Ken Loach: il racconto per immagini della working class

Written by Alberto Crespi Thursday, 26 October 2017 16:35 Print

Ken Loach è un uomo profondamente di sinistra, che ancora usa senza il minimo imbarazzo e senza virgolette l’espressione working class, volendo indicare con essa quella categoria di persone ad altissimo rischio di povertà, di emarginazione sociale, di esclusione sempre più crudele dal mondo del lavoro. Tutte le storie da lui narrate sono imperniate su rapporti conflittuali tra le classi. In questa lotta tra lavoratori e padroni, tra sopraffattori e oppressi, Loach non esita un momento a schierarsi con i più deboli.

Alla recente Mostra di Venezia è stato presentato, in concorso, un film intitolato “Lean on Pete”. È diretto da un inglese quarantaquat­trenne, Andrew Haigh – e questo è il primo motivo per cui lo usia­mo come pietra di paragone per addentrarci nell’universo politico di riferimento di Ken Loach, inglese di 81 anni, nato il 17 giugno 1936 nel Warwickshire, laureato in legge a Oxford e cresciuto nel mondo creativamente felicissimo della BBC degli anni Sessanta e Settanta. Haigh ha radici diverse da quelle di Loach, a cominciare dal dato – tutt’altro che secondario – di essersi diplomato in cinema alla Los Angeles Film School. Inoltre il suo “Lean on Pete” è girato e ambientato negli Stati Uniti. Ma questo è in realtà il secondo legame fra i due: l’aver lavorato negli USA mantenendo intatta la propria identità. Anche Ken Loach ha girato un film negli Stati Uniti: “Bread and Roses”, del 2000. Chi non lo ricorda potrebbe pensare: ecco, anche il compagno Ken Loach ha ceduto alle lusinghe di Hollywood come altri illustri britannici prima di lui, da David Lean ad Alfred Hitchcock, da Karel Reisz a Ridley Scott (per non parlare di Charlie Chaplin, che pur lavorando per quasi quarant’anni a Hollywood non abbandonò mai il passaporto di Sua Maestà). In realtà “Bread and Roses”, pur interpretato da un (futuro) premio Oscar come Adrien Brody, non era affatto un film “hollywoodiano”. Semmai era un film profondamente “antihollywoodiano” per come raccontava l’altro lato di Sunset Boulevard: non i lustrini della Mecca del cinema, ma la dura vita di coloro che, quei lustrini, devono luci­darli in cambio di stipendi da fame. Era un film sui janitors, sugli uo­mini e le donne delle pulizie che ogni giorno rimuovono la sporcizia che il capitalismo lascia dietro di sé. Film tra l’altro profondamente “sindacale”, secondo un filo rosso che nella carriera di Ken Loach ri­emerge di continuo: il racconto delle ingiustizie che i lavoratori subi­scono e delle lotte per cancellare, o almeno attenuare, tali ingiustizie. Loach, per la cronaca, è un uomo che ancora usa senza il minimo imbarazzo, e senza virgolette, l’espressione working class. Va detto che in Inghilterra, e nella lingua inglese, le definizioni di classe hanno un senso politico e semantico ancora molto forte. La working class ha un senso preciso, che è più vasto di quello che per noi italiani indi­ca l’espressione “classe operaia”. Sarebbe più giusto tradurla “classe lavoratrice”. In realtà è qualcosa che sta nel mezzo, e ha – come si accennava – un senso politico forte: per gli inglesi è altrettanto chiara e pregnante la definizione di middle class, ed è ovvio che anche gli esponenti della classe media (impiegati, colletti bianchi, liberi pro­fessionisti, apparato dello Stato) lavorano. La verità è che, in bocca a Loach e agli anglofoni di sinistra come lui, working class indica una categoria di persone ad altissimo rischio di povertà, di emarginazione sociale, di esclusione sempre più crudele dal mondo del lavoro. La traduzione “classe sfruttata” diventa allora più pertinente.

Sul lessico di Ken Loach, nei film e soprattutto nella vita, torneremo. Prima c’è un’ultima cosa da dire su “Lean on Pete”, il film di Andrew Haigh dal quale siamo partiti. Il titolo è il nome di un cavallo. Esat­tamente come “Kes”, titolo di un bellissimo film di Loach (1969), era il nome di un falco. E su questa coincidenza zoologica è oppor­tuno soffermarsi.

Lean on Pete è un cavallo da corsa che diventa l’unico amico di Charley, adolescente americano di famiglia povera e proveniente da un contesto sociale estremamente difficile. Vive con un padre giova­ne e scapestrato, dedito all’alcol e a frequentazioni femminili promi­scue e discutibili. La madre è morta. L’unica àncora familiare è una fantomatica zia, trasferitasi altrove da parecchio tempo, della quale il ragazzo parla sempre senza sapere nemmeno dove vive. Nelle sue giornate raminghe, Charley trova inopinatamente un lavoro. Del, un uomo che si arrangia nel sottobosco dei rodei e degli ippodromi di paese, lo assume come tuttofare. Del ha due cavalli, uno dei quali si chiama appunto Lean on Pete. Il ragazzo si affeziona al cavallo come a un fratello, e gli sviluppi della trama lo porteranno a compiere con lui una sorta di viaggio iniziatico (con esiti drammatici) nella provincia profonda del Nord-Ovest americano. La cosa importante è che Charley e Lean on Pete sono entrambi degli sfruttati. Dei sotto­proletari, potremmo dire. Il cavallo viene regolarmente drogato dal proprietario in vista delle corse, e riceve un trattamento tutt’altro che “umano”. Tutta la mitologia della simbiosi uomo/cavallo, veicolata da centinaia di film western, viene rovesciata in una parabola in cui gli animali sono puri strumenti di profitto, e affezionarsi a loro non è nemmeno contemplato.

Qualcosa di simile avveniva in “Kes”. Anche in quel film il protago­nista Billy era un adolescente con una difficile situazione familiare; l’affetto per un animale compensava l’impossibilità di rapporti uma­ni autentici; l’estrazione sociale rigorosamente working class era l’im­prescindibile contesto della storia. L’amicizia tra un ragazzino dello Yorkshire (per inciso, la regione dell’Inghilterra del Nord dove Andrew Haigh è nato) e il fal­chetto addestrato alla caccia diventava, anche lì, una storia imperniata sui rapporti di classe. In fondo, la forza del cinema di Ken Loach è tutta lì: tutte le sue trame, tutte le sue storie – quasi sempre, almeno da vent’anni a questa parte, sce­neggiate dallo scozzese Paul Laverty conosciuto in occasione del film “La canzone di Carla”, am­bientato in Nicaragua – partono dai rapporti di classe tra i personaggi. Quella che gli inglesi chiamano class conscious-

ness, e che potremmo tradurre come “consapevolezza” delle diffe­renze sociali fra le persone, è centrale nel suo cinema. Non esiste un film di Ken Loach in cui non sia chiaro che lavoro fa il protagonista, quali problemi economici ha, quali rapporti di potere, di sfrutta­mento e/o di subordinazione intrattiene con gli altri personaggi. Ma questa precisione sociologica – che al cinema spesso si traduce in pesantezza, o in eccessivo fardello ideologico – non impedisce mai ai personaggi di essere autentici, umani, credibili. I film di Loach non hanno paura di essere, a volte, dei teoremi con funzioni sociali fortemente definite e connotate (lo sfruttatore e lo sfruttato, il ricco e il povero, il cattivo e il buono). Ma tali teoremi, tali categorie sono sempre sapientemente umanizzate. Riguardano delle persone, più che dei personaggi.

“Io, Daniel Blake” è forse la dimostrazione più lampante di questa ipotesi. Non è casuale che anche questo film così potente e scarnifi­cato, Palma d’oro a Cannes nel 2016, contenga nel titolo un nome. Come “Kes”, come “Cathy Come Home”, come “My Name Is Joe”, come “Carla’s Song”, come “Looking for Eric”, come “Jimmy’s Hall”. Non è solo l’intento, magari inizialmente inconscio e divenuto con­sapevole nel corso del tempo, di comporre una galleria di ritratti della working class britannica. È una vera dichiarazione di poetica e di politica, l’opposto di ciò che teorizzano i signori della guerra

– ovvero, la “spersonalizzazione” del nemico come unica condizione perché i soldati possano sparare sui propri simili. È anche l’opposto di ciò che si dice, a volte, ai bambini: non dare un nome a un cane o a un pesce rosso, perché poi ti ci affezioni. Invece nel mondo di

Loach anche un falco ha un nome (come il cavallo di “Lean on Pete”). Il nome è una patente di umanità e di esistenza, è ciò che trasforma una “persona drammatica” in una persona vera.

In “Per un pugno di dollari” di Sergio Leone il personaggio di Clint Eastwood non ha un nome. Capita spesso, nei western, con i per­sonaggi di cavalieri solitari e mortiferi, o portatori di vendetta. Nei film di Ken Loach tutti hanno un nome e lo dichiarano a voce alta. In “Io, Daniel Blake” la rivendicazione dell’identità da parte del pro­tagonista è un gesto politico forte e disperato: è l’estremo tentativo di dire “io esisto, ho un nome e un cognome, ho dei diritti” rispetto a una società che punta – come in una struttura militarizzata – alla spersonalizzazione.

Quando ho intervistato Ken Loach su quest’ultimo film, gli ho con­fessato il nostro stupore di fronte a un sistema sociale un tempo ce­lebre per il welfare e per le libertà individuali (era famoso, e per noi italiani stupefacente, il fatto che in Gran Bretagna non fosse obbli­gatorio avere la carta d’identità) e oggi trasformatosi in un incubo burocratico e oppressivo. Come sempre, Loach ha ribadito che lui e Laverty avevano compiuto un accurato lavoro di ricerca sul campo, e che il film descriveva situazioni reali e nient’affatto estreme. Per Loach il motivo di tali squilibri sociali è sempre lo stesso, e affonda le radici in una fase storica molto precisa: il thatcherismo (Margaret Thatcher è stata primo ministro della Gran Bretagna dal 1979 al 1990), il durissimo sciopero dei minatori tra il 1984 e il 1985, la fine del sistema di solidarietà sociale che aveva permesso alla Gran Bretagna di risollevarsi dopo la difficile prova della seconda guerra mondiale.

Ho intervistato Loach molte volte nell’arco di quasi trent’anni, film dopo film: è stato il primo cittadino britannico al quale abbia sentito esprimere dubbi sulla figura di Tony Blair. Tutti ricordano quanto la sinistra italiana abbia festeggiato la prima vittoria elettorale di quel giovane leader laburista nel 1997: Loach, pur condividendo la gioia per la sconfitta dei conservatori, sosteneva fin da allora che Blair era un laburista molto diverso dagli Attlee e dai Wilson del passato, e che l’idea di una sinistra “moderna” e “leggera” avrebbe condannato il Labour a somigliare sempre di più alla sua naturale contropar­te politica, ovvero ai Tories. In parallelo, posso testimoniare anche quanto Loach intervistasse a sua volta… me!, sapendo che lavoravo per “l’Unità” (giornale che conosceva benissimo). Per Loach, i co­munisti italiani erano eredi di una tradizione politica alla quale i comunisti britannici, da sempre orgogliosi esponenti di una piccola minoranza, guardavano con speranza e ammirazione. Fin dai tempi della Bolognina, ogni volta che si incontrava Loach arrivavano ansio­se domande su cosa stesse combinando, in Italia, la sinistra. Era (è) sinceramente angosciato, e ammoniva a pensarci due volte prima di recidere le nostre radici e di perdere il legame con le classi subalter­ne, con gli sfruttati, con le vittime che il capitalismo selvaggio lascia inevitabilmente sulla propria strada.

Ai tempi dell’“Unità 2” diretta da Walter Veltroni, durante la Mostra di Venezia, era invalsa la bella usanza (faticosa, ma bella) di chiede­re ad artisti e cineasti presenti alla Mostra l’editoriale che la prima pagina del secondo dorso del giornale ospitava quotidianamente. Molto spesso si trattava di editoriali “raccolti”, come si dice in gergo giornalistico: uno di noi parlava con l’artista prescelto, scriveva il pezzo, lo faceva rileggere all’interessato e poi, visto, si stampi! Ebbi il piacere, in quegli anni, di raccogliere un intervento di Ken Loach, che fu in concorso a Venezia con “La canzone di Carla” nel 1996 e aveva precedentemente ricevuto il Leone d’oro alla carriera nel 1994. Per lui era un grande onore. Per il giornale, anche di più. Dopo aver scritto il pezzo che mi aveva per così dire “dettato”, tornai da lui per rileggerglielo, in inglese. Andava benissimo. Chiese un solo cambiamento: tutti gli “io” che il testo conteneva dovevano diventare altrettanti “noi”, tutti i “mio” altrettanti “nostro”. “Not me, we. Not my film, OUR film”. Per lui parlare di cinema ha senso solo al plu­rale. Dove per “noi” si intende lo sceneggiatore Paul Laverty e la sua fedelissima produttrice Rebecca O’Brien, un’altra compagna dura e pura; ma anche gli attori di volta in volta coinvolti, i tecnici, le mae­stranze. Loach ha un’idea sinceramente “comunista” del cinema, che per certi versi realizza (nella pratica, se non nell’estetica) il sogno del Gruppo Dziga Vertov fondato da Jean-Luc Godard nel 1969, dopo la stagione del Sessantotto e la decisione (successiva a “Weekend”, 1967) di non girare più film narrativi “tradizionali”. Godard e gli altri membri del gruppo, Jean-Pierre Gorin in primis, sostenevano che fosse necessario “non fare film politici, ma fare politicamente dei film”: è uno di quei paradossi godardiani che trovano difficilmente applicazione pratica, ma che Loach ha realizzato (almeno in parte) in tutta la sua carriera. Nello stesso anno in cui Godard e soci fondano il Gruppo intitolato al grande cineasta sperimentale sovietico Dziga Vertov, Loach gira il suddetto “Kes” con la produzione del grande Tony Garnett, già suo compagno di strada nel lavoro per la BBC. Rispetto ai lavori coevi di Godard e di altri cineasti di fine anni Ses­santa (pensiamo a un altro capolavoro britannico del 1969, “If…” di Lindsay Anderson) “Kes” è un film dallo stile semplice e in fondo classico. Questo perché Loach non è radicale come Godard o come i cineasti del Free Cinema (movimento che apprezza, ma del quale non fa parte), né stilisticamente né produttivamente: realizza i propri film inizialmente con la BBC, successivamente appoggiandosi a fon­di televisivi e a coproduzioni conquistate in tutta Europa con il duro lavoro e con l’incessante qualità. Ma è godardiano nella pratica e nell’ideologia: il cinema è per lui un risultato collettivo dal momento in cui lo si pensa al momento in cui lo si vede.

Il passaggio dall’Io al Noi è fondamentale non solo nella pratica pro­duttiva e nella comunicazione, ma anche nella costruzione delle sto­rie, dei film. Ogni personaggio di Ken Loach esiste solo in rapporto alla sua comunità: chi si isola da questa comunità, chi percorre stra­ de individuali, rischia di perdersi. La più perfetta rappresentazione plastica di questo senso della collettività è racchiusa in un film ap­parentemente fra i meno politici della sua filmografia: la commedia

“Looking for Eric”, del 2009. I protagonisti sono un postino dalla vita privata e lavorativa molto complicata, Eric Bishop, interpretato da Steve Evets; e il suo idolo, il famoso ex calciatore francese Eric Cantona, amatissimo in Inghilterra (ha militato nel Leeds United e nel Manches-

ter United) e divenuto uomo di cinema a tutto tondo. Nel finale, per mettere in riga il cattivo di turno, Bishop e i suoi amici organizzano uno squadrone di raddrizzatorti che indossano tutti la maschera di Cantona, e quindi diventano tut­ti altrettanti Cantona. Il rapporto fiabesco che si è instaurato fra i due Eric, il postino e l’ex calciatore (che appare soltanto a lui, per magia, come fossimo in una commedia di Frank Capra) si trasforma in un rapporto sociale, nel quale una collettività dispersa ritrova unità e identità assumendo, per un attimo, una ma­schera mitologica. L’identificazione con un “divo”, sia pure speciale come un campione sportivo, potrebbe sembrare in contraddizione con la filosofia di Loach. Ma bisogna tenere presenti tre fattori. Il primo è la particolarità di Eric Cantona, calciatore-attore che è anche un’icona pop e, per citare John Lennon, un “working class hero” an­che per motivi controversi (la famosa squalifica che gli fu comminata nel 1995 per aver assalito a colpi di kung-fu uno spettatore che l’a­veva insultato). Il secondo è insito nella dinamica stessa della scena: attraverso la metaforica assunzione dell’identità di Cantona, Eric Bi­shop e i suoi amici non si “spersonalizzano”, ma creano al contrario un’identità collettiva molto più forte delle loro identità individuali che non vengono affatto azzerate. Non a caso Bishop, prima di la­sciare al suo destino il delinquente, rivendica il proprio ruolo sociale rivolgendo al malcapitato la battuta più bella e più politica del film: «E non credere di cavartela scappando, io ti troverò dovunque tu vada. E sai perché? Perché io sono un postino!». Il terzo può apparire estrinseco, ma non lo è affatto: l’amore totalizzante di Loach per il calcio, che lo porta a essere soprattutto un appassionato tifoso della nazionale inglese (non tifa invece per alcun club famoso: sostiene con un pizzico di ironia di essere tifoso del Bath City, squadra che milita nella Conference South, un campionato minore di livello in­feriore alla nostra serie D).

Anche su questo punto si può raccontare un curioso aneddoto le­gato, come sempre, a un’intervista: nel 1996 gli Europei di calcio si sarebbero svolti in Inghilterra, trent’anni dopo i primi Mondiali disputati nel paese dove il football è nato. Pubblicammo sulla cita­ta “Unità 2” una doppia intervista a due grandi registi-tifosi, per raccontare il legame profondo tra il calcio e la cultura popolare bri­tannica: Karel Reisz, uno dei grandi del Free Cinema e super-tifoso (in quanto ebreo) del Tottenham, e appunto Loach. Chiamai la sua società di produzione, rispose una segretaria. Disse che mister Loach era molto impegnato nel montaggio del nuovo film “La canzone di Carla” (sarebbe stato in concorso a Venezia pochi mesi dopo) e che non aveva tempo per nessuna intervista. Avrebbe comunque riferito il messaggio. Mezz’ora dopo richiamò Loach in persona: «Al diavolo il montaggio, una chiacchierata sul calcio è molto più divertente», disse. Spiegò che amava il calcio in quanto sport e spettacolo, ma soprattutto perché in Gran Bretagna è lo sport popolare per eccellen­za, a differenza del rugby nato nei college esclusivi della upper class. Il rito del calcio il sabato pomeriggio è il rito fondante della work-

ing class, e un artista di sinistra come Loach non può non amarlo. Molti anni dopo, presentando “Jimmy’s Hall” al festival di Cannes del 2014, Loach si lasciò andare in conferenza stampa a un’afferma­zione spiritosa e spericolata: «Questo è il mio ultimo film – disse –

ho deciso di ritirarmi, soprattutto se l’Inghilterra vincerà i Mondia­li di calcio». I Mondiali erano in programma in Brasile, l’estate di quell’anno, e l’esibizione della nazionale inglese fu catastrofica: su tre partite ne perse due, con Italia e Uruguay, e pareggiò la terza con il Costarica, venendo subito eliminata. Nell’autunno di quello stesso 2014 “Jimmy’s Hall” uscì in Italia e, come sempre, Ken Loach par­tecipò alla trasmissione radiofonica di Radio3 Rai “Hollywood Par­ty”. Gli chiesi, con tono rispettoso e ironico al tempo stesso, come intendeva uscire dall’impasse di quella scommessa dopo il disastro dell’Inghilterra ai Mondiali. Sorrise e rispose: «I think I will have to make a few more little movies», credo che dovrò ancora fare qualche filmetto. Due anni dopo uno di quei “filmetti”, “Io, Daniel Blake”, vinse la seconda Palma d’oro di Cannes (la prima era arrivata nel 2006 per “Il vento che accarezza l’erba”). Loach è stato molte volte a “Hollywood Party”, una trasmissione che apprezza molto… a parte il titolo! Ogni volta ci chiede di togliere la parola “Hollywood”, ed è inutile spiegargli che si tratta del titolo italiano di un divertentissimo film con Peter Sellers che in originale si chiama semplicemente “The Party”. È una piccola rigidità arti­stico-ideologica che si perdona volentieri a un uomo che ha fatto grandi film dimostrando una coerenza e un talento con pochi eguali. Le idee politiche di Loach sono note e al tempo stesso sfumate. Molti lo considerano un trotzkista, ma non è così semplice, fermo restando che i trotzkisti britannici sono meno settari di quelli francesi e più solidi di quelli (pochissimi) italiani.

Dal 2004 al 2016 è stato un sostenitore del Respect Party, a sinistra del Labour, finché quel partito è esistito. Oggi è facile individuare in lui un convinto supporter di Jeremy Corbyn, al quale ha dedicato il documentario “In Conversation with Jeremy Corbyn” (2016). I va­lori politici di Loach vanno oltre il suo essere un laburista di sinistra, e oltre – cosa fondamentale – il suo essere inglese. Diversi suoi film raccontano la lotta degli irlandesi contro la Gran Bretagna mostran­do con chiarezza la crudeltà dell’oppressione esercitata da Londra in quella ex colonia. “Terra e libertà” è un canto dolente sulla guerra di Spagna in cui le divisioni tra comunisti inglesi, anarchici e stalinisti sono raccontate come una tragedia dell’internazionalismo proletario. Loach ha sempre seguito con simpatia e trepidazione le vicende del PCI, e di tutto ciò che il PCI è diventato: conosce benissimo la storia della sinistra italiana, rimpiange (non è l’unico) Enrico Berlinguer e osserva con dolore il suo destino attuale. Vi sembrerà una chiusa banale, ma il suo essere di sinistra significa stare dalla parte degli oppressi, degli emarginati, dei subordinati. Tra un lavoratore e il suo padrone, Ken Loach non avrà mai un dubbio. Perché senza lavoro il mondo non va avanti, e la working class non sparirà mai.