Lo Stato Islamico: fattore rivoluzionario o di riequilibrio regionale?

Written by Fabio Atzeni, Sally Stoppa, Francesco Petrucciano Thursday, 11 December 2014 17:54 Print
Lo Stato Islamico: fattore rivoluzionario o di riequilibrio regionale? Foto: Jordi Bernabeu Farrús

La guerra allo Stato Islamico si inserisce in un contesto regionale estremamente complesso, in cui l’intrecciarsi di conflittualità – sciiti e sunniti, turchi e curdi, regime di Assad e ribelli siriani – e di reciproche diffidenze rende difficile l’individuazione e definizione di fronti chiari.


Nell’ambito del tredicesimo anniversario dell’11 settembre, il presidente Obama, pur confermando che non vi sarà l’impiego di alcun grande contingente di forze di terra, ha dichiarato l’apertura di un nuovo fronte nella guerra al terrore, come risposta agli attacchi che lo Stato Islamico (IS) sta conducendo in tutto il Medio Oriente. Secondo il piano antiterrorismo del presidente statunitense, esposto nel discorso di Westpoint del 29 maggio scorso, si ricorrerà estensivamente a nuovi strumenti di combattimento “a distanza”, come i droni, unitamente all’impiego di unità di forze speciali.[1]

Tale piano sembrerebbe ridimensionare le ambizioni americane nella regione, preferendo apparentemente un approccio del tipo leading from behind, come in Libia nel 2011, in vista forse del tanto agognato riequilibrio della propria forza militare verso Oriente.[2] Addirittura c’è chi ipotizza l’inizio di una fase di “declinismo”[3] nella politica estera americana e nella diplomazia di Obama.

In realtà, il desiderio di Washington di distaccarsi dal suo tipico “eccezionalismo” non può definirsi nemmeno in questo caso come sintomo di declino del suo prestigio politico, dal momento che, ancora una volta, anche in questa grande e grave crisi, gli Stati Uniti sono l’unica “potenza di default”[4] in grado di offrire delle soluzioni reali e accettabili per arginare i gravi effetti destabilizzanti dell’IS.

A tal fine la strategia di Washington contro l’IS, messa a punto di recente, in seguito agli incontri tra il segretario di Stato Kerry e il nuovo premier iracheno Al-Abadi, avvenuti a Baghdad lo scorso settembre, è stata esposta da Obama nel suo discorso del 10 settembre. Washington guiderà una coalizione internazionale, con l’obiettivo di ridurre lo spazio geografico, politico, umano e finanziario dell’IS. Essa prevede una forza militare limitata di circa 800 uomini delle forze speciali che supportino e istruiscano gli alleati sul terreno[5] (ovvero le forze irachene, i ribelli siriani, i peshmerga kurdi). Vi sarà la condivisione degli elementi d’intelligence e si cercherà di facilitare l’istituzione di una sorta di guardia nazionale sunnita irachena, sull’esempio di Al Sahwa e dei Sons of Iraq del 2005.

Nel frattempo, continuerà l’afflusso di aiuti umanitari, anche con gli aviolanci su zone assediate, come avvenuto di recente presso la città kurda di Amerli. Mentre, per quanto riguarda l’organizzazione, saranno stabiliti un Joint Operations Center (JOC) presso Baghdad e uno presso Erbil – nel Kurdistan iracheno – per il coordinamento di questi elementi con le unità dell’Air Force americana. Infine, saranno confermate anche la vendita e la consegna di armi pesanti da parte di Washington alle Iraqi Security Forces (ISF)[6] e di armi automatiche leggere e pesanti, ma non di artiglierie, alle forze curde, da parte degli alleati europei, tra cui Francia, Gran Bretagna, Italia e Germania. Per quanto concerne il fronte siriano invece, gli Stati Uniti avrebbero stanziato per il 2015 circa 1,5 miliardi di dollari di aiuti per i ribelli moderati anti-Assad e anti-IS.

Vista la complessità di una tale strategia, occorre fare alcune considerazioni sulla reale situazione sul campo e sui risultati che s’intendono e che si potranno effettivamente ottenere. Come emerso recentemente, anche dalle osservazioni del generale Dempsey, capo di Stato maggiore della Difesa statunitense, difficilmente si potrà sconfiggere l’IS senza l’invio di forze di terra. Solo metà delle Iraqi Security Forces sarebbe in grado in questo momento di condurre operazioni in modo autonomo.

A una più attenta valutazione, nonostante la carneficina e le recenti conquiste territoriali, la capacità rivoluzionaria dell’IS può essere ridimensionata. Inoltre non si può certo affermare che l’istituzione di un califfato islamico nei territori conquistati consentirebbe a queste forze di creare uno Stato funzionante e capace di reggersi da solo e resistere agli attacchi nemici. Al contrario sarebbe uno Stato monco, circondato da paesi ostili e dipendente totalmente dalle risorse petrolifere e commerciali delle aree sciite e kurde contese.

Nelle ultime settimane, infatti, è emersa una nuova distinzione all’interno del fronte nemico dell’IS. Benché sotto sorveglianza dal gennaio di quest’anno, sembrerebbe che nelle stesse aree siano operativi un centinaio di membri del gruppo terroristico Khorasan, proveniente dall’Afghanistan e dal Pakistan. A differenza dell’IS, dotato di un’“agenda internazionale” con obiettivi in Occidente, Khorasan sarebbe una sorta di al Qaeda 1.0 che costituirebbe in Siria il braccio esterno del Jabhat al-Nusra. Secondo fonti dell’Amministrazione statunitense, i bombardamenti in Siria dello scorso 22 settembre avrebbero avuto come obiettivo quello di eliminare le loro basi e non quelle dell’IS.

Alla luce di queste nuove considerazioni e ponendo in prospettiva i grossi cambiamenti regionali che potrebbero derivare per alcuni degli attori principali, quali la Turchia e gli autonomismi curdi, gli Stati Uniti si ritrovano intrappolati in una ragnatela di alleanze incerte.


La scacchiera curdo-turca e la sfida di Kobane

L’atteggiamento sinora tenuto dalla Turchia nel contesto della lotta allo Stato Islamico ha suscitato diverse perplessità in sede transatlantica e da parte di diverse cancellerie. È impossibile decifrare l’ambivalente comportamento che la Turchia ha nei confronti dello Stato Islamico e l’apparente schizofrenica dualità con la quale si rivolge ai curdi dei diversi paesi se non si comprende quanto complessa la questione curda sia per Ankara.

La cooperazione commerciale con il governo curdo iracheno con sede a Erbil ha un peso strategico e commerciale notevole per Ankara, che necessita di un rapporto di buon vicinato stabile in quell’area e dei rifornimenti petroliferi. Non bisogna tuttavia credere che l’atteggiamento del governo turco sia orientato a una reale vicinanza alle istanze curde. L’appoggio a Erbil viene in essere fondamentalmente per ragioni di convenienza e necessità energetiche, e Ankara è ben consapevole del pericolo che può derivare alla propria integrità territoriale da un eccessivo rinforzarsi delle posizioni curde, che la Turchia ha tutto l’interesse a tenere disunite secondo il tradizionale schema del divide et impera.

Il processo di pace in fieri con Abdullah Öcalan, riconosciuto leader dal PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) e dal siriano PYD (Partito per l’unità e la democrazia),[7] sembra essersi arenato, anche a seguito della ripresa di limitate attività militari nonostante il “cessate il fuoco” stabilito nel 2013 dal PKK nelle province meridionali della Turchia, e della conseguente azione repressiva messa in atto dalle Forze armate turche nell’area di Diyarbakır. [8]

La posizione ambivalente della Turchia nei confronti dello Stato Islamico è dettata da più fattori. L’approccio in Siria, dove il governo turco ha interesse a non opporsi apertamente all’IS, che sta compiendo una significativa azione di indebolimento del regime di Assad (e delle posizioni curde), è di evitare per quanto possibile ogni intervento, limitandosi a schierare l’esercito sulla linea di confine in funzione puramente difensiva.

La caduta del regime filoiraniano a Damasco e l’instaurazione di uno sunnita sono tra le priorità del governo di Ankara. Il non interventismo nella questione di Kobane riflette questa politica. Ankara ha permesso il passaggio di un limitato numero di miliziani curdo iracheni attraverso il proprio territorio, affinché si aggregassero alle posizioni curdo siriane, esclusivamente a seguito di forti pressioni internazionali e solo a condizione che i miliziani coinvolti appartenessero ai peshmerga e che fossero in numero esiguo.

I guerriglieri peshmerga all’uopo mobilitati non appartengono ad alcun gruppo affine, per appartenenza tribale o partitica, ai combattenti di Kobane: il governo regionale che li invia, per quanto ideologicamente vicino ai curdi siriani, non ne condivide l’impostazione operativa e il presidente Masud Barzani ha ben chiara l’importanza che il vicino turco ha per la stabilità della regione. Bisogna inoltre ricordare che la policy di Ankara nella questione è di considerare il PYD come un’emanazione del PKK, dunque di catalogare entrambi come organizzazioni terroristiche e di metterle sullo stesso piano del regime di Assad quali minacce alla sicurezza nazionale turca.

In Iraq la situazione è ancor più complessa. Ankara non può infatti disconoscere il KRG (Kurdistan regionale iracheno), con il quale ha proficui rapporti economici e verso il quale realizza quasi il 10% delle proprie esportazioni.[9] La Turchia ha appoggiato direttamente una maggiore autonomia curda da Baghdad acquistando il greggio curdo iracheno direttamente da Erbil, scavalcando dunque l’autorità centrale.[10] Allo stesso tempo non può essere tanto ingenua da credere che il KRG non auspichi un’indipendenza totale da Baghdad e che non persegua, nel lungo periodo, un obiettivo pancurdo che andrebbe, naturalmente, a discapito della Turchia. A dieci anni dal riconoscimento dell’autorità del KRG sui governatorati di Duhok, Erbil e Sulemanyia, il Kurdistan iracheno si è infatti affermato come un protagonista regionale sia in termini di sviluppo economico sia in materia di posizionamento politico rispetto a Baghdad.

Resta isolato invece il Kurdistan siriano, un cavalier seul nella regione. Con l’aggravarsi della crisi siriana, si è assistito, infatti, all’esacerbarsi di una disputa tra il KRG e il ramo siriano del PKK, il PYD,[11] che è sfociata poi in totale rottura. Il fallimento degli accordi di Erbil del 2012 e l’autonomia unilaterale proclamata dal PYD qualche mese prima di Ginevra II hanno avuto come conseguenze il quasi embargo turco sul confine siriano e la chiusura del ponte di Simalka.[12]

La dimensione identitaria della disputa ha assunto una valenza politica molto più ampia negli equilibri regionali in seguito all’avanzata dell’IS e all’intervento della Coalizione dei volenterosi. Il sostegno militare degli Stati Uniti agli alleati sul terreno (Iraqi Security Forces, peshmerga e ribelli siriani) deve fare i conti con una situazione cronica di sospetto e di stallo politico “transfrontaliero”. La mediatizzazione della battaglia di Kobane non è riuscita a rompere realmente l’isolamento dei curdi siriani. Un supporto ufficiale della Turchia e del KRG al PYD in funzione anti Stato Islamico significherebbe attribuire un riconoscimento politico a un Kurdistan siriano, il cui rafforzamento è stato finora supportato e voluto nella regione solamente da Assad.

Inoltre, lo spettro di un PKK più forte spaventa non solo Ankara ma anche Teheran. Il peso politico del KRG e il riposizionamento del PYD nella crisi siriana hanno nutrito in questi anni le speranze dei curdi iraniani. Gli scambi clandestini e la fuga di dissidenti iraniani curdi – appartenenti al PDKI (Partito democratico del Kurdistan iraniano) e al PJAK (Partito per la libertà del Kurdistan) – sfuggono al controllo del regime degli ayatollah. Si sono infatti intensificati gli attacchi dei pasdaran a organizzazioni paramilitari curde, soprattutto contro Pezhak, un gruppo separatista particolarmente attivo nella provincia di Urumieh.

Se è pertanto innegabile il rafforzamento di spazio transfrontaliero curdo nella regione, le divisioni settarie restano, di fatto, dominanti. Il KRG si è finora arrocato nella difesa del proprio Lebensraum, i curdi siriani annaspano per rompere il proprio isolamento. La lotta contro l’IS sarà in grado di aprire la strada a un’identità pancurda? Nonostante i proclami ufficiali, i segnali sono contrastanti e il presidente del KRG si trova di fronte a uno spinoso dilemma: “padre dei kurdi” o “alleato della Turchia”?

Il 16 ottobre scorso, in seguito all’incontro di Dohuk tra Masoud Barzani e Salih Muslim (leader del PYD), il Parlamento regionale del Kurdistan iracheno ha approvato un protocollo di cooperazione bilaterale per l’invio di un aiuto umanitario e militare nel Kurdistan siriano (chiamato anche Rojava). Si è trattato di un primo passo di coordinamento intercurdo, ma l’ascia di guerra sembra sotterrata solo pro tempore e le diatribe politiche restano irrisolte. E mentre Ankara ed Erbil avvallavano il passaggio dei peshmerga verso Kobane, in Turchia si sono riaccesi gli scontri tra le frange più laiche del PKK e i curdi islamisti sunniti.


Gli USA e la nuova coalizione di volenterosi o di sospettosi?

Allo stato dei fatti è possibile affermare che la situazione, per quanto grave, potrebbe portare, paradossalmente, dei vantaggi inaspettati agli alleati tradizionali degli Stati Uniti nell’area, in particolare Arabia Saudita, monarchie sunnite, Israele e Turchia, per ottenere un ridimensionamento di quella che è la vera minaccia per questi attori: la cintura sciita.

Il ritiro americano dall’Iraq nel 2011 ha, infatti, consentito a Teheran di estendere la propria influenza su tutto l’Iraq, la Siria, il Libano, attraverso Hezbollah, e Gaza, con il sostegno ad Hamas[13]. L’ipotesi secondo la quale l’origine dei primi nuclei dell’IS sia da ricondurre più al tentativo occidentale (2009-10) di rafforzare il fronte ribelle anti-Assad che alla sua spontanea evoluzione dagli embrioni di al Qaeda in Iraq (e che solo successivamente, il mostro sia sfuggito al controllo del proprio creatore),[14] è avvalorata dall’ultimo proclama ufficale di Obama: demolire Assad diventa l’elemento strategico indispensabile per un controllo reale del territorio e per sradicare completamente le forze del califfato nero dalle carte geografiche.

I giochi di alleanze restano comunque incerti. A differenza del 1991 e del 2003, quando Washington riuscì facilmente a radunare una coalizione di volenterosi, si potrebbe parlare oggi più appropriatamente di una “coalizione di alleati reciprocamente sospettosi”. L’Arabia Saudita ha garantito il proprio supporto operativo e finanziario e la creazione di un campo di addestramento per i ribelli moderati siriani in cambio di una vantaggiosa contropartita. L’obiettivo è ridurre al minimo la politica degli Stati Uniti della mano tesa all’Iran, per quel che concerne il nucleare e le questioni regionali, in modo da giungere alla scadenza del Joint Plan of Action (JPA) tra Washington e Teheran senza che siano stati ratificati accordi potenzialmente dannosi ai sauditi.[15] La Turchia mantiene un atteggiamento ambiguo, anela la caduta di Assad e l’estensione della propria longa manus nella regione.[16] Gli Stati europei hanno solo parzialmente aderito alla coalizione, garantendo aiuti umanitari e senza fornire un contributo militare determinante.

Quale destino attende la coalizione dei sospettosi? Lo scenario resta aperto e soprattutto non è possibile prevedere quale sarà l’impatto nel lungo periodo di questo nuovo conflitto in Medio Oriente. Vi sarà una ridefinizione dei suoi confini o si preferirà contenere il fenomeno accontentandosi di uno status quo accettabile ai più e che non fomenti pericolosi autonomismi nazionali come quello kurdo?

 



[1] Tali strumenti sono già utilizzati in Afghanistan, Pakistan, Somalia, Iraq, Siria e in Nigeria e Niger, ove è stata predisposta una nuova base dell’Air Force per le operazioni in Africa Centrale.

[2] La cosiddetta dottrina del 60-40: 60% della forza militare nel Pacifico e 40% nell’Atlantico.

[3] J. Joffe, Perché l’America non fallirà. Politica, economia e mezzo secolo di false profezie, Utet, Milano 2014.

[4] Ibidem.

[5] Recentemente Obama ha dichiarato di voler aumentare il contingente di forze speciali di altri 1500 uomini sempre senza compiti di combattimento, rendendo tuttavia sempre meno credibile la strategia del no boots on the ground.

[6] Sarebbe prevista la vendita di circa 5000 missili per elicotteri Hellfire, e la consegna dei cacciabombardieri F-16 e degli elicotteri Apache acquistati da Baghdad nel biennio 2011-12.

[7] Il PYD (Partiya Yekîtiya Demokrat) è un’organizzazione armata siriana affiliata al PKK, del quale riconosce la leadership.

[8] La Turchia deve evitare di esacerbare gli animi dei curdi turchi che rappresentano una minoranza rilevante della popolazione e chiedono un maggiore attivismo da parte del governo nell’affrontare lo Stato Islamico che minaccia i loro fratelli in Iraq e Siria. Da qui la necessità della Turchia di sostenere il partito Huda (curdo ma religioso e conservatore, e dunque ostile al PKK, di ispirazione marxista e profondamente laico) per azioni di sabotaggio utili a tenere disunito il fronte interno dei curdi e alla creazione di un avversario interno.

[9] 15 miliardi di dollari nel 2012 su 152 miliardi di esportazioni totali.

[10] A partire dal 2009 l’avvicinamento progressivo tra Ankara ed Erbil ha favorito il consolidarsi di un florido interscambio di relazioni commerciali. Lo sfruttamento autonomo delle risorse naturali – in seguito all’approvazione del Production Sharing Act – e la diatriba sui territori contesi da un lato rimangono un tasto dolente nelle relazioni tra Erbil e Bagdhad ma dall’altro hanno suggellato l’avvicinamento del KRG alla Turchia.

[11] Il Kurdistan siriano è, dall'estate del 2012, il teatro della rivalità tra il PKK e il PDK (Partito democratico curdo). Il PKK sostiene il PYD, mentre il PDK cerca di imporre i partiti curdi raggruppati sotto l’ombrello del CNCS (Consiglio nazionale curdo siriano).

[12] Costruito alla fine del 2012 per consentire il passaggio tra Kurdistan iracheno e Siria, è l’unica via per attraversare il Tigri tra i due paesi. Dalla chiusura di Simalka nel 2013, attraversamenti illegali si svolgono a sud del Tigri (nel distretto di Zummar), attraverso le zone contese tra Erbil e Baghdad.

[13] H. Kissinger, World Order, Penguin Press, New York 2014.

[14] P. S. Jha, Who is Really Behind the Islamic State, in “Tehelka”, 3 settembre 2014.

[15] Effettivamente l’incontro tra Washington e Teheran sul nucleare non ha di fatto portato a nessuna evoluzione, posticipando invece la trattazione di questi problemi e di quelli legati alla delicata situazione in Medio Oriente ai meeting previsti nei prossimi mesi.

[16] È indubbio che la posizione turca sull’IS sia, come detto, ambivalente e che sia stato portato all’attenzione del Parlamento turco il caso dei militanti IS che sarebbero stati curati in ospedali pubblici della Repubblica. Inoltre, l’IS si sta confermando un efficace contrasto ai governi filoiraniani di Damasco e Baghdad, e questo non può essere che di aiuto alla Turchia, soprattutto sul versante siriano.

 

 


Foto: Jordi Bernabeu Farrús