L’etica della politica e la responsabilità dell’esercizio del potere

Written by Stefano Levi Della Torre Thursday, 03 May 2012 15:35 Print

La democrazia gode di buona salute se è animata da ambizioni storiche di giustizia sociale, di libertà individuale e di partecipazione collettiva. Se il ceto politico manca di tali ambizioni e si ripiega su interessi privatistici, personali e di partito, è segno che la democrazia sta degenerando.

 

«È confermato da ogni esperienza storica che
non si realizzerebbe ciò che è possibile se nel mondo
non si aspirasse sempre all’impossibile»
Max Weber, La politica come professione, 1919

Se ogni parlamentare guadagna in Italia quanto o più di dieci lavoratori il fatto è grave non tanto per il dispendio sproporzionato di risorse pubbliche, quanto e soprattutto perché una tale condizione di privilegio finisce per ottundere negli eletti la capacità di comprendere le condizioni di vita della maggioranza degli elettori. Come osservava Marx, la condizione sociale finisce per determinare la coscienza sociale, e dopo un po’ che si guadagnano dodici o quindicimila euro al mese, sembrerà sempre più opaca la percezione di chi ne guadagna mille. Il privilegio si riconosce molto più facilmente nel privilegio che non nella deprivazione, perciò il privilegio parlamentare inquina la funzione di rappresentanza dei rappresentanti. E se l’alta retribuzione parlamentare risulterà (come risulta) indipendente dalla qualità delle prestazioni, si attiverà una selezione al peggio del personale politico, in cui prevarrà chi aspira a un proprio vantaggio privato su chi ambisce a svolgere una funzione pubblica e ideale. Che poi il potere legislativo possa deliberare circa i propri emolumenti ci dice che chi entra in Parlamento si trova automaticamente in “conflitto di interessi”. Come combatterà il privilegio chi si trova in condizioni di privilegio? E come combatterà il conflitto di interessi chi si trova istituzionalmente in conflitto di interessi?

Si è sapientemente teorizzato sull’“autonomia del politico”, ma se tale autonomia è autoreferenzialità, autonomia dagli interessi pubblici e collettivi, allora l’autonomia del politico non è altro che l’antipolitica, l’accaparramento privatistico della funzione pubblica. Ma un altro risvolto dell’autonomia del politico si rivela nel tema della “governabilità”. L’insistenza sulla governabilità, cioè sui favori offerti per legge alle coalizioni di governo perché possano prendere decisioni magari ad arbitrio, sembra in questi anni crescere quanto più decresce la capacità dei partiti di rappresentare gli interessi sociali e il bene comune: governabilità non in funzione della rappresentatività, ma in cambio di essa. Ciò si manifesta nello scollamento crescente tra movimenti sociali e partiti; nonché nel fatto che i partiti si affannano a parlare troppo di se stessi, dei propri rapporti interni e delle alleanze coi propri simili, cioè con altri partiti, piuttosto che di obiettivi storici da raggiungere, mentre i movimenti sociali oscillano tra interessi particolari o localistici e grandi prospettive per la collettività o per il mondo.

La democrazia è in salute quando è animata da grandi ambizioni (di giustizia sociale, di partecipazione politica collettiva, di libertà personale, di creatività economica e culturale): quando insomma è sospinta e mossa da un’ambizione storica. Ma se i partiti e il ceto politico si affaticano nella propria autoconservazione, o nella gestione del proprio “particulare” privilegiato, se ad esempio l’aspirazione di un faccendiere di governo è quello di disporre di una Maserati o di un alloggio che guardi il Colosseo, vuol dire che manca l’ambizione, cioè l’immaginazione, il progetto e la prospettiva storica. Corruzione e clientelismo sono un indice della mancanza di ambizione storica; mentre la qualità etica della politica non è un orpello di moralisti, ma l’indice di una ambizione storica necessaria alla vitalità di una democrazia, e non soltanto un indice ma un suo fattore essenziale.

Bettino Craxi ha rappresentato un perno di mutazione del sistema politico italiano. Quando nel 1992 il suo accolito Mario Chiesa fu colto in flagrante corruzione, parlò di un’eccezione (in gergo, «una singola mela marcia»), ma poi cambiò completamente versione: «Così fan tutti», disse. Tutti i partiti ricorrono alla corruzione per finanziarsi. Ma “così fan tutti” risultò recare un significato più ampio: la corruzione, la raccomandazione ecc. hanno dimensione sociale. I partiti non fanno altro che approfittare di una rendita di posizione a cui ogni cittadino aspira nei limiti delle sue possibilità private. La dottrina del “così fan tutti”, quasi rivendicata come spirito di una moderna democrazia liberale, che dopo la caduta del muro di Berlino tra Est e Ovest nel 1989 si scrollava di dosso i moralismi dei sistemi ideologici del passato, recava in sé una mutazione nella funzione stessa dei partiti. Tradizionalmente, e segnatamente nel dopoguerra, i partiti avevano svolto, nel bene e nel male, il compito di educare le masse alla politica: ambivano a esserne guida. Ora, sotto l’insegna del “così fan tutti” si proponeva una diversa aspirazione: quella di aderire agli umori, agli usi e costumi diffusi nella popolazione. Non si trattava più tanto di rappresentare interessi sociali diversi indirizzandoli verso obiettivi storici collettivi, buoni o cattivi che fossero, quanto di diventare specchi della società così com’era; di rappresentare non più le prospettive storiche delle diverse classi sociali, ma lo spirito privatistico dei singoli. I partiti si facevano specchio e non guida: la rappresentatività e il consenso captati per aderenza allo stato delle cose, alle speranze e interessi privati o corporativi, piuttosto che alle speranze e alle prospettive storiche. Conferma e legittimazione di ciò che si è nell’immediato, piuttosto che indicazione di ciò che si può diventare: questo era lo spirito della conservazione populistica, l’ideologia “antideologica” che l’era berlusconiana ha compiutamente incarnato, fin nel suo strato antropologico. Paradossalmente, la lunga durata di Berlusconi si è basata sulla vellicazione degli interessi più immediati, poggianti però sugli stereotipi e sui “più antichi mestieri del mondo”, cioè la prostituzione morale e fisica; sul “sincero realismo” dell’immoralità contro il “moralismo ipocrita” dell’etica. In uno dei suoi aforismi seicenteschi più folgoranti, François de La Rochefoucauld definiva l’ipocrisia «l’omaggio che il vizio reca alla virtù»: l’ipocrita cioè si riconosce ufficialmente nello stesso sistema di valori dei virtuosi, anche se poi lo contraddice in pratica. Il regime democristiano abbondava di ipocrisie, e tuttavia si riconosceva in una comune civiltà, sì che anche sotto di esso il sistema democratico aveva potuto consolidarsi. L’era berlusconiana esprimeva invece una civiltà altra, sicché non raggiungeva neppure la civiltà dell’ipocrisia, non recava alcun omaggio alla virtù, anzi la dileggiava. Talché il suo tasso di ipocrisia era relativamente basso: nulla di più esplicito e sincero, ad esempio, delle leggi ad personam. Così fan tutti, così farebbero tutti se ne avessero il potere. Eredità di Craxi.

Nel suo momento, il Partito socialista di Craxi aveva davanti a sé una formidabile occasione storica: da un lato il crollo dell’URSS e la crisi del PCI, dall’altro un logoramento della DC. Avrebbe potuto rappresentare una nuova prospettiva storica per la sinistra in un’Italia proiettata verso l’Europa, ma scelse invece di ripiegare sul “così fan tutti”, sulla constatazione dei fatti piuttosto che sulla trasformazione sociale. Non avanguardia, ma cupola dei comportamenti diffusi, la rendita del potere piuttosto che il suo investimento in una nuova prospettiva. Fu così che distrusse il Partito socialista e la sua tradizione. Ripiegò su ambizioni privatistiche, personali e di partito, mancò di ambizione storica, e fallì l’occasione che la storia gli offriva.

Quanto alla meschina ambizione privatistica, non storica, che si manifesta nella cronaca della corruzione cronica, così ne scrive Alexis de Tocqueville: «Penso che gli arrivisti delle democrazie siano quelli che si preoccupano meno di tutti gli altri del futuro: soltanto il momento attuale li preoccupa e li assorbe. Essi (…) amano il successo più che la gloria. Ciò che desiderano soprattutto è l’obbedienza. Ciò che vogliono soprattutto è dominare». E continua: «Confesso che mi fa molto meno paura, per le società democratiche, l’audacia che non la meschinità dei desideri; ciò che mi sembra da paventare di più è che (…) l’ambizione possa perdere il suo slancio e la sua grandezza; che le passioni umane si plachino e insieme si abbassino, talché l’andamento di tutto il corpo sociale si faccia ogni giorno più tranquillo e meno alto».1

Etica è responsabilità, cioè un rispondere, un render conto delle proprie azioni e comportamenti. Ma render conto a chi? A se stessi o al prossimo? Ai principi che si proclamano? Alla collettività, al mondo, al proprio Dio? Ciascuna delle risposte configura un’etica diversa. Non possiamo che riferirci alla famosa conferenza del 1919, in cui Max Weber distingueva due polarità dell’etica, quella dei principi e quella delle responsabilità. Da un lato la fedeltà inderogabile ai propri valori, indifferente alle conseguenze per sé e per gli altri; dall’altro l’accento sugli obiettivi che ci si propone, magari con una certa indifferenza per la qualità morale dei mezzi per conseguirli. Nell’esemplificare il conflitto tra queste due tipologie dell’etica, Weber ricorreva all’episodio de “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij, in cui il Grande Inquisitore, in nome delle proprie responsabilità politiche nel conservare gli equilibri sociali, condanna a morte Gesù redivivo, che con la sua fermezza sui principi e sulla verità minaccia l’ordine e la governabilità. Il Grande Inquisitore ritiene di dover render conto alla stabilità e conservazione sociale, dove la religione è “instrumentum regni”, mentre Gesù rappresenta nel suo silenzio colui che intende render conto alla volontà divina fino alle estreme conseguenze del martirio («Non la mia, ma la tua volontà sia fatta», Luca 22,42). Il Grande Inquisitore è animato dall’etica della responsabilità, Gesù dall’etica dei principi.

Delle due polarità dell’etica, l’una riguarda le premesse, l’altra le conseguenze dell’agire; l’una è fermezza sui principi malgrado le conseguenze, l’altra è fermezza dei fini malgrado i mezzi necessari a conseguirli. Hanno ciascuna i propri punti alti e le proprie degenerazioni. L’etica della responsabilità può ispirare ogni genere di compromesso, con la mafia, ad esempio, in nome della governabilità (è il caso, per citarne uno tra i tanti, di Andreotti); mentre l’etica dei principi può degenerare nel narcisismo delle proprie ragioni, o nel sacrificare i diritti altrui per la salvezza della propria anima (i famosi “principi non negoziabili” della gerarchia cattolica), o nel fondamentalismo religioso o ideologico.

Ora, nell’azione politica, l’etica è in primo luogo quella della responsabilità, in quanto riguarda la qualità dei fini che si perseguono, e in secondo luogo è quella dei principi, che tempera il cinismo dei mezzi necessari per realizzare i fini.

L’essere contro il potere non è di per sé una virtù. Può essere un esimersi dalle responsabilità. L’etica della politica riguarda la gestione di una responsabilità sociale, e la gestione di una responsabilità implica la gestione di un potere, istituzionale o in quanto forza e mobilitazione collettiva. L’etica della politica implica sempre la responsabilità dell’esercizio di un potere.

Diceva Hannah Arendt che il consenso a un potere permane, malgrado la sua eventuale ingiustizia, corruzione o ferocia, fintanto che le sue funzioni e i suoi obiettivi sociali siano ancora visibili, poi decade, in forma lenta o catastrofica, preparando un ricambio. Il fine giustifica i mezzi? Questa massima che si può solo con cautela desumere dal “Principe” di Machiavelli dice una cosa essenziale: che la qualità di una politica è prima di tutto determinata dalla qualità dei suoi fini. Ma la democrazia è insieme un mezzo e un fine da realizzare. Nella democrazia fini e mezzi trascolorano gli uni negli altri: il metodo democratico implica l’attivazione dei cittadini, ma l’attivazione dei cittadini è il fine stesso della democrazia; la democrazia implica l’uguaglianza dei cittadini (nel voto, di fronte alla legge, nei diritti), ma l’uguaglianza dei cittadini è il fine sociale della democrazia.

 


 

[1] A. de Tocqueville, De la démocratie en Amérique, 1835.
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