Mai adulti loro malgrado: giovani e lavoro in Italia

Written by Paolo Barbieri Wednesday, 13 October 2010 16:44 Print
Mai adulti loro malgrado: giovani e lavoro in Italia Disegno: Serena Viola

I giovani in Italia pagano oggi più di tutte le altre categorie sociali gli effetti della crisi economica. Dopo aver visto concentrarsi su di sé gli effetti degli aggiustamenti e delle riforme, talora anche radicali, del mercato del lavoro e del carente sistema di welfare nazionale, le giovani generazioni, tra l’indifferenza generale dei policy makers, subiscono oggi la maggior parte dei nuovi rischi sociali. Si tratta di una situazione estremamente problematica non solo per i soggetti coinvolti, più esposti a rischi di disoccupazione, precariato e impossibilitati a crearsi una propria famiglia indipendente, ma per la società nel suo insieme, che mette così a repentaglio il suo stesso futuro.

Ne “L’amore ai tempi del colera” Gabriel García Márquez racconta l’infinita storia d’amore tra Florentino Ariza e Fermina Daza, che tra alti e bassi attende oltre mezzo secolo, fra fine Ottocento e inizi del Novecento, per consumarsi, quasi un rinvio infinito di un passaggio alla vita adulta di Florentino che, sebbene invecchiato, arricchito di denari e di amanti, compie infine la sua transizione ad una vita piena e compiuta solo dopo aver passato i 70 anni, allorché corona il suo sogno con la ormai nonna Fermina.
Il racconto, recentemente divenuto anche un (bel) film, e l’infinita attesa di un compimento che lo pervade, ben simboleggia il difficile passaggio alla vita adulta di generazioni di giovani, anche italiani, nella loro infinita attesa di un traguardo (un lavoro stabile, una famiglia propria, un’esistenza autonoma e realizzata) che appare sempre più protrarsi negli anni.
La crisi economica ha reso ancora più difficile una situazione che già di per sé appariva ardua: è di alcune settimane fa il comunicato Istat in cui si fanno i conti con le conseguenze occupazionali della crisi. Dal 2008 al giugno 2010 in Italia sono andati persi oltre 1 milione di posti di lavoro. Questa riduzione ha colpito in larga parte il lavoro flessibile, cioè i giovani: quasi la metà dei posti perduti riguardavano contratti a termine non rinnovati e un ulteriore 10% circa si riferiva a contratti di collaborazione. I lavori meno protetti sono, ovviamente, i primi e i più facili da tagliare in tempi di crisi, e i lavoratori meno tutelati sono i più esposti al rischio di restare abbandonati a se stessi in un sistema di welfare come il nostro, che non prevede politiche attive del lavoro e strumenti di flexicurity adeguati.
Cosa ha originato questa anomala concentrazione di rischi sociali su una sola parte della popolazione?
Una prospettiva analitica che consideri solo qualche decennio – diciamo dalla fine degli anni Sessanta ad oggi – è in grado di dare un quadro più completo della situazione dei giovani italiani e delle sue origini.
Se ad oggi, infatti, secondo gli ultimi dati resi disponibili dall’OCSE e relativi al 2009, un giovane italiano su quattro è in cerca di lavoro – il tasso di disoccupazione dei 15-24enni è del 25,4% (ma era del 25,6% già nei primi anni Ottanta) contro un tasso del 16,4% per i paesi membri del G7 e del 19,4% per i paesi dell’UE a 15 – nel 1970 tale valore scendeva ad un ben più accettabile 10,2%, sempre più elevato rispetto a quanto accadeva altrove (6,4% per i paesi del G7 e 3,9% per i paesi dell’UE a 15 nel 1970) ma comunque non così drammatico come è diventato dalla fine degli anni Settanta (lo stesso tasso di disoccupazione giovanile era attorno al 35% nella seconda metà degli anni Ottanta).
Ma il dato relativo al tasso di disoccupazione racconta solo una parte della storia: innanzitutto perché i dati ufficiali dell’OCSE limitano la definizione di “giovani” ai 15-24enni (nel nostro paese il fenomeno va ben oltre i 25 anni) ma soprattutto perché il tasso di disoccupazione non tiene conto del livello di scoraggiamento, cioè di coloro che un lavoro non lo cercano più non essendo riusciti a trovarlo in passato. Sempre secondo i dati dell’OCSE, nel 2009 questi giovani 15-24enni “scoraggiati” costituivano in Italia il 4,8% della forza lavoro della stessa età, contro lo 0,7% dei paesi del G7 e l’1% dell’UE a 15. 
Tra disoccupati e scoraggiati risultano quindi esserci 5-600.000 ragazzi e ragazze esclusi dal lavoro e dalle possibilità di inclusione civile e sociale che il lavoro consente: una situazione che caratterizza in modo particolare i giovani dei paesi mediterranei (Italia, Grecia, Spagna), anche se alcuni fra i new comers dell’Europa dell’Est sembra si stiano avviando lungo una strada non troppo dissimile.
Però, si sostiene da più parti (non da ultimo anche da parte dei ministri Sacconi e Gelmini), in Italia c’è la famiglia! Tale rimando alla famiglia – quasi che questa possa risolvere tutti i mali del mondo e come se negli altri paesi del globo si crescesse negli orfanotrofi – si ripropone quando si parla di giovani nel nostro paese (di solito congiuntamente ai commenti relativi ai “bamboccioni”, nuova etichetta nata dal passo falso di un ministro ulivista di qualche anno fa). Vediamola, allora, nel dettaglio questa famiglia, e vediamo, soprattutto, le chance che i nostri giovani hanno di formarne una loro. Sappiamo da dati OCSE che l’età mediana di uscita dalla famiglia di origine si attesta nel nostro paese sui 30 anni per gli uomini e sui 27 circa per le donne. I giovani danesi, solo per fare un confronto, escono di casa con ben dieci anni di anticipo! Da dove derivano queste differenze così pesanti fra i comportamenti e i rischi a cui sono esposti i giovani italiani rispetto ai loro coetanei di altri paesi dell’Unione europea? Si tratta di un fenomeno che è andato accentuandosi negli ultimi decenni. La demografia ci dice infatti che alla fine degli anni Settanta c’era molta più omogeneità tra i paesi europei per quanto riguarda i tempi di transizione verso l’indipendenza: gran parte dei giovani lasciava la famiglia di origine per formare una propria famiglia prima dei 25 anni. La società moderna sembrava aver uniformato i tempi di transizione alla vita adulta così come stava uniformando diversi altri aspetti della vita sociale del tempo. Negli ultimi trent’anni però, mentre i giovani nordeuropei hanno continuato a lasciare presto la famiglia di origine, aiutati in questo processo anche da adeguate politiche sociali proprie di quei sistemi di welfare universalistici, nel Sud dell’Europa si è avviato un processo di progressivo prolungamento dei tempi di uscita, ben simboleggiato dall’infinito «rinvio dell’appagamento » descritto da García Márquez nel racconto ricordato in apertura.
Cosa, dunque, può aver originato questo doppio fenomeno di crescente disoccupazione e di ritardo nell’accesso alla vita adulta che ormai sembra  caratterizzare in modo stabile le giovani generazioni dei paesi mediterranei e del nostro in particolare?
Rispondere a questa domanda equivale a cercare di spiegare uno dei fenomeni più seri e problematici della società italiana, le cui conseguenze (si pensi anche alla parallela riduzione dei tassi di natalità) sono destinate a pesare per i decenni a venire. Si tratta però di un fenomeno di cui poco o nulla si discute anche se sono disponibili diverse recenti ricerche sul tema, i cui risultati consentono forse di definire un quadro d’insieme dei rischi sociali che negli ultimi decenni si sono addensati sui giovani: una concentrazione di rischi che si sta rivelando sempre più pericolosa perché sempre più foriera di diseguaglianza sociale e che rivela una società che deliberatamente sceglie di non investire sulle giovani generazioni, il che equivale a dire sul suo stesso futuro.
Ma procediamo con ordine. Nella seconda metà degli anni Settanta è entrato in crisi un intero sistema di accumulazione, basato su un equilibrio industriale (fordista) che nei due decenni precedenti sembrava poter garantire crescita economica e redistribuzione del benessere a tutta la popolazione.
Quando la crisi (le cui origini la letteratura individua nell’aumento dei costi delle materie prime, nella crisi del fordismo e quindi nel venir meno delle prospettive di crescita costante tipiche della gold - en age precedente) ha iniziato a farsi sentire anche sul mercato del lavoro, il nostro paese (ma non fummo i soli) optò – più o meno consapevolmente – per quella che potremmo definire una politica “redistributiva” dei posti di lavoro. La formula “un posto di lavoro per famiglia, in genere al capofamiglia (maschio)” ben si presta a sintetizzare l’evoluzione di quel periodo. E se il posto di lavoro non poteva essere assicurato, le politiche di prepensionamento garantivano comunque un reddito per famiglia. Su questa strada, va ribadito, l’Italia non si incamminò da sola. I paesi centroeuropei, con sistemi di welfare assicurativo-bismarckiani, scelsero di ridurre l’offerta di lavoro (maschile, adulto-anziana) spostandola a carico dei sistemi pensionistici (lo stesso fecero Paesi Bassi, Germania e Francia, solo per citarne alcuni). L’Italia ebbe però la sventura di combinare politiche di riduzione dell’offerta di lavoro e politiche di deficit spending “allegro”, il che portò ad una esplosione del debito pubblico che non ha paragoni con quanto accaduto altrove: negli anni Ottanta il nostro debito pubblico è passato dal 60% a oltre il 120% del PIL.
Tali eccessi si verificavano in un paese che, per le caratteristiche del mercato del lavoro e per la natura del suo sistema produttivo non aveva – e non ha tuttora – le risorse e le capacità di ripresa di altri paesi avanzati. Il mercato del lavoro italiano è ancora oggi caratterizzato da un marcato sottoutilizzo della capacità lavorativa: nemmeno una donna su due in età lavorativa è occupata, mentre fra i maschi 50-64enni solo 6 su 10 sono ancora presenti sul mercato del lavoro, contro gli 8 su 10 della Germania e i 7 su 10 della media UE a 15. Per quanto concerne le caratteristiche del sistema produttivo italiano, infine, il suo essere in prevalenza composto da microimprese – troppo spesso operanti in produzioni e settori tradizionali, se non “decotti” – lo rende incapace di evolversi, di crescere e di fronteggiare i periodi di crisi economica globale (l’Istat stima che ci vorranno almeno altri quattro anni, ai livelli di crescita zero-virgola attuali, per ritornare ai valori di PIL precedenti alla crisi del 2008). Non si parla, quindi, di creare domanda di lavoro per le donne, i giovani, gli uomini over 50. Non sarà un caso, infatti, se crescono gli inattivi, cioè quanti un lavoro nemmeno provano più a cercarlo, e la cassa integrazione speciale, vera disoccupazione nascosta.
Sì, ma che c’entrano i giovani in tutto questo? Dopo il decennio “allegro” degli anni Ottanta (quello della «Milano da bere» socialista e dei governi di pentapartito) l’avvento della moneta unica ha imposto una serie di riforme non più eludibili (anche) al nostro paese. Riforme del mercato del lavoro, improntate all’idea che flessibilizzando il lavoro dipendente si sarebbero creati incentivi per la domanda di lavoro delle imprese e ridotta la disoccupazione, e riforme del welfare, cioè del solo welfare esistente in Italia: le pensioni.
Entrambe le stagioni di riforma (necessarie, intendiamoci!) si sono caratterizzate, però, per aver concentrato sulle giovani generazioni i costi del risanamento (pensionistico e del mercato del lavoro). La flessibilità del lavoro si è tradotta in flessibilità parziale e selettiva: contratti flessibili, a garanzie e salari ridotti, per accedere al mercato del lavoro, la cui applicabilità era limitata ai soli giovani, mentre la riforma del sistema pensionistico (sostanzialmente da un sistema a benefici definiti si è passati ad un sistema a contributi definiti, assai meno generoso) ha sostanzialmente ridotto i benefici pensionistici per le prossime generazioni di lavoratori e di pensionati, lasciando invece completamente al riparo dai sacrifici tutti quei lavoratori con oltre 17 anni di anzianità contributiva al momento dell’entrata in vigore della riforma, per non parlare dei pensionati, vera categoria sovraprotetta nel sistema politico e di welfare nazionale (come testimonia la vicenda dell’abolizione del cosiddetto scalone Maroni, in buona parte pagata con i contributi dei co.co.co.).
Elevato debito pubblico, incapacità di crescita economico-produttiva, assenza di welfare pubblico, sottoutilizzo della forza lavoro, spesa pensionistica intoccabile e tale da ipotecare qualsiasi opzione di welfare universalistico – per non parlare di flexicurity – unite ad un paio di altri elementi non trascurabili come la crisi economica e l’azione dell’attuale governo sono alla base di una situazione in cui per le giovani generazioni di questo paese le prospettive sono tutt’altro che tranquille.
La riproposizione di un modello di welfare assicurativo-bismarckiano, incapace di fungere da sostegno alla domanda di lavoro così come di rispondere ai nuovi rischi sociali originati dalla diffusione dell’occupazione giovanile precaria, la crescita quasi nulla di un sistema produttivo inadeguato, la stabilizzazione di un profondo dualismo nel mercato del lavoro, segmentato per caratteristiche di coorte, con i giovani sempre meno certi che il lavoro flessibile che viene loro offerto (se e quando ciò accade) possa diventare un “ingresso di servizio” verso forme di impiego stabili e in grado di garantire salari equi e diritti sociali pieni, tutto questo contribuisce oggi a rendere assolutamente incerto – per usare un eufemismo – il futuro delle giovani generazioni in questo paese.
È ormai possibile, infatti, mostrare come i lavori flessibili si siano trasformati, probabilmente più di quanto non fosse nelle intenzioni di chi ha proposto e sostenuto il processo di flessibilizzazione, in vicoli a fondo cieco da cui è sempre più difficile uscire, e tanto meno uscirne ad un’età ragionevole, tale da permettere di non dover rimandare sine die la necessaria transizione alla vita adulta, cioè un processo che combini uscita dalla casa dei genitori, realizzazione di una famiglia propria e procreazione di figli.
È anche possibile mostrare, infatti, che per le giovani donne (le donne sembrano rappresentare le vittime ideali per quanto riguarda i diritti del lavoro e sociali in questo paese) non solo il rischio di restare intrappolate nel mercato del lavoro secondario è maggiore rispetto ai loro coetanei maschi, ma che tale situazione si ripercuote negativamente sulle loro possibilità di compiere il passo della prima maternità, per non dire della difficoltà di costruirsi una famiglia o del paradosso di essere madri a 35 anni, un’età in cui abitualmente si è soliti iniziare a fare i primi bilanci esistenziali e in cui alcune mete dovrebbero essere state raggiunte.
Questa situazione di pesante concentrazione di una serie di rischi sociali – legati alle condizioni occupazionali, alla mancanza di garanzie di welfare, per non dire dell’impossibilità di completare il processo di creazione familiare – è tipica del nostro paese (se può consolare, anche Spagna e Ungheria sono nelle stesse condizioni) e si accompagna ad una sostenuta crescita dei livelli di diseguaglianza sociale, oggi denunciata persino dalle paludate statistiche e dai rapporti ufficiali dell’OCSE. Al contrario di quanto accade in Italia, i nostri vicini europei – grazie alla loro capacità di crescita e ai loro sistemi di welfare più evoluti e attivi – riescono ancora a non sacrificare il futuro occupazionale e riproduttivo delle loro giovani generazioni. Riescono cioè a non sacrificare il loro stesso futuro, come società coese e funzionanti. In Italia i giovani sono condannati ad una perpetua infanzia e, se lavorano, hanno un impiego precario, sottopagato e sottoprotetto, sono esposti ad un maggiore rischio di perderlo, non fanno famiglia né figli e sicuramente non riusciranno ad accumulare periodi di contribuzione sufficienti a garantir loro una pensione adeguata in tarda età. Il nostro paese è seduto su una bomba ad orologeria, ma sembra non preoccuparsene, preso com’è a guardare nel vuoto. Per concludere un’altra citazione, questa volta da “Aden Arabia” di Paul Nizan: «Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che è la più bella età della vita (…). È duro imparare la propria parte nel mondo». Qual è, dunque, la parte che questo paese riserva alle sue giovani generazioni?