A sessanta anni dalla firma dei Trattati di Roma, è difficile stabilire se l’Unione europea sia alla ricerca di un elisir di lunga vita o, più modestamente, di un kit di sopravvivenza. Il referendum britannico per l’uscita dall’Unione è un colpo grave al processo di integrazione, che dimostra come anche la disintegrazione sia possibile. Nato come una “opzione B” rispetto al fallimento del progetto costituzionale, il Trattato di Lisbona rischia paradossalmente di passare alla storia soprattutto per il famigerato articolo 50, che prevede, per la prima volta nella vicenda dei Trattati europei, un meccanismo di recesso volontario di un paese dall’Unione, effettivamente attivato poi dalla Gran Bretagna.
La defezione inglese (nei tempi e nei modi in cui potrà essere sancita) ha messo in moto un pericoloso meccanismo di prospettive nazionali, se non addirittura nazionalistiche, che rischia di amplificare le fratture e le divergenze emerse nella politica europea molto prima del referendum inglese. I nodi fondamentali sono gli stessi da alcuni anni: la questione del ruolo dell’Europa per incoraggiare e sostenere la crescita economica soprattutto nell’area dell’euro; l’immigrazione come sfida politica, economica, sociale e soprattutto culturale; la questione della sicurezza e della difesa comune in un momento di grave turbolenza nelle relazioni internazionali soprattutto nel Medio Oriente e nel Mediterraneo. Su questi temi l’Unione europea avrebbe dovuto rinsaldare la sua coesione interna, mentre invece hanno sinora prevalso le scorciatoie sovraniste.
In questo rimescolamento di ruoli e posizioni, il metodo del cosiddetto “direttorio” (Germania, Francia, possibilmente Italia) non è detto che funzioni. Anzi, si constata il sorgere di formati alternativi, come il gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia, Ungheria) che raggruppa alcuni paesi dell’Europa orientale, accomunati da politiche di crescente chiusura rispetto alla crisi dei rifugiati e da una visione dell’UE che mette in risalto le specificità nazionali rispetto al processo integrativo e a un ruolo crescente delle istituzioni comunitarie.
Come risultato, lo stato attuale dell’integrazione è ben descritto dall’espressione “pace a bassa intensità” o “pace fredda”. La stabilità “interna” nei rapporti tra gli Stati membri non suscita più entusiasmi, benché rimangano valide le ragioni che hanno condotto al conferimento all’Unione europea del Premio Nobel per la pace nel 2013. E in ogni caso l’Unione è oggi inserita in un quadro di “guerre calde”: Ucraina, Siria, Libia.
Questa volta non basta la manutenzione ordinaria, l’Unione ha bisogno, per restare in piedi, di una profonda ristrutturazione. La parola d’ordine di questa nuova fase è “integrazione differenziata”. A ben guardare, un ossimoro, che segna però un cambiamento radicale nella “narrativa” sul processo politico europeo. Integrazione, nell’ortodossia “comunitaria”, ha significato sinora, in maniera coerente, puntare in modo corale verso obiettivi comuni, verso la condivisione di sovranità. Se l’integrazione si differenzia, allora le finalità non sono più necessariamente convergenti. Può essere una necessità storica e politica, ma non possiamo certamente rallegrarci di questo esito dalle conseguenze incerte. Dunque, non di integrazione differenziata occorrerebbe parlare, ma di “differenziazione integrata”: la diversificazione viene inserita in modo strutturale nella dinamica europea.
Per alcuni, questa prospettiva, lungi dall’essere una novità, sarebbe già iscritta nella condizione esistenziale dell’Europa di oggi. Si richiamano alcuni precedenti macroscopici: Schengen, da un parte, e soprattutto l’Unione monetaria, dall’altra (esempi a parte di differenziazione sono lo Strumento europeo di stabilità o il Fiscal Compact, nati in un contesto inter-governativo). Ma la diversità di tali casi, rispetto a una frantumazione istituzionalizzata, è evidente. In entrambe le circostanze si è trattato di sviluppi destinati realmente a trainare, in futuro, i non partecipanti, mentre per l’integrazione differenziata, nelle condizioni attuali dell’Unione, si dovrebbe piuttosto parlare di un destino strutturalmente disgiunto. La possibilità di “recuperi” futuri è, realisticamente, molto ridotta, se si considerano i precedenti di Stati membri che hanno deciso di restare fuori da formati integrativi.
Questo dibattitto non nasce ora. Basti pensare agli scenari e alle tipologie che sono state prospettate negli ultimi decenni. La terminologia, in questo caso, è sostanza: «Il concetto di Europa a più velocità si riferisce a una modalità di integrazione differenziata in base alla quale il perseguimento di comuni obiettivi è guidato da un gruppo interno, da un nucleo di Stati membri che sono al contempo capaci e desiderosi di procedere oltre, nell’assunto di fondo che gli altri potranno unirsi in seguito. È una nozione che ha come riferimento principale il tempo. L’idea di Europa a geometria variabile riguarda una modalità di integrazione differenziata che, concependo la possibilità di una separazione permanente o irreversibile tra un “nucleo duro” e unità integrative meno sviluppate, ammette l’esistenza di un divario incolmabile nella struttura integrativa complessiva. È una nozione che ha come riferimento principale lo spazio. Infine, l’Europa à la carte è concepita come una modalità di integrazione differenziata in cui gli Stati membri possono scegliere (pick-and-choose), come da un menu, a quali politiche intendono prendere parte, condividendo al contempo solo un numero minimo di obiettivi comuni. È una nozione che ha come riferimento principale la materia».1
Nella prospettiva attuale, il disallineamento sarebbe amplificato dal fatto che l’eventuale integrazione a più livelli dovrebbe necessariamente coinvolgere i settori della politica “alta”, quelli nei quali più di ogni altro si svolge la trama della sovranità. Si discute, ad esempio, della difesa, della politica economica, della gestione comune e integrata delle migrazioni. Ciò non sarebbe senza effetto sulla costruzione complessiva dell’Unione, e non è difficile immaginare – stante l’oggettiva compenetrazione dei mercati e delle economie europee – l’impatto distorcente di una condivisione di sovranità in settori economici ad alta sensibilità politica come la politica industriale, gli investimenti, la fiscalità sulla integrazione a bassa intensità in settori economici “tecnici” (trasporti, mercato unico). Il meno che si possa dire è che aumenterebbe inevitabilmente la complessità di una costruzione istituzionale e normativa che già appare scarsamente intellegibile, senza parlare dei problemi di governance (duplicazioni, doppi ruoli, raccordo tra organi) e le tensioni che inevitabilmente si porrebbero.
Il pericolo di una dispersione e frantumazione è talmente reale e presente che gli analisti europei parlano della necessità di ancoraggi saldi per le aree di differenziazione, a partire ad esempio dall’eurozona, dalla Cooperazione strutturata permanente nell’ambito della difesa e dallo spazio Schengen. Inoltre, sarebbe a rischio la coerenza istituzionale dell’Unione, se le attuali istituzioni dovessero svolgere ruoli marginali o dovessero addirittura essere escluse nei diversi formati della differenziazione.
Ciò posto, non si può non ricordare che l’Unione costituisce già ora una compagine formata da diversi aggregati anche al di là degli esempi segnalati, se a essi si aggiungono, ad esempio, i cosiddetti “opt-outs”, vale a dire le clausole di esenzione concesse a diversi Stati membri a titolo permanente in occasione della firma di molteplici trattati europei. Il caso più macroscopico è proprio il Regno Unito, che per sua scelta, e ben prima del referendum sull’appartenenza all’Unione, è già fuori dall’Unione monetaria, fuori da Schengen, fuori dallo Spazio di libertà, sicurezza e giustizia, fuori dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (oltre che fuori, ad altro titolo, dal Fiscal Compact e dall’Unione bancaria).
Ma anche altri Stati membri usufruiscono della clausola di esenzione permanente: l’Irlanda non partecipa a Schengen e allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia; la Danimarca non partecipa alle iniziative riguardanti la difesa e si è auto-esclusa dall’Unione monetaria nonché dallo Spazio di libertà, sicurezza e giustizia; la Polonia non partecipa alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Più in generale, la questione dell’integrazione differenziata ripropone l’alternativa, iscritta geneticamente nella vicenda dell’Unione, tra l’integrazione negativa e l’integrazione positiva.2 L’UE ha avuto successo (relativamente) in tutte le politiche che hanno implicato lo smantellamento di frontiere, di regolazione, di strutture. L’esempio di Schengen non richiede particolari precisazioni, ma anche politiche apparentemente integrative in senso positivo sono in realtà misure deregolatorie. È il caso dello stesso euro che, se ha creato istituzioni e norme centralizzate (la Banca centrale, i criteri di Maastricht) ha in misura molto maggiore eliminato caratteri della sovranità nazionale in campo monetario (e non è certo un male). Persino la libera circolazione delle persone e dei lavoratori (oggi anch’essa minacciata), spacciata troppo spesso, erroneamente, come un’espressione della “cittadinanza europea”, rientra senz’altro nell’integrazione negativa. Con le eccezioni qualificate e parziali (oggi, non a caso, sempre più contestate), della politica agricola comune e dei fondi strutturali, tutte le misure che implicano, al contrario, la costruzione di nuove forme di condivisione di sovranità attiva, di integrazione positiva (la difesa, le migrazioni, la politica estera, l’armonizzazione fiscale, una politica economica integrata) rimangono da decenni a livello di meri obiettivi da raggiungere.
Può darsi che la soluzione risieda, come ha scritto Sergio Fabbrini, nello “sdoppiamento”:3 da una parte, una più ristretta unione politica (esclusiva) di tipo federale (non uno “Stato europeo”), costruita a partire dagli Stati membri dell’eurozona e basata su un accordo di tipo costituzionale; dall’altra, una più ampia (inclusiva) comunità economica basata su un trattato interstatale. In parte analoga la prospettiva di Antonio Armellini e Gerardo Mombelli di un’Europa “né centauro né chimera”:4 la compresenza di “due Europe”, distinte, parallele e non conflittuali, una a vocazione tendenzialmente sovranazionale, e una – intergovernativa – centrata sulla razionalizzazione del mercato.
La proposta delle due organizzazioni separate ma connesse ha il merito della chiarezza, anche se non risolve tutti i problemi. Ad esempio, un’Europa dei mercati implica, in ogni caso, una regolazione istituzionalizzata e potenti organismi di controllo, in un contesto ben più strutturato di una semplice area di libero scambio o degli standard dell’Organizzazione mondiale del commercio. Il sovranismo di cui è pervaso il continente accetterà tali riferimenti o tenterà di destrutturarli?
Rimane poi da stabilire un punto importante per l’unione federale. Nella federazione americana, i poteri degli Stati sono reali, e riguardano quasi tutte le materie non rientranti nella difesa, nella politica monetaria, nei rapporti internazionali, nella giustizia costituzionale. Il processo integrativo europeo ha seguito un percorso inverso: la tendenza verso iper-regolazione centralistica (la famosa “armonizzazione”), benché incoerente e frammentaria, delle materie “tecniche” (le “politiche”), che negli Stati Uniti sono quasi interamente lasciate agli Stati, e il controllo da parte degli Stati membri dell’UE (anche in questo caso in modo speculare rispetto agli USA) delle funzioni “regaliane” (la “politica”), come appunto la difesa e la politica estera. L’ipertrofia regolamentare tecnica ha finito per creare l’impressione (e talvolta la mitologia), in gran parte infondata, di una pervasiva intrusività dell’Unione nei più remoti interstizi della vita economica e sociale, suscitando reazioni identitarie, vagamente autarchiche e comunitariste.
Insomma, l’integrazione differenziata è sicuramente uno strumento in grado di garantire la flessibilità, ma non ci si può illudere di aver trovato la soluzione dei dilemmi e delle crisi multiple dell’Unione. Non esiste un sistema politico-istituzionale, nemmeno per l’Europa, che possa ritenersi stabile nel senso di immobile o immutabile. Una “repubblica di molte repubbliche”, una repubblica composita è “un processo, non una istituzione”, articolata sulla base di una ineliminabile tensione, in un ambito politico dove permangono molti centri e una separazione multipla dei poteri.5 In ogni caso, il dibattito sull’integrazione differenziata, per quanto rilevante, non può oscurare le grandi questioni politiche emergenti e urgenti: le nuove euro-fratture nord/sud, est/ovest, le crescenti polarizzazioni socio-economiche interne, l’orientamento inclusivo/esclusivo, le migrazioni (e non solo l’immigrazione), il rapporto dell’Unione con il vicinato orientale e meridionale, la divaricazione euro-atlantica, i rapporti con la Russia. Cerchi concentrici, forze centrifughe, linee di faglia che permarranno nell’agenda politica quale che sia l’ingegneria istituzionale escogitata per superare lo stallo. E nessuna configurazione strutturale potrà mai sostituire la necessità di un consenso democratico informato, di politiche originali che escano dalla doxa liberista e globalista, della capacità di visione strategica.6
[1] P. Ferrara, Non di solo Euro. La filosofia politica dell’Unione Europea, Città Nuova, Roma 2002, pp. 164-65; C.-D. Ehlermann, Increased Differentiation or Stronger Uniformity, EUI Working Paper n. 95/21, Istituto Universitario Europeo, Firenze 1995, disponibile su cadmus.eui.eu/bitstream/handle/1814/1396/95_21.pdf;sequence=1
[2] F. Scharpf, Governare l’Europa, il Mulino, Bologna 1999.
[3] S. Fabbrini, Lo sdoppiamento. Una prospettiva nuova per l’Europa, Laterza, Bari-Roma 2017.
[4] A. Armellini, G. Mombelli, Né centauro né chimera. Modesta proposta per un’Europa plurale, Marsilio, Venezia 2017.
[5] S. Fabbrini, op. cit., pp. 123-63.
[6] Le opinioni espresse in questo articolo riflettono il punto di vista dell’autore e non dell’istituzione di appartenenza.