Volete il potere? Rottamateci

Written by Lucia Annunziata Thursday, 14 October 2010 15:53 Print
Volete il potere? Rottamateci Disegno: Serena Viola

Alzi la mano chi è a favore del ricambio generazionale nel nostro paese. Alzino poi la mano quei giovani che credono che il potere debba essere conquistato e non ottenuto per gentile concessione. Alzino ora la mano quei giovani che hanno provato a conquistarsi il potere. Ecco che avremo una chiara idea del perché il nostro è oggi un paese immobile.

Dovrei fare qui la parte di chi espone le ragioni di una opinione contraria al ricambio generazionale. Mi toccherebbe il ruolo, per puro computo di primavere – ne tocco 60 in questo 2010, e ho sempre trovato temeraria l’affermazione che “la vecchiaia è una questione legata a come ci si sente”. Credo invece che esistano giovinezza e vecchiaia, e credo anche che ci sia fra loro un feroce ed eterno conflitto.
Ma se di questo conflitto dovessimo parlare, dei suoi vantaggi e svantaggi, delle sue ragioni e dei suoi torti, mi basterebbe rimandarvi alla lettura del bell’intervento della mia co-dibattente, la mia dirimpettaia (per così dire) giovane, Elisabetta Ambrosi. Il suo è un articolo onesto, completo, senza birignao, che espone buone ragioni e buoni motivi per il ricambio generazionale. Sono completamente d’accordo con lei. Esiste, d’altra parte, davvero qualcuno che mette in discussione la necessità di un rinnovamento generazionale nel nostro paese? Esiste realmente una opinione contraria all’inserimento dei giovani nel nostro sistema? Se sì, chiamate l’ambulanza. Dunque, di cosa esattamente parliamo quando solleviamo il nodo intergenerazionale?
Che un paese discuta, nelle sue migliori sedi intellettuali, nei suoi media, nelle università o dentro le forze politiche, su se si debba o meno far largo ai giovani è solo prova di quanto sia fuori strada il suo confronto pubblico. In realtà bisogna solo capire perché in Italia – e solo in Italia, unica eccezione di tutti i paesi sviluppati – il ricambio generazionale è fermo. E per capirlo non occorre discettare delle virtù giovanili e/o delle colpe dei vecchi, ma del “a chi giova o meno” l’immobilismo del sistema.
Per evitare di cadere nella genericità preferisco fornirvi un solo esempio, molto concreto, quello del giornalismo, che conosco bene e che è settore molto rilevante nel funzionamento del sistema stesso.
In realtà dovremmo parlare di giornalismi. E specificare se di carta stam - pata, video, internet; e, ancora, sottospecificare se ci riferiamo a commenti, blog, espressione collettiva, ag gregata, diario personale. In effetti, quando si parla di giornalismo si intende oggi una vasta serie di esperienze, il cui consumo è sempre più à la carte, in cui tutti hanno parola, luogo, esperienza e peso. In cui, insomma, le tradizionali differenze tra generi, mezzi, produttori e consumatori si sono in parte vanificate, in parte riaggregate o fuse in diverse forme.
Il nostro piccolo sistema – quello italiano – è perfettamente consapevole di questo grande cambiamento, e ripete in coro con il resto del mondo il mantra del benvenuto al futuro. Ma il suo è il solito sì che il nostro paese concede all’innovazione: un sì verbale ma non di cuore, e ancora meno di mente.
Non temete, non sto per parlare del conflitto d’interesse e ancor meno di Silvio Berlusconi. Nella catena evolutiva delle nostre società, Silvio Berlusconi è solo un anello, anche se molti suoi nemici non lo credono, e anche se soprattutto non lo crede lui.
Il giornalismo, dunque, è in una fase di profonda evoluzione.
La rivoluzione internet che conta ormai venti anni, ha già ampiamente fatto sentire i suoi effetti: ha dato la parola a tutti, e l’ha data a poco costo. In società che hanno raggiunto vette di scolarizzazione di massa, come le nostre, questo è stato come offrire a una massa di gente una voce per parlare e una spada a testa. Il risultato è che la comunicazione nel suo insieme si è divisa in mille pezzi. In paesi in rapidissimo sviluppo come la Cina e l’India, vediamo bene il cambiamento e l’impatto che ciò ha avuto. È evidente negli Stati Uniti, in Europa; in Italia, invece, a dispetto delle parole di lode verso il nuovo, c’è una sostanziale resistenza ai cambiamenti.
Le élite del nostro paese si rispecchiano ancora, infatti, con reverenza nei giornaloni omnibus della carta stampata e nella TV generalista. I politici, i giornalisti e gli uomini di affari si affannano con leggi, pagano, litigano e investono milioni per conquistare spazi mediatici il cui valore cala ogni giorno. E la cui scalabilità è tanto grande quanto la punta dello spillo: quello necessario a bucarne la bolla. Densi come sono di strumenti, uomini e mezzi, i media tradizionali finiscono sempre più sconfitti da documenti svelati da un piccolo sito, dai conti di un’azienda scoperti on-line e resi pubblici con lo stesso sistema, da opinioni controcorrente, da video realizzati da chi è nel posto dove prima c’erano i giornalisti accreditati, dalle interviste su YouTube che arrivano prima dei grandi network.
In queste due fasi dell’evoluzione del giornalismo possiamo anche leggere una perfetta rappresentazione dello spartiacque generazionale. Da una parte ci sono i giovani, con un consumo e uso dell’informazione e della cultura secondo nuove abitudini e modi. Dall’altro il sistema, che ancora rivendica la sua specificità, anche a costo di impedire il futuro. E infatti, tutto quello che produce – TV, quotidiani, settimanali e fiere varie delle vanità – somiglia ogni giorno di più a un cimitero di elefanti.
Proseguendo sul giornalismo (come perfetta espressione anche di rottura generazionale), occorre chiedersi perché, messo tendenzialmente in minoranza, non accetta, per sopravvivere, il cambiamento. Rispondere a questo interrogativo significa in parte rispondere anche alla domanda sul perché il sistema non accetta i giovani.
La risposta più banale è che, in qualche modo, non può farlo. Il giornalismo attuale, quello dentro il quale siamo cresciuti, anche quello a maggior quota di dissenso rispetto al suo stesso sistema, quello americano, per fare un esempio, o quello radicale di destra o di sinistra, condivide comunque il DNA del sistema che rappresenta. Il giornalismo mainstream, anche il migliore, è un’esperienza elitaria, in cui, pur pretendendo di interpretare la voce dei cittadini, comunque un piccolo gruppo di professionisti si è arrogato il diritto di scegliere cosa fosse “degno di nota”, degno di stampa, degno di lettura, cioè una  notizia, per tutti. Togli il diritto di scegliere per gli altri e avrai tolto al giornalismo attuale il suo senso, la sua missione, la condizione di base dentro cui può operare.
Del resto, le società in cui viviamo da un paio di secoli – quelle venute dopo la rivoluzione francese, per intenderci – sono state costruite intorno a questa regola: che una élite, sia pur eletta ed esercitata tramite voto e rappresentanza diretta, sia il motore del funzionamento. Ma questo è esattamente il principio che la pentola a pressione della globalizzazione sta facendo esplodere. Non importa quanto un gruppo di uomini sia onesto, capace, efficace, ben selezionato – nelle società attuali non si accetta più (o sempre meno) che possa funzionare la “delega” a uno per tutti. In crisi è l’idea stessa che una élite possa interpretare, e decidere, e guidare il corso degli eventi a nome della collettività: la rappresentanza, insomma. E in politica ben si vede l’effetto di questa negazione.
Se ne comprende dunque la resistenza. È conservazione di una élite, ma anche di una cultura, di un’epoca, di determinati valori. E infine, ma solo infine, di generazioni precedenti.
Nell’epoca attuale globalizzazione, scolarizzazione e tecnologia hanno dato al salto generazionale anche il significato di una discontinuità di organizzazione sociale. Per questo il salto è faticoso, per questo è difficile e, per quel che mi riguarda, anche un po’ spaventoso – tenendo conto delle incertezze che apre.
Nel mondo, tuttavia, come si ricordava, sta avvenendo, che lo si voglia o meno. In Italia invece il cambiamento è frenato quasi del tutto. Spiegare il perché di questa ennesima eccezione italiana, è fondamentale se si vuole dire qualcosa ai giovani. In Italia, al timore generale della trasformazione si aggiunge il potere frenante del Potere. Una forza composta più da gruppi, cordate e interessi che dal libero esercizio delle opportunità e del merito. Nessuna forza in Italia è davvero innovativa, da molti anni: non la politica, che in Italia è stata debitrice di servitù ideologiche non nazionali; non il settore degli affari e dell’industria, che è sempre stato debitore più al denaro pubblico che alla creatività e all’iniziativa privata; e, come si diceva, nemmeno i media, che di questo assetto sono in Italia i dipendenti, non i critici.
Quello che blocca i giovani, in parole povere, e per finire, non è affatto l’egoismo dei vecchi. Magari fosse così: i vecchi muoiono! Il conservatorismo del potere, invece, sa bene come riprodursi.
Poche parole, per finire, su “come” può avvenire il ricambio. La storia ci insegna che il rapporto fra generazioni, pur essendo sempre proficuo, non è mai idilliaco. Dalla mitologia degli dei che divorano i propri figli a quella di Alessandro Magno, eroe inventore del mito del potere della giovinezza, che però esiste solo emancipandosi dal padre, fino alle imprese eroiche di generazioni giovani come quelle della prima e della seconda guerra mondiale, che si emancipano nell’Olocausto del secolo che li precede, arriviamo con buone ragioni al più recente dei grandi conflitti generazionali, il Sessantotto. Questione di numeri: la baby boom generation dei nati dopo la guerra era così numerosa da seppellire la precedente quasi automaticamente. Ed è infatti ancora a  quella generazione che bisogna far riferimento, dal momento che essa si è trasformata oggi nel suo esatto contrario: una massa di vecchi che ostacolano il nuovo.
Ma quella generazione è nei posti che occupa perché negli anni Sessanta, appunto, di destra, di sinistra o qualunquista che fosse, li conquistò e occupò con operazioni quasi militari. Nessuna generazione prima, e certamente dopo, ha avvertito con tale chiarezza la necessità di conquistare il potere come base per fare quello che voleva del mondo. Tornando al giornalismo: sarebbe certo istruttivo e divertente rivisitarne la storia degli ultimi trent’anni in questa chiave.
Così, quando sento parlare di quote o di indirizzi politici per garantire un ricambio generazionale, quello è davvero l’unico momento in cui mi stupisco. In questo modo, in effetti, i giovani non chiedono il cambiamento, chiedono (spesso in maniera anche educata) che il potere venga loro “passato”, grazie a leggi, a decreti e a una certa bontà d’animo della società. Non ci si rende conto che se questo avvenisse, con questi strumenti, non si tratterebbe di cambio ma solo di una ennesima cooptazione?
Ecco, per finire, ho una sola risposta per la mia dirimpettaia giovane: tutte queste discussioni sulla necessità del ricambio sono la prova più eclatante della vostra incapacità. Volete guidare il paese? Fatelo. Massacrateci. Rottamateci. Ma non chiedeteci pure di accettare di andarcene graziosamente. Per quel che mi riguarda seguirò fino all’ultimo il verso di Dylan Thomas: «Do not go gentle into that good night».