Geocultura vs. geopolitica? L'UE, la Russia e il partenariato orientale

Written by Pasquale Ferrara Tuesday, 15 July 2014 09:37 Print

La questione ucraina segna una fase critica dei rapporti fra Unione europea e Russia e riflette la contrapposizione tra due concezioni profondamente diverse delle relazioni internazionali, l’una deliberativa e integrativa, l’altra asimmetrica e fondata sulle aree di influenza. Essa, tuttavia, non rappresenta l’inizio di una nuova guerra fredda; costituisce, piuttosto, un aspetto della transizione di potere a livello mondiale, in cui l’Eurasia gioca un ruolo cruciale. Gli Stati Uniti dovranno rivolgere, inaspettatamente, una rinnovata attenzione al continente europeo, mentre l’UE dovrà riformulare in termini più strategici e di lungo periodo il suo approccio nei confronti dei paesi del partenariato orientale.

 

 

Aveva ragione Kagan1 quando, qualche anno fa, segnalava la circostanza che l’idea del tramonto dello Stato-nazione non era stata che una fugace illusione connessa all’entusiasmo per la fine della guerra fredda? In parte. È certamente vero che gli Stati sono ancora i referenti fondamentali della politica mondiale, ma ciò vale solo in un’accezione molto circoscritta, per quanto fondamentale, che è quella dell’hard power, cioè della politica di potenza (non solo militare, ma anche economica). Se tuttavia si considerano altri ambiti della vita politica internazionale, è evidente che gli Stati fanno molta fatica ad affermare il proprio ruolo di attori principali dello scenario globale: basti pensare alla finanza, alle migrazioni, alla violenza anomica transnazionale come il terrorismo. Da questo punto di vista, l’attuale fase critica nelle relazioni tra Unione europea e Russia costituisce l’epitome di una contrapposizione forse assai più netta e profonda, vale a dire tra una concezione discorsiva e deliberativa delle relazioni internazionali (non per questo necessariamente irenica e disinteressata) e una visione centrata sulle asimmetrie di potere e le aree di influenza. Da una parte, una lettura delle relazioni internazionali attraverso il paradigma “mercati e istituzioni”; dall’altra, una visione di “regioni e (neo)imperi”;2 una divaricazione che non corrisponde affatto, tuttavia, a un cleavage paesi OCSE/non-OCSE. A onore del vero, anche gli Stati Uniti, sebbene si presentino – come ha scritto Ikenberry3 – come un “Leviatano liberale”, fanno del sovranismo un punto irrinunciabile della loro proiezione esterna a livello globale.

Nel merito, l’annessione della Crimea, al di là delle ragioni strategiche che ne stanno alla base, rappresenta un residuo dell’idea che a ogni Stato debba corrispondere una e una sola nazione, e cioè una popolazione omogenea in quanto a lingua, etnia, cultura, tradizioni. Dal Trattato di Versailles in poi, si tratta di un’illusione – quella della perfetta coincidenza tra “Stati” e “nazioni” – che ha provocato solo tragedie umane e politiche. Se vogliamo, era più moderna, paradossalmente, l’architettura multinazionale dell’Impero romano o la Respublica Christiana del Medioevo. Su questo sfondo, quello che appare rilevante nella questione euro-russo-ucraina è che essa, sul piano delle strutture di cooperazione internazionale, si gioca su due livelli diversi, uno connesso all’inclusione della Russia nella governance occidentale, l’altro allo stato di salute e al futuro della politica del partenariato orientale dell’UE. La temporanea sospensione della partecipazione della Russia al G8, nonostante il comprensibile atteggiamento russo teso a minimizzarne il significato, costituisce, in realtà, un passaggio critico nella governance politica di tipo occidentale. In quanto gruppo informale, e non vera istituzione internazionale, il G8 è costituito, in fondo, da “autonominati” e “nominati” e se ne diventa membri in base allo status o alla cooptazione. Proprio questo suo carattere destrutturato aveva consentito, con la fine della guerra fredda, di invitare la Russia a farne parte, senza troppe complicazioni. Tuttavia, nella sostanza, probabilmente la Russia non si era mai fino in fondo integrata in un gruppo che – ricordiamolo – è nato per favorire il coordinamento tra le principali potenze industriali che adottano sistemi economici e politici di tipo occidentale. Dopo gli entusiasmi iniziali, ben presto si era dovuto prendere atto che su molte questioni di politica internazionale, e in particolare nell’ambito della sicurezza, la Russia seguiva una logica nazionale assertiva e autonoma. Tuttavia, la partecipazione della Russia era legata alla prospettiva di una ripartenza nella collaborazione tra Mosca e Washington dopo la caduta del muro di Berlino. Un reset button premuto molto prima che il vicepresidente americano Joe Biden lo enunciasse come un tema centrale della nuova Amministrazione Obama nel febbraio del 2009. Da questo punto di vista, la trasformazione del G7 in G8 aveva assunto un valore politico e simbolico importante. Per questo motivo, benché forse abbia ragione il ministro degli Esteri russo Lavrov quando afferma che “non è una tragedia” per la Russia non partecipare in questa fase alle riunioni del gruppo, in quanto decisione non irreversibile, si tratta di un’involuzione rilevante, che ha anch’essa un valore altamente simbolico. Inoltre, dopo l’annessione della Crimea la percezione della Russia sul piano internazionale non sarà più la stessa; le ripercussioni si faranno sentire non solo in Europa orientale, ma in tutta l’Eurasia e a livello mondiale. Nel mondo contemporaneo non contano più solo il potere militare o economico; conta altrettanto, e in modo strutturale, l’identità di un paese in quanto membro responsabile e affidabile della comunità internazionale.

Non è un caso che Europa e Stati Uniti abbiano avviato una riflessione concreta sulla riduzione della dipendenza da Mosca per le risorse energetiche (che è reciproca: l’80% delle forniture russe di gas naturale è acquistato dall’Europa).4 In prospettiva, la questione della Crimea costringerà gli Stati Uniti a rifocalizzarsi sull’Europa e non solo sull’Asia come area d’interesse strategico ed economico per Washington. Una prova di questo rinnovato interesse è data dal rilancio del negoziato per la conclusione di un grande accordo di libero scambio e cooperazione economica tra l’Unione europea e gli Stati Uniti (il TTIP – Transatlantic Trade and Investment Partnership). È azzardato e infondato parlare di una nuova guerra fredda; siamo piuttosto in una fase di “transizione di potere” a livello mondiale. Le grandi potenze, inclusa la Russia, dovranno fare i conti con cambiamenti strutturali; le ambizioni egemoniche, come sempre, non possono prescindere dalle reali capacità e, soprattutto, dalla loro sostenibilità pratica e politica. Con questa chiave di lettura si può leggere anche il recente accordo per la fornitura di gas tra Russia e Cina (per la fornitura trentennale di metano, pari a trentotto miliardi di metri cubi all’anno, attraverso la costruzione di un gasdotto lungo 2200 km dalla Siberia alla Cina orientale), che consente a Mosca, in teoria, di mettersi al riparo da cadute nella domanda occidentale di energia dalla Russia, peraltro ben lungi dal divenire reali.

La questione ucraina farà sentire i suoi effetti anche sull’atteggiamento dell’Unione europea verso i paesi posti alla sua “frontiera” orientale. In realtà, il drammatico precedente della crisi russo-georgiana del 2008 avrebbe dovuto rappresentare un ineludibile riferimento anche per la vicenda ucraina. Si tratta, sicuramente, di situazioni assai differenti, legate l’una alla volontà americana di mantenere saldamente la Georgia nel campo occidentale (Dick Cheney era il più convinto assertore di tale linea d’azione), l’altra all’inserimento dell’Ucraina nel contesto di una politica di liberalizzazione degli scambi con l’Unione europea. Ciò che accomuna le due vicende è una netta sottovalutazione della percezione russa di tali politiche integrative, che sono invariabilmente lette a Mosca in chiave sistemica e sicuritaria, e cioè come altrettanti tentativi di avanzare gli avamposti dell’Occidente alle porte della Russia. In questo contesto, appaiono poco illuminate le tesi volte a sostenere una strutturale appartenenza dell’Ucraina all’area euro-occidentale (se non addirittura all’area euro-atlantica), giungendo a ipotizzare una possibile adesione di Kiev all’UE. Intendiamoci: in politica internazionale è difficile escludere a priori un esito di questo tipo, ma perché ciò si verifichi si dovrebbero innescare profonde trasformazioni non solo a Mosca, ma anche a Kiev e a Bruxelles. Giusto per ricordare una reale criticità, nello stato di debolezza in cui si trovano oggi le istituzioni dell’Unione è assai difficile sostenere la plausibilità storica e politica di tale prospettiva, anche in considerazione del fatto che un candidato storico all’adesione, e cioè la Turchia, è ancora in sala d’attesa e presumibilmente vi rimarrà a lungo.

È stato, poi, un errore strategico configurare in termini alternativi e non piuttosto complementari l’accordo di associazione dell’Ucraina all’Unione europea e la partecipazione all’Unione economica eurasiatica tra Russia, Kazakistan e Bielorussia (che entrerà in vigore il 1° gennaio 2015), con una possibile futura adesione di Kirghizistan e Armenia. Non è detto, come emerge dalla retorica dei firmatari, che tale accordo sia destinato a inaugurare il “secolo eurasiatico”; tuttavia, la posizione dell’Ucraina si fa, se possibile, ancora più difficile, in quanto rischia di subire conseguenze rilevanti in termini di mancata integrazione nel quadro degli scambi commerciali ed economici in un’area che semplicemente non può ignorare, se non altro per ragioni di contiguità geografica.

La questione ucraina, a differenza delle transizioni arabe, e in particolare della crisi libica, ha coinvolto l’Unione europea sin dall’inizio; anzi, per molti aspetti l’UE è stata causa (involontaria) e soggetto del confronto in atto non solo nel paese, ma con la stessa Russia. Tuttavia, rimane da dimostrare che proprio da questo fallimento possa nascere una nuova consapevolezza per una politica estera europea. In ogni caso, l’Unione non si è frammentata come nel caso dell’Iraq nel 2003 o della Libia nel 2011. Se è vero che il ruolo prominente è stato svolto dalla Germania, è anche vero che gli Stati membri sembrano aver compreso, in questo caso, che la gestione della crisi non potesse essere configurata al di fuori – quanto meno – di un coordinamento effettivo delle posizioni nazionali.

Nel suo famoso libro pubblicato nel 1996 sullo scontro delle civiltà, Samuel Huntington5 descriveva l’Ucraina come un paese culturalmente lacerato, identificando una linea di frattura interna tra la parte occidentale e quella appartenente alla più vasta area della civiltà cristiano-ortodossa, profetizzando, nel medio-lungo periodo, un’incorporazione di essa nella Russia. L’Ucraina filo-occidentale, tuttavia – argomentava Huntington – avrebbe rappresentato un’entità politica sostenibile nella misura in cui l’Occidente le avesse assicurato un sostegno incondizionato, ma ciò sarebbe stato plausibile solo nello scenario di un forte deterioramento nei rapporti tra l’Occidente e la Russia, secondo fattezze che avrebbero finito per assomigliare a quelle tipiche della guerra fredda. Si è molto dibattuto se gli eventi del 2014 possano essere letti come una conferma delle previsioni di Huntington. Il punto vero non riguarda, tuttavia, se e come Huntington avesse ragione in assoluto riguardo all’Ucraina. Si tratta piuttosto di capire se quella civilizzazionale sia la prospettiva giusta, o se non sia invece quella dell’ideologia liberale della fine della storia di Fukuyama6 a trovare applicazione. Da questo punto di vista, e semplificando al massimo, si potrebbe concludere che a Mosca si legge Huntington, a Bruxelles si legge invece Fukuyama. Il punto è comprendere che, nei suoi rapporti con l’Europa orientale, l’UE non può pensare di applicare tout court l’ordine liberale; l’operazione è (parzialmente) riuscita con il grande allargamento del 2004, ma trova resistenze sia politiche che sistemiche man mano che ci si allontana da Bruxelles. D’altra parte, tale ordine è oggi messo in discussione persino nei paesi fondatori (Francia, Olanda, in qualche misura anche in Italia e Spagna) e appare arduo continuare a proporlo, senza profonde innovazioni, come il modello sociale europeo.

Occorre, inoltre, evitare che la questione euro-russo- ucraina rinfocoli l’annoso, sterile e stucchevole dibattito sui confini dell’Europa. La confusione dei livelli di interazione tra Europa, Unione europea e Eurasia rischia di ridurre il confronto a una questione di identificazione geopolitica, mentre ciò che è davvero in gioco è la dimensione della geocultura, come suggeriva Wallerstein.7 I due polmoni dell’Europa (quello occidentale e quello orientale) si sono riunificati, ma i due modelli di struttura di cooperazione politica internazionale, integrativo e statocentrico, rimangono ancora distanti; ed è una storia che attraversa, pur con modalità diverse, la stessa Unione europea. Il vero scontro delle civiltà, se proprio occorre indentificarne uno, è forse questo.

 


 

[1] R. Kagan, Il ritorno della storia e la fine dei sogni, Mondadori, Milano 2008.

[2 D. Finon, C. Locatelli, Russian and European Gas Interdependence: Could Contractual Trade Channel Geopolitics?, in “Energy Policy”, 1/2008, pp. 423-42.

[3] G. J. Ikenberry, Leviatano liberale. Le origini, le crisi e la trasformazione dell’ordine mondiale americano, UTET Università, Torino 2013.

[4] U.S. Energy Information Administration, Russia, disponibile su www.eia.gov/countries/analysisbriefs/Russia/russia.pdf

[5] S. Huntington, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, Simon & Schuster, New York 1996 (trad. it. Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2006).

[6] F. Fukuyama, The End of History?, in “The National Interest”, estate 1989.

[7] I. Wallerstein, Geopolitica e geocultura. Saggi sull’evoluzione del sistema-mondo, Asterios, Trieste 1999.

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