente

Il progetto contenuto nel disegno di legge rientra fra quelli comunemente indicati con l’espressione “contratto di lavoro a stabilità crescente”, dei quali l’ultimo è stato proposto da Marco Leonardi e Massimo Pallini ricordo anche, all’origine, quello redatto da me intorno alla metà degli anni Novanta, cui si ispirò il disegno di legge 2075/97, presentato dal senatore Franco Debenedetti. Tra questi progetti, il più noto, oggi, è quello avanzato dagli economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi. Rispetto a quest’ultimo, il progetto qui delineato si differenzia principalmente per gli aspetti seguenti: a) il progetto di Boeri e Garibaldi prevede soltanto una flessibilizzazione del rapporto di lavoro subordinato tradizionale nel suo triennio iniziale, ma lascia in vita le vecchie forme di lavoro precario; b) la flessibilizzazione prevista da Boeri e Garibaldi riguarda soltanto i primi tre anni del rapporto di lavoro, mentre in questo progetto essa si estende ai primi venti (decorsi i quali la vecchia disciplina contenuta nell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori torna ad applicarsi anche al licenziamento per motivi economici o organizzativi); c) il progetto di Boeri e Garibaldi non collega immediatamente la riforma della disciplina del licenziamento all’attivazione di nuovi ammortizzatori sociali e servizi di riqualificazione; d) la tecnica di riforma proposta da Boeri e Garibaldi ricalca ancora quella dell’intervento legislativo tradizionale, che modifica immediatamente e autoritativamente la disciplina di tutti i nuovi rapporti di lavoro, mentre il progetto qui presentato condiziona il mutamento della disciplina inderogabile a un’opzione compiuta in sede di autonomia collettiva e a un impegno operativo e finanziario delle imprese coinvolte, sul terreno degli ammortizzatori e dei servizi.

La transizione alla flexicurity

L’idea centrale del progetto è di consentire la sperimentazione in Italia di un sistema di protezione del lavoratore di tipo nordeuropeo: il massimo possibile di flessibilità per l’impresa coniugato con il massimo possibile di sicurezza per il lavoratore. Più precisamente, consentire che, nelle aziende disposte ad assumersi il costo di una assistenza integrale al lavoratore nel mercato, ivi compreso un trattamento di disoccupazione di livello danese, si applichi anche una disciplina dei licenziamenti di tipo danese.
Al disegno di legge si è obiettato, da sinistra, che esso darebbe troppa libertà alle imprese; da destra, che esso sarebbe, per esse, troppo costoso. La risposta alla prima obiezione è che la maggiore flessibilità alle imprese viene data a fronte di una loro piena responsabilizzazione per la sicurezza dei lavoratori che perdono il posto. La risposta alla seconda obiezione è che l’ingessatura dei rapporti di lavoro e comunque il difetto di flessibilità del tessuto produttivo, sovente determinate dal nostro vecchio sistema di relazioni industriali, costano molto più di quanto costi un sistema moderno ed efficiente di assistenza ai lavoratori nel mercato.

La nuova tecnica di protezione della continuità del lavoro e del reddito

Il cuore della riforma è costituito dalla nuova normativa sul licenziamento che, se non è qualificato come disciplinare dal datore di lavoro e non viene qualificato dal giudice come discriminatorio o meramente capriccioso, deve considerarsi dettato da motivo economico o organizzativo. Qui il progetto si fonda sul concetto del giustificato motivo oggettivo (GMO) di licenziamento come perdita attesa dall’imprenditore (nell’ipotesi di prosecuzione del rapporto) superiore a una determinata soglia: se questa è la nozione, la forma migliore di controllo della sussistenza del GMO è costituita dall’imposizione all’imprenditore stesso di un costo pari alla soglia di perdita attesa ritenuta adeguata dal policy maker.
Secondo l’impostazione del progetto elaborato dagli economisti Olivier Blanchard e Jean Tirole per incarico del governo francese il criterio di determinazione della soglia è quello dell’accollo all’impresa che licenzia del costo sociale medio del licenziamento. L’impresa dovrà dunque indennizzare il lavoratore di un danno in cui confluiscono due componenti: quello normalmente conseguente all’interruzione del rapporto, consistente nella dispersione di professionalità specifica e nella perdita di rapporti personali con colleghi e interlocutori esterni all’azienda, e quello eventuale correlato al periodo di disoccupazione conseguente alla perdita del posto.

Il severance cost: indennità di licenziamento e trattamento di disoccupazione

Ferma restando, dunque, l’applicabilità della vecchia disciplina del controllo giudiziale e dell’apparato sanzionatorio (articolo 18 dello Statuto dei lavoratori) per il caso di licenziamento disciplinare o di quello riconosciuto dal giudice come discriminatorio, la novità rilevante portata dal progetto consiste nell’assoggettamento del licenziamento non disciplinare al solo filtro del costo che l’impresa si assume per l’indennizzo e l’assistenza al lavoratore licenziato.
La prima componente di questo costo è costituita da un’indennità di licenziamento pari a un mese per anno di anzianità di servizio per tutti i lavoratori o collaboratori in posizione di dipendenza sostanziale dall’azienda, cioè per tutti quelli che, in qualsiasi forma (subordinata o autonoma), traggano dal rapporto più di due terzi del proprio reddito di lavoro; con la possibilità per ciascuno di essi di convertire questa indennità in un preavviso lungo, rimanendo al lavoro per lo stesso numero di mesi, fino a un massimo di dodici. Questa opzione è importante per consentire al lavoratore di evitare la brusca interruzione dei rapporti professionali in azienda e di cercare il nuovo lavoro dalla posizione di occupato invece che di disoccupato.
La seconda componente è costituita dal trattamento complementare di disoccupazione e dai servizi di assistenza dovuti al dipendente licenziato che non trovi immediatamente una nuova occupazione. L’indennità complementare di disoccupazione deve garantire, secondo il modello danese, che il trattamento complessivo goduto dal lavoratore sia pari al 90% dell’ultima retribuzione nel primo anno, per passare poi all’80, al 70 e al 60% rispettivamente nei tre successivi, se la ricollocazione non avviene prima. Il progetto prevede che trattamento economico e servizi di orientamento, riqualificazione e assistenza intensiva vengano erogati da un ente bilaterale o consortile, costituito e finanziato dal gruppo di imprese che liberamente si associano per dar vita all’esperimento. Per i primi mesi successivi al licenziamento il trattamento complementare sarà dunque pari alla differenza tra il 90% dell’ultima retribuzione e il trattamento generale ordinario di disoccupazione (60%), o il trattamento speciale (80%); il costo per l’azienda cresce notevolmente se il periodo di disoccupazione si protrae oltre i primi otto mesi nel caso del trattamento ordinario, oltre il primo anno nel caso del trattamento speciale Si attiva in questo modo un forte incentivo all’efficacia dei servizi: più rapida sarà la ricollocazione del lavoratore licenziato, minore sarà l’esborso a carico dell’ente per il trattamento di disoccupazione. Per altro verso, l’ente gestore del trattamento avrà, in forza del contratto di ricollocazione, un vero e proprio potere direttivo e di controllo sull’attività di ricerca del nuovo lavoro svolta dalla persona che gli viene affidata e sulla sua ragionevole disponibilità alla nuova
occupazione, con possibilità di risolvere il contratto in caso di inadempimento grave.

Il meccanismo di finanziamento dell’ente

Il finanziamento dell’ente bilaterale o consorzio erogatore del trattamento economico e dei servizi ai lavoratori licenziati è interamente a carico dell’azienda o gruppo di aziende firmatarie del contratto istitutivo. La determinazione dell’entità del contributo è disciplinata dallo statuto dell’ente, il quale è vincolato tuttavia a prevedere un meccanismo che ponga a carico delle imprese che licenziano il costo del trattamento di disoccupazione, premiando così quelle più capaci di praticare il manpower planning o comunque una gestione del personale che eviti i licenziamenti, e penalizzando, viceversa, le imprese le cui politiche del personale portino a un più frequente ricorso ai licenziamenti.
Su ciascuna azienda grava la garanzia per i crediti dei propri ex dipendenti nei confronti dell’ente bilaterale o consorzio, nel caso di insolvenza di questo.
Il costo medio presumibile, a regime, del nuovo sistema di protezione, è stimato intorno allo 0,5% del monte salari relativo ai rapporti assoggettati al nuovo regime. Per le aziende firmatarie del contratto di transizione che si collochino al di sotto della soglia dimensionale necessaria per l’assoggettamento alla tutela reale contro il licenziamento disposta dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, il disegno di legge pone a carico dell’erario un contributo di pari entità, con l’obiettivo di incentivare anche le piccole imprese alla sperimentazione del nuovo regime. Il costo per lo Stato di questo contributo, nell’ipotesi in cui venissero assoggettati al nuovo regime tutti i tre milioni di rapporti di lavoro alle dipendenze di imprese che si collocano sotto la soglia, ammonterebbe a circa 500 milioni di euro l’anno. Un prezzo che vale certamente la pena di pagare per il superamento della disparità di trattamento che oggi si verifica tra dipendenti delle piccole aziende e dipendenti di quelle che si collocano al di sopra della soglia.
Se si arrivasse a questo, la riforma conseguirebbe il risultato davvero importante di superare non soltanto il dualismo attuale tra protetti e precari, ma anche quello tra dipendenti delle imprese mediograndi e di imprese piccole.

Obiezioni principali e qualche risposta

Se non ora, quando? L’obiezione più frequente che viene mossa a questo progetto, non soltanto da sinistra ma anche da destra, può riassumersi così: c’è davvero bisogno, oggi, in Italia, di riformare la disciplina dei licenziamenti? Perché, poi, un’iniziativa di questo genere parte dall’opposizione di centrosinistra, quando il governo e la maggioranza di centrodestra che lo sostiene mostrano di avere rinunciato a qualsiasi velleità in questo campo e gli stessi imprenditori non paiono più nutrire alcun interesse in proposito?
Nei primi mesi di questa grande crisi economica abbiamo assistito, in Italia, alla perdita del posto di lavoro da parte di centinaia di migliaia di lavoratori a progetto, con partita IVA ma sostanzialmente dipendenti, titolari di contratti di lavoro a termine, lavoratori in regime di somministrazione: senza un giorno di preavviso, né un euro di indennizzo o di trattamento di disoccupazione (fino al giugno 2009, il brandello di trattamento di disoccupazione promesso dal governo per gli atipici nella maggior parte dei casi non è stato ancora effettivamente erogato). Altre centinaia di migliaia di lavoratori stanno perdendo l’impiego in condizioni appena più decenti: sono i dipendenti di piccole aziende appaltatrici di servizi, sovente in realtà fornitrici di manodopera, cui viene disdetto l’appalto dalla committente di dimensioni medio-grandi. Costoro sono i lavoratori che nei decenni passati hanno portato per intero il peso della flessibilità di cui il sistema aveva bisogno e che oggi portano per intero il peso della crisi: quelli ai quali il nostro sistema protettivo attuale non offre alcuna protezione, alcuna sicurezza. Non sorprende che agli imprenditori – per lo meno a quelli meno lungimiranti – un sistema come questo possa andar bene; e che esso possa andar bene anche al governo e alla maggioranza di centrodestra che lo sostiene. Ma sorprende che vi si rassegni chi attribuisce valore prioritario ai principi di pari trattamento e di pari opportunità per tutti i lavoratori. Le statistiche sul funzionamento del nostro mercato del lavoro lanciano in continuazione segnali di allarme per chiunque aspiri a vedere realizzati questi principi; e denunciano una situazione di inadempienza costituzionale e comunitaria del sistema Italia.
Capisco il fastidio di tanta parte della nostra vecchia sinistra per questo discorso; ma dovrà pur fare i conti anch’essa almeno con i dati di cui disponiamo. È vero o no che la vecchia garanzia di stabilità del posto di lavoro che tanto le sta a cuore oggi si applica soltanto a metà dei diciotto milioni e mezzo di lavoratori italiani in posizione di sostanziale dipendenza dall’azienda per cui lavorano? Se questo è vero, e se non crediamo che sia ragionevolmente prospettabile una estensione di quella vecchia garanzia ai nove milioni che ne sono esclusi, qual è – seriamente – la via da seguire per uscire dall’attuale regime di apartheid?
A un ventenne che oggi entra – o tenta di entrare – nel tessuto produttivo, il vecchio diritto del lavoro studiato e custodito gelosamente dalla vecchia sinistra interessa davvero pochissimo: per lui la probabilità di entrare nel campo della sua applicazione effettiva è molto bassa; lo considera come fonte di uno status riservato alle generazioni precedenti, non certo alla sua. L’interesse che si è acceso, a partire dalla primavera scorsa, in tutte e quattro le confederazioni sindacali maggiori riguardo ai progetti di contratto di lavoro a tempo indeterminato a stabilità crescente è principalmente motivato dalla necessità di ristabilire un dialogo con l’intera nuova generazione di lavoratori o aspiranti tali, con i quali i vecchi sindacati – al pari del vecchio diritto del lavoro – hanno perso quasi completamente i contatti.
Le cose, poi, su questo piano, stanno peggiorando. Prima dello scoppio della crisi, nel corso del 2007, la quantità di nuovi rapporti di lavoro costituiti sotto forma di rapporti a termine, di lavoro a progetto, di lavoro a partita IVA e simili avevano già superato la metà del totale. Oggi, nella situazione di incertezza gravissima circa il futuro a breve e a medio termine, la loro quota sul flusso complessivo si è ulteriormente incrementata. Ed è sempre molto alto il rischio, per chi viene assunto in questo modo, di restare impigliato nella trappola del lavoro precario: per il difetto di investimento da parte sua e dell’impresa nel capitale umano che il lavoratore incorpora, per la dispersione di professionalità che si verifica a ogni passaggio da un lavoro a un altro, per lo stigma negativo che nel mercato del lavoro finisce con l’applicarsi a chi presenta un curriculum nel quale figura soltanto una lunga serie di periodi brevi di lavoro dequalificato. Con il risultato di un probabile aumento anche del dato di stock. Proprio la situazione di incertezza sul futuro determinata dalla crisi, dunque, costituisce il momento in cui è ancor più necessario, senza allentare le protezioni riservate ai lavoratori che già godono del vecchio regime di stabilità, incominciare a delineare un nuovo diritto del lavoro capace di applicarsi davvero a tutti i nuovi rapporti di lavoro, un ordinamento che offra alle nuove leve di lavoratori e a quelli che nella crisi stessa perdono il posto una prospettiva migliore sul piano della parità di trattamento e delle pari opportunità di accesso a una sicurezza che sia davvero suscettibile di estendersi a tutti.
Non ho certo la pretesa che il progetto di cui sono l’estensore costituisca la soluzione migliore del problema, né che essa non presenti numerose possibili controindicazioni o rischi di insuccesso. Mi sembra però che chi la contesta, se non ritiene di rassegnarsi all’attuale regime di apartheid del nostro mercato del lavoro, abbia l’onere di indicare una diversa soluzione credibile per uscirne. E non mi sembra davvero che la “moratoria legislativa” proposta per lo più dagli avversari di questo progetto, per quanto coniugata con recuperi di efficienza delle strutture amministrative competenti, costituisca una soluzione credibile del problema. Concordo con chi sottolinea i danni prodotti dalla legislazione del lavoro nevrotica e alluvionale che abbiamo subito negli ultimi decenni; ma – guarda caso – quella le - gislazione nevrotica e alluvionale ha riguardato quasi soltanto il lavoro marginale e precario: non si è mai neppure proposta di correggere la parte centrale dell’ordinamento per renderla applicabile alla grande maggioranza dei lavoratori dipendenti (e, certo, non avrebbe potuto farlo intervenendo nel modo estemporaneo e ondivago che l’ha caratterizzata). Questo, invece, è il problema che ora dobbiamo affrontare.
Alla domanda “se non ora, quando?”, gli avversari del progetto sembrano rispondere “riparliamone, forse, fra un decennio”. Non sembra, questa, una buona risposta. E non solo per le ragioni di politica del lavoro qui esposte, ma anche per le ragioni che saranno delineate nel paragrafo seguente, riguardanti quella che appare una profonda incoerenza interna del nostro sistema di protezione della stabilità del lavoro, indipendente - mente da qualsiasi considerazione sulla sua incapacità di applicarsi a più di metà dei suoi naturali destinatari.

Le contraddizioni interne al nostro sistema di protezione della stabilità

Nei nostri repertori di giurisprudenza da decenni abbondano le sentenze delle corti superiori e dei giudici di merito che enunciano il principio dell’insindacabilità delle scelte economiche o organizzative dell’imprenditore: anche di quelle che abbiano come conseguenza il licenziamento del lavoratore. In piena sintonia con quel principio costituzionale, la monografia più recente e più compiuta sulla nozione di giustificato motivo oggettivo teorizza una sostanziale coincidenza di questa nozione con quella di un qualsiasi apprezzabile interesse economicoorganizzativo dell’imprenditore. Secondo questa dottrina, dunque, una perdita attesa di qualsiasi entità, conseguente alla prosecuzione del rapporto di lavoro, sarebbe di per sé idonea a giustificare il licenziamento per motivo oggettivo, essendo esclusi, in questo campo, soltanto l’abuso del diritto e gli atti discriminatori specificamente vietati dal diritto comunitario e nazionale. Se questo fosse davvero l’ordinamento oggi vigente in materia di licenziamento per ragioni economiche, tecniche o organizzative, avremmo la massima flessibilità dimensionale possibile delle aziende: escluse le discriminazioni vietate, il licenziamento per ragioni oggettive sarebbe assolutamente libero.
In realtà, però, le cose non vanno affatto in questo modo: la law in action diverge largamente dalle enunciazioni teoriche dominanti nei nostri repertori di giurisprudenza e nei nostri testi dottrinali. Il modo in cui il controllo giudiziale dei licenziamenti per motivi oggettivi avviene effettivamente nelle nostre aule di giustizia, pur talvolta ribadendo – ma soltanto come clausola di stile – il principio di insindacabilità delle scelte imprenditoriali, risponde di fatto a una logica totalmente divergente da questo principio. Le regole giurisprudenziali che effettivamente reggono la materia, quelle che ogni operatore sa di dover seguire se vuole porsi in sintonia con la decisione più probabile dell’eventuale controversia, sono tre.
Innanzitutto è consentito sopprimere un posto di lavoro ma è vietato sostituire un lavoratore con un altro, salvo che la sostituzione abbia una adeguata giustificazione oggettiva, dove l’adeguatezza, ovviamente, è soggetta a penetrante controllo giudiziale (questa regola, che non ha alcuno specifico fondamento legislativo positivo, si pone in evidente contrasto con quella della insindacabilità delle scelte organizzative imprenditoriali, affidando al giudice il compito di stabilire quando è consentito sostituire un lavoratore e quando no; è comunque del tutto illogico che, in base a questa regola giurisprudenziale, sia sempre consentito sostituire un lavoratore con una macchina, essendo invece di norma vietato sostituirlo con un altro lavoratore).
In secondo luogo, è consentito sopprimere un posto di lavoro, ma è vietato licenziare il lavoratore se è possibile spostarlo utilmente in una diversa posizione in seno all’azienda (è la cosiddetta regola del repêchage, che con tutta evidenza implica un controllo penetrante del giudice sulle valutazioni economico- organizzative dell’imprenditore: si affida così, in definitiva, al giudice il compito di stabilire se per l’impresa è utile o no spostare il lavoratore nella nuova posizione, ovvero – in termini economici più rigorosi – se la produttività marginale del lavoratore nella nuova posizione eguaglia il costo per l’impresa della prosecuzione del singolo rapporto).
Infine, è consentito licenziare per esigenze economico-organizzative quando questo è necessario per ridurre delle perdite aziendali, ma non quando lo scopo è di aumentare gli utili (il che significa, in sostanza, che nel nostro paese è consentito procedere all’aggiustamento industriale soltanto quando la crisi aziendale è scoppiata, quando l’impresa si trova già in una situazione prefallimentare; sennonché l’imprenditore ha interesse a compiere l’aggiustamento molto prima di quel momento: esso deve prevenire e possibilmente evitare la crisi, non seguirla).
Sentiamo sovente richiamare la costruzione dottrinale secondo la quale l’imprenditore è libero di compiere qualsiasi scelta organizzativa, dovendo i giudici limitarsi a controllare che quella scelta corrisponda al suo comportamento reale. Se questa davvero fosse la regola, dovrebbe poter accadere che l’imprenditore dica: «Ho deciso di licenziare il dipendente A perché non ha la patente di guida, o perché non conosce l’inglese, o perché non è disponibile a un determinato nuovo orario di lavoro, per poter assumere B, il quale invece soddisfa questa mia esigenza»; e in tal caso il giudice dovrebbe limitarsi a controllare che effettivamente di questo si sia trattato. Nella quasi totalità dei casi di questo genere, invece, il giudice non si limita affatto a questa verifica, ma si spinge a sindacare se davvero la possibilità che il lavoratore guidi l’auto, o parli inglese, o sia disponibile per la variazione di orario sia così importante nell’economia dell’attività aziendale. Ciò che si attiva, in questo modo, è né più né meno che un penetrante sindacato giudiziale sulle scelte economico-organizzative dell’imprenditore.
Per concludere, il nostro diritto vivente, in materia di licenziamento per motivi obiettivi, soffre di una divaricazione profonda e molto evidente tra il principio costituzionale generale cui dovrebbe ispirarsi (quello dell’insindacabilità delle scelte imprenditoriali) e il modo in cui il controllo giudiziale effettivamente si svolge. E l’apparato sanzionatorio disposto dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori – con la possibilità che anche un solo esito negativo in una delle molte fasi del giudizio causi all’impresa una perdita molto ingente, non recuperabile neppure nel caso di esito positivo finale enfatizza enormemente l’effetto di questa divaricazione, aumentando conseguentemente il grado di rigidità effettiva del nostro sistema di protezione della stabilità del posto di lavoro e generando un assetto della materia di fatto molto vicino a un regime di job property.
Il progetto di riforma della materia di cui qui si discute mira a superare questa divaricazione tra principio generale di insindacabilità delle scelte imprenditoriali e regime effettivo di protezione della continuità del lavoro e del reddito per il lavoratore. L’idea centrale è questa: se l’impresa è disposta ad accollarsi il costo sociale del licenziamento, questo significa che dalla prosecuzione del rapporto essa si attende una perdita maggiore di quel costo. Lasciamo dunque che il giudice controlli con il massimo rigore l’assenza di motivi discriminatori o di mero capriccio; ma, esclusi questi, lasciamo che sia quel costo a costituire il filtro delle scelte dell’imprenditore. Otterremo in questo modo una protezione per il lavoratore ovviamente migliore rispetto all’applicazione pura e semplice del principio di insindacabilità delle scelte imprenditoriali, ma eviteremo anche gli eccessi del regime attuale, che di fatto, in ultima analisi, considera il bilancio aziendale in rosso come il solo vero giustificato motivo oggettivo di licenziamento, impedendo l’aggiustamento industriale tempestivo e pregiudicando l’allocazione migliore delle risorse umane nel tessuto produttivo.

Le altre due critiche più rilevanti: il progetto segmenta ulteriormente gli standard applicati nel tessuto produttivo e costa troppo

Aparte il tabù dell’articolo 18 – ormai logoro e prossimo al crollo, se già non può considerarsi crollato – le due critiche più rilevanti al disegno di legge 1481/09 ricorrenti nel dibattito sui media sono queste: il progetto, al di là delle intenzioni, non realizza affatto una riunificazione del mercato del lavoro, un modello universale di protezione, ma al contrario determina, nell’immediato, una ulteriore segmentazione degli standard applicabili; esso, comunque, costa troppo alle imprese perché esse possano aderirvi spontaneamente. Alla prima obiezione rispondo che una riforma di questa portata in Italia non è pensabile se non in una prospettiva di medio-lungo termine. Il nostr
o sistema già oggi tende, in realtà, verso il modello nordeuropeo della flexicurity; ma esso deve superare almeno quattro grandi ostacoli per arrivare a realizzare quel modello: un grave difetto di qualità dei servizi pubblici nel mercato del lavoro, l’incapacità del sistema di condizionare il sostegno del reddito del lavoratore disoccupato al suo impegno effettivo nel percorso verso la nuova occupazione, la carenza delle risorse pubbliche necessarie per il rafforzamento del supporto economico ai disoccupati e – last but not least – il ben noto difetto, nel nostro paese, delle civic attitudes che caratterizzano invece la cultura dei paesi nordeuropei.
È dunque necessaria una strategia di avvicinamento graduale a quel modello, lungo un percorso che consenta di superare ciascuno dei grandi ostacoli elencati. Il primo passaggio di questo processo di avvicinamento può, e a parere di chi scrive deve, essere costituito dalla sperimentazione del nuovo sistema (nuova disciplina del recesso del datore dal rapporto di lavoro coniugata con l’immediata attivazione di servizi efficienti e sostegno robusto del reddito per il lavoratore che perde il posto) nelle condizioni migliori per il suo successo: sperimentazione, dunque, in imprese i cui titolari siano per primi convinti della bontà del progetto e spontaneamente disponibili a sostenerne i costi, in accordo con un sindacato che condivida la filosofia del progetto stesso e sappia farsi interprete degli interessi della nuova generazione di lavoratori che ne sarà coinvolta. Solo attraverso questa sperimentazione è pensabile lo sviluppo in Italia della “cultura materiale” della flexicurity; e soltanto questa sperimentazione potrà consentirci di mettere a punto un modello di flexicurity concretamente praticabile a sud delle Alpi, affinandone le tecniche di gestione, individuando il benchmark di efficienza relativo a ciascun servizio.
Quanto ai costi, è logico pensare che quello relativo ai servizi di riqualificazione professionale e di ricerca intensiva della nuova occupazione possa essere in larga parte, se non interamente, coperto con il contributo delle Regioni, possibilmente con il concorso del Fondo sociale europeo. Sembra invece opportuna – oltre che obbligata, nella contingenza italiana attuale – la scelta di accollare interamente alle imprese interessate il costo del rafforzamento del sostegno del reddito dei lavoratori licenziati. Questo, infatti, determinerà un forte incentivo economico all’attivazione, da parte dell’ente bilaterale o consortile costituito dalle stesse imprese, di servizi di riqualificazione e ricollocazione efficienti, capaci di contenere – come al Centro e al Nord è sicuramente possibile fare – i tempi medi di disoccupazione entro un limite fra i tre e i sei mesi; e i tempi massimi entro un limite tra gli otto e i dodici mesi. Se così sarà, il costo del sostegno del reddito del lavoratore licenziato si ridurrà alla somma dell’indennità di licenziamento e di quanto necessario per portare l’indennità di disoccupazione dal 60% (o, dove opera il trattamento speciale, dall’80) al 90% dell’ultima retribuzione per alcuni mesi: un costo ampiamente sopportabile per qualsiasi impresa sana.
Il progetto si fonda, in ultima analisi, proprio su questa scommessa: che sia possibile anche in Italia ridurre i tempi medi di una buona ricollocazione del lavoratore che perde il posto entro limiti simili a quelli che si osservano nei paesi del Nord Europa. Il know how necessario esiste già anche in Italia: basta chiederlo, retribuendolo a dovere, alle imprese specializzate in questo campo. Oltre che, ovviamente, alle agenzie pubbliche operanti nel settore, là dove esse funzionano bene.
In un intervento del maggio 2009 il vice presidente di Confindustria si chiede che cosa potrebbe indurre un’impresa a farsi carico spontaneamente di questo onere aggiuntivo (e siamo così all’ultima obiezione). La risposta è facile: questo onere è largamente inferiore al costo (quasi mai contabilizzato come tale, ma non per questo meno rilevante) che nel regime attuale l’impresa sopporta a causa dell’impossibilità dell’aggiustamento industriale tempestivo, dovendo tenere a proprio carico personale eccedentario che non si prevede possa tornare in futuro a essere adeguatamente utilizzato, oppure dipendenti il cui deficit di produttività marginale rispetto ad altri disponibili nel mercato è superiore al costo di una loro utile ricollocazione in altra azienda.
D’altra parte, la migliore allocazione delle risorse umane conseguente all’aumento della fluidità del sistema andrebbe anche a vantaggio dei lavoratori, in termini di migliore valorizzazione del loro lavoro e quindi di più alti livelli retributivi. L’incontro fra domanda e offerta in un mercato del lavoro postindustriale è sempre meno semplice e immediato: il lavoratore che si ferma “alla prima tappa”, nella prima azienda dove riesce a “trovare il posto” a tempo indeterminato – come tipicamente accade in un sistema come il nostro caratterizzato da alta vischiosità –, corre dunque un rischio elevato di stabilizzarsi in un ambiente dove il suo lavoro è meno valorizzato di quanto potrebbe essere altrove. Anche questa è presumibilmente tra le cause del
differenziale di reddito che penalizza i lavoratori italiani rispetto ai loro colleghi degli altri maggiori paesi europei.