Una politica industriale che guardi avanti

Written by Claudio De Vincenti Friday, 17 January 2014 17:45 Print

La politica industriale, strumento che comprende non solo gli interventi riguardanti in senso stretto la politica per l’industria ma, più in generale, ogni misura a sostegno delle attività produttive, dopo un trentennio di colpevole sottovalutazione, torna oggi a essere il perno su cui incentrare l’azione di rilancio del sistema produttivo italiano. Non si tratta, però, di replicare l’impostazione del passato, ma di costruire un intervento pubblico nell’economia che sappia interagire costruttivamente con i mercati, predisporre i fattori di produzione comuni – infrastrutture e capitale umano – ed effettuare le scelte allocative più opportune in funzione dello sviluppo dell’economia e della società italiana.

La pesante crisi che sta vivendo l’economia italiana vede intersecarsi gli effetti della grave recessione da carenza di domanda aggregata che travaglia l’economia europea ormai da cinque anni con debolezze strutturali specifiche del nostro tessuto produttivo: queste ultime sono responsabili del fatto che la crisi internazionale ha avuto sull’economia e sulla società italiana un impatto negativo comparativamente più accentuato rispetto ad altri paesi europei. Contesto macroeconomico e fattori strutturali si condizionano a vicenda nel determinare il quadro di difficoltà entro cui si trova il nostro paese: la stagnazione del PIL e della produttività dei fattori registratasi in Italia dall’inizio dello scorso decennio – sintomo appunto di nodi strutturali irrisolti – ha determinato la condizione di particolare debolezza con cui l’Italia si è presentata all’appuntamento della crisi apertasi nel settembre 2008; a sua volta, il prolungarsi della recessione ha determinato una riduzione della capacità produttiva nel settore industriale del 15% rispetto al livello pre-crisi (fonte Confindustria), riduzione che accentua i vizi strutturali e vincola oggi le stesse possibilità di ripresa.

Lasciando ad altri interventi in questo stesso fascicolo di “Italianieuropei” il compito di discutere delle politiche macroeconomiche che a livello europeo e a livello italiano sono necessarie per trainare finalmente una fase di ripresa più accelerata, mi concentrerò qui sulle politiche necessarie a creare le condizioni strutturali di una crescita di medio-lungo periodo stabile e sostenuta: è questo il terreno su cui si colloca la politica industriale, strumento sottovalutato negli ultimi trent’anni ma oggi di nuovo essenziale per sciogliere i nodi strutturali che frenano l’economia italiana ed europea. Comincio con una precisazione: impostare una politica industriale non significa solo impostare una politica per l’industria ma, più in generale, una politica per le attività produttive, con risvolti e interazioni anche con politiche a prima vista distanti dalla questione industriale. Mi spiego: giustamente, da qualche tempo, l’attenzione degli economisti e dei policy maker è tornata a vedere nel settore industriale, e in particolare nella manifattura, un motore fondamentale per l’intero sistema economico, in quanto centro propulsore di innovazione e di aumento della produttività, con ricadute anche sugli altri settori. Da questo punto di vista, pur tenendo conto del trend di lungo periodo in atto nei paesi avanzati verso la crescita della quota dei servizi sul PIL e sull’occupazione, il ruolo dell’industria resta un ruolo chiave per la performance complessiva di un sistema economico. Al tempo stesso, recenti lavori hanno messo in evidenza come le esternalità positive prodotte dai settori dei servizi – e non solo dai servizi più direttamente coinvolti nella riorganizzazione tecnica ed economica dei processi industriali, ma anche dai servizi di welfare, a cominciare da scuola, formazione e sanità – sono un fattore decisivo di crescita della produttività di sistema e di quella dello stesso settore industriale. Per ragionare quindi di crescita di medio-lungo periodo occorre guardare ai fattori che rafforzano la capacità di innovazione di quello che chiamerei il complesso produttivo industria-servizi-welfare.

E qui chiediamoci: cosa hanno fatto negli ultimi anni l’Unione europea e l’Italia per costruire le condizioni che rafforzano la capacità propulsiva di questo complesso produttivo? Cominciando dall’Europa, il quadro è fatto di luci e di ombre. Tra le luci metto: a) gli avanzamenti nel processo di integrazione dei mercati dei prodotti, più accentuati per i beni e più lenti e contraddittori per i servizi; b) i processi di liberalizzazione e di riforma della regolazione (anche qui diversificati per settori), che hanno portato alla costruzione di regole di concorrenza che riducono i poteri di monopolio e quindi sollecitano innovazione; c) la realizzazione della moneta unica, che ha creato un’area monetaria paragonabile agli Stati Uniti d’America, per la quale quindi il vincolo esterno (bilancia dei pagamenti) risulta meno stringente. In sintesi, sto parlando dell’insieme delle politiche volte a costruire il mercato unico europeo. Tra le ombre: a) prima di tutto, la mancanza di una politica macroeconomica europea, o almeno di un coordinamento delle politiche di bilancio dei paesi membri, che consentisse appunto di sfruttare in chiave espansiva l’ampiezza del mercato interno e la minor pressione del vincolo esterno; b) l’incoerenza tra le politiche messe in campo nei diversi ambiti di competenza, ad esempio l’adozione di una roadmap della de-carbonizzazione basata su strumenti inefficienti, ossia estremamente costosi a parità di obiettivi di riduzione delle emissioni, con il risultato di spingere alla delocalizzazione industriale; c) l’assenza di una politica industriale nel senso che chiarirò fra poco (dagli investimenti nelle infrastrutture transeuropee a politiche di supporto di traiettorie di innovazione industriale). In sintesi, sto parlando di una assenza di politica economica.

Venendo all’Italia, è ora di guardare i fattori di freno che appesantiscono l’economia italiana per quello che sono. Il debito pubblico, per cominciare: non si tratta solo dei rischi di instabilità finanziaria che esso comporta, con la conseguente sanzione dello spread che tiene alti i tassi di interesse per imprese (investimenti) e famiglie (consumi); si tratta dell’enorme distorsione nell’uso delle risorse di bilancio che il debito porta con sé, con oltre 80 miliardi di euro impegnati per pagare gli interessi invece che per investimenti produttivi e per servizi di welfare. I ritardi nella dotazione e nell’efficienza delle reti infrastrutturali, per continuare: con l’eccezione del settore dell’energia, scontiamo in molti settori (trasporti, idrico, rifiuti) la carenza di un sistema di regolazione forte che premi investimenti, riduzione dei costi e miglioramento della qualità, e penalizzi rendite e inefficienze, o in altri (TLC) lo stato di indebitamento e di carenza imprenditoriale dell’operatore principale. Ma scontiamo anche una superfetazione di vincoli normativi e regolamentari, nonché conflitti tra livelli di governo, che portano ad allungare i tempi, ad appesantire le opere con adempimenti ambientali e con opere di compensazione di molto superiori a quelli richiesti negli altri paesi europei, ad aumentare i costi delle imprese, a creare una incertezza regolatoria che rende il nostro paese assai poco attrattivo per gli investitori di lungo termine. Se a ciò aggiungiamo la permanenza, tuttora, di protezioni dalla concorrenza in diversi settori, vediamo come il nostro paese sia gravato da una molteplicità di forme di rendita che si riversano in costi aggiuntivi per le imprese dei settori esposti alla concorrenza internazionale e quindi frenano il riposizionamento delle imprese italiane sui mercati internazionali e ne azzoppano le capacità di crescita. E però, per concludere questo quadro dei fattori di freno, non possiamo neanche trascurare una sostanziale carenza di visione strategica e di stabile commitment sull’innovazione di prodotto e di processo da parte delle imprese italiane, carenza che non può trovare giustificazione nei pur pesanti fattori di freno che ho ricordato or ora.

Se questa è, pur in estrema sintesi, la diagnosi, passiamo alla cura, ovvero ai tasselli che devono comporre una politica industriale che ridia prospettive di medio-lungo periodo al sistema produttivo italiano. In omaggio alla scelta di non occuparmi qui di politica macroeconomica, non mi soffermerò sulla questione pur decisiva del debito pubblico. Mi concentrerò, senza pretesa di esaustività, sugli interventi di politica industriale o a questa più strettamente connessi.

Il primo tassello riguarda le condizioni di contesto, che dividerei in due campi: le regole di funzionamento dei mercati e la predisposizione di fattori di produzione comuni, ossia infrastrutture e capitale umano. Per quanto riguarda le regole, è ora per il centrosinistra di rivendicare a pieno titolo l’importanza delle liberalizzazioni e della riforma della regolazione impostate negli anni Novanta e, non a caso, frenate dai governi di destra: tali processi vanno oggi ripresi e completati. Liberalizzazioni non significa solo rimuovere, come è giusto, lacci e lacciuoli che paralizzano le imprese, ma significa costruire regole di mercato che consentano a tutti di giocare le proprie carte, dando il proprio apporto di capacità imprenditoriali e di lavoro, e quindi di ridurre le protezioni monopolistiche grandi e piccole, le rendite e i costi per i cittadini e per i settori esposti alla concorrenza internazionale. Così come è necessario costruire regole fiscali che premino la capitalizzazione delle imprese (come la cosiddetta ACE, da sviluppare e migliorare) e regole di funzionamento dei mercati finanziari che consentano l’accesso al credito per tutte le imprese sane (ad esempio attraverso il ruolo del Fondo centrale di garanzia per le PMI).

Per quanto riguarda i fattori di produzione comuni, l’attenzione va posta prima di tutto su scuola e formazione come settori essenziali non solo per la qualità della vita dei cittadini ma per la formazione del fattore di competitività proprio di una economia avanzata, ossia il fattore umano. Ma va anche posta sul superamento del gap infrastrutturale che separa il nostro paese dai principali partner. A questo riguardo occorre prima di tutto massimizzare la capacità di direzione pubblica, il che significa curare finalmente le capacità di programmazione delle pubbliche amministrazioni (analisi costi-benefici e analisi di sostenibilità economico finanziaria), nonché sfoltire drasticamente la superfetazione di vincoli normativi e regolamentari e rivedere il Titolo V della Costituzione in modo da superare le sovrapposizioni di competenze tra livelli di governo: basta con incertezza regolatoria e costi collaterali che aumentano l’onere per la collettività e azzoppano la possibilità stessa di realizzare le infrastrutture. E, inoltre, facendo leva sull’efficacia di una regolazione stabile e forte, utilizzare le scarse risorse pubbliche disponibili come leva per mobilitare risorse private nella realizzazione di progetti al servizio dell’interesse generale. Segnalo, a questo riguardo, il ruolo che sta giocando e ancor più potrà giocare in futuro Cassa depositi e prestiti nel finanziamento degli investimenti delle imprese in progetti promossi dalle amministrazioni pubbliche.

Fin qui le condizioni di contesto. Ma i pubblici poteri non possono neanche esimersi dal promuovere scelte allocative che ritengano prioritarie per lo sviluppo dell’economia e della società italiana. Del resto, già nelle scelte circa le infrastrutture, l’intervento pubblico sta esercitando nei fatti un potere di indirizzo sull’allocazione delle risorse. In forme diverse può e deve esercitare un analogo potere di indirizzo su alcune traiettorie di sviluppo che le istituzioni democratiche ritengano di particolare rilievo per la competitività dell’economia italiana. Si tratta sia di traiettorie orizzontali, come il potenziamento degli investimenti in ricerca, sviluppo e innovazione da parte delle imprese senza vincoli settoriali (si pensi, ad esempio, al credito d’imposta per gli investimenti in ricerca e sviluppo), sia di traiettorie verticali, ossia di filiera produttiva (nozione più ampia e articolata rispetto al settore). Penso alle filiere indicate, ad esempio, dalla Comunicazione della Commissione europea dell’ottobre 2012 come filiere portanti della competitività delle economie avanzate: tecnologie per la produzione “pulita”, tecnologie chiave (microelettronica, materiali avanzati ecc.), prodotti biologici, mobilità sostenibile, reti intelligenti, scienze della vita. Si tratta qui di creare il sistema di convenienze di mercato che inducano le imprese a investire in queste filiere: in parte migliorando il sistema delle regole (stabilizzazione della spesa farmaceutica in percentuale di PIL, vincoli ambientali che aprano spazi alla chimica verde) e in parte indirizzando gli investimenti tramite strumenti che facilitino il finanziamento alle imprese che investono in questi campi (si veda, ad esempio, uno strumento come la risk sharing facility che fornisca una garanzia al finanziamento da parte della Banca europea degli investimenti di progetti di innovazione industriale delle imprese).

Ma qui si tratta anche, quando necessario, di saper sostenere con interventi nel capitale le imprese che aprono nuove frontiere strategiche per la capacità competitiva dell’economia italiana. Penso, a quest’ultimo riguardo, al ruolo che possono giocare Cassa depositi e prestiti – in particolare nelle società di rete che, come Terna e Snam, sono decisive per sostenere lo sviluppo e la sicurezza dei mercati di servizi fondamentali per il resto del sistema produttivo – e Fondo strategico italiano – che è chiamato a intervenire in imprese che possono svolgere un ruolo chiave per la competitività dell’economia italiana e per il suo posizionamento sui mercati internazionali. Però, con un’avvertenza decisiva: Cassa depositi e prestiti e Fondo strategico italiano devono restare soggetti “orientati al mercato”, con il vincolo cioè di investire in imprese in stabile equilibrio economico e con ritorno economico anche prospettico (devono remunerare il risparmio postale, cioè il risparmio di tante famiglie italiane). Sto parlando cioè di una forma nuova di intervento nel capitale delle imprese, basata su soggetti distinti dalla politica, che internalizzano una missione di interesse generale operando però sul mercato e secondo regole di mercato e facendo da leva su risorse imprenditoriali e finanziarie private. Nonché con una ulteriore avvertenza: in molti casi la stessa impostazione di una strategia industriale d’impresa può passare per la cessione di quote di capitale orientata a dar vita a un assetto azionario che rafforzi il posizionamento di mercato e assicuri una riorganizzazione produttiva adeguata.

Fin qui la politica industriale che può aprire nuove prospettive all’economia italiana. Ma vi è una dimensione ulteriore, quella dell’intervento su situazioni aperte di crisi aziendali, dove il tema centrale è se e come l’impresa in crisi sia in grado di ripartire e avere un futuro.

Si noti che molto spesso non si ha a che fare con criticità che richiedono necessariamente l’apporto di risorse di bilancio, ma piuttosto la sollecitazione e l’accompagnamento attivo da parte del governo nella ricerca di riposizionamenti di mercato o di interlocutori industriali in grado di rilanciare l’azienda. Esistono però anche situazioni di maggiore gravità ma non necessariamente condannate alla chiusura, dove, a certe condizioni, può essere opportuno anche l’apporto di risorse di bilancio. Due le tipologie principali a questo riguardo: a) singole imprese in difficoltà che possono ristrutturarsi positivamente, nel senso di attivare così una adeguata prospettiva di redditività e solidità competitiva, ma devono superare una fase di avvio degli investimenti cui solo un limitato sostegno finanziario pubblico – compatibile con la normativa europea in materia di aiuti di Stato – può assicurare, tramite quello che chiamiamo Contratto di sviluppo, un adeguato profilo di sostenibilità economico-finanziaria nella fase stessa della ristrutturazione; b) aree di crisi industriale complessa, dove la crisi di una grande impresa o di una intera filiera produttiva caratterizzante porta con sé il rischio di desertificazione industriale di un determinato territorio; in questo caso, occorre mettere a sistema interventi di diversificazione produttiva, facendo emergere nuove filiere di industria e di servizi, e interventi di infrastrutturazione (e, connessi con questi, spesso anche di bonifica ambientale), dove lo strumento chiave è l’Accordo di programma tra Stato, Regione, enti locali interessati (e in questo contesto può trovare spazio anche un eventuale utilizzo di Contratti di sviluppo con singole aziende). In ambedue i casi ora tratteggiati, gli strumenti indicati possono avere effetti positivi solo ove finalizzati al rilancio produttivo dell’azienda o dell’area e all’impegno diretto di risorse e capacità imprenditoriali private, rifuggendo invece dalla pura logica, spesso utilizzata in passato, del “mantenimento occupazionale”: quest’ultima nei fatti non crea ma distrugge posti di lavoro, bruciando risorse in modo improduttivo.

Provo ora a riassumere il senso delle indicazioni che ho cercato di dare. Una incisiva politica industriale non può davvero essere la riedizione di esperienze passate che non a caso sono state travolte dalla restaurazione conservatrice degli anni Ottanta: un intervento pubblico che, salvando imprese inefficienti e non tenendo conto delle reazioni dei mercati, finiva per cristallizzare inefficienze e costi per la collettività che ne vanificano l’efficacia. È invece giunta l’ora di costruire un intervento pubblico che sappia interagire costruttivamente con i mercati, definendo le regole di funzionamento che mettano tutti in condizione di giocare la propria partita e innervando il sistema di convenienze che orientano gli operatori con esplicite scelte pubbliche sull’allocazione delle risorse in funzione degli interessi generali della collettività. Insomma, il nodo che è giunto al pettine, dopo l’alternarsi dal secondo dopoguerra di keynesismo e liberismo, è ormai quello del governo pubblico dei mercati.

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