L’Italia velata

Written by Nura Musse Ali Tuesday, 19 December 2017 17:26 Print
L’Italia velata Foto: Dielmann

Il giorno dopo che mio padre mi picchiò non andai a lezione. Mi trascinai fino in cucina per preparare una colazione che non avrei consumato. Sentivo il corpo tutto dolorante. Mi faceva male la testa, il cuoio capelluto. Andai in bagno per controllare la situazione. In camera mia avevo uno specchio più grande, ma temevo che qualcu­no potesse rientrare da un momento all’altro sebbene non aspettassi il ritorno di nessuno della famiglia. Arrivai davanti allo specchio e accesi la luce. Mi tolsi il velo. Addentrai la mano nei capelli e li vidi venire via a ciocche. Guardai con sgomento il ciuffo. Il mio corpo stava andando in decomposizione. Forse alla fine mi avrebbero uc­cisa del tutto. Ripresi a spogliarmi. Mi faceva male dappertutto ma soprattutto la testa e un fianco. Mi rimisi tutto, velo compreso. A un tratto presi il cellulare per scrivere un sms a Ismaele.

«Amore, non vedo l’ora che tu venga, non vedo l’ora che tu venga per gridare il nostro amore a tutti!».

Posai il telefono per prendere il pc. Dovevo assolutamente trovarmi un lavoro e andarmene di casa. Scorsi le varie offerte del giorno. Anche per fare lo spazzino o il lavapiatti bisognava avere almeno una triennale, un biennio di esperienza, inglese fluente e ovviamente l’im­mancabile bella presenza, ovvero non portare il velo, o almeno questa sembrava essere l’interpretazione comune della bellezza secondo gli italiani, perché, altrimenti, non si spiega come mai le giovani donne col velo, pur essendo plurilaureate e non essendo propriamente delle cesse, vengano escluse dalle attività di interazione con il pubblico.

Intanto era passata già mezz’ora dall’invio del mio sms e, come vo­levasi dimostrare, il signorino non aveva ancora risposto. A un certo punto non riuscii più a trattenere le lacrime e, come spesso capita quando sono giù di morale, mi misi a scribacchiare sul mio diario.

«Cara Italia,

ti scrivo per una questione di natura sociale e intendo parlarti a cuore aperto, senza fronzoli di sorta. Per convenienza e privacy mi darò un nome fittizio, pertanto puoi chiamarmi Irma Pledò. Da poco mi è stata concessa la cittadinanza italiana. Studio a Milano, in una delle più prestigiose università del mondo. Vivo con la mia famiglia in una piccola e splendida città della Toscana, e tutto potrebbe dirsi quasi perfetto se non fossi nata da genitori musulmani. Una delle loro in­famie, un po’ come di tutti i musulmani, risiede nel fatto che pensa­no che la fede religiosa venga trasmessa ai figli allo stesso modo del DNA. E ciò comporta che i figli non possano aspirare a essere persone autonome, migliori o anche peggiori di loro, ma la copia dei genitori, che a loro volta sono la riproduzione ringiovanita degli antenati.

In sostanza vogliono che io sia ciò che non sono, quello che non vo­glio essere, senza sapere che abbigliarsi come una montagna informe non serve perché davanti a Dio ciascuno sarà solo e senza veli, se oltretutto esiste dato che io non l’ho mai visto. Possono abbigliarmi come una montagna informe, possono dirmi che non arriverò mai da nessuna parte perché sono una femmina e non un maschio, che se fosse dipeso da loro avrebbero preferito generare solo figli maschi specie ora che sono in un mondo moralmente perduto, l’Occidente appunto, ma io la penserò sempre allo stesso modo, sono sicura che Dio li disprezza.

Come credo tu abbia intuito, io porto il velo ma malvolentieri. E credo che non mi metterai in dubbio se ti dico che come me ci sono molte ragazze, e anche donne di età avanzata, che sono delle prigio­niere nascoste, solo che non osano ribellarsi perché non hanno lo spirito giusto o semplicemente si vergognano di battersi per la loro libertà. In effetti ci vuole molto, moltissimo coraggio ad alzarsi in piedi, gettare il velo e mettere in discussione la volontà del maschio che ha da sempre comandato, anche quando non sembrava, quando le decisioni sulla vita sembravano e sembrano le proprie. Dunque, io mi sento straniera rispetto a me stessa perché non sono me sotto questo indumento che mi copre tutta, che copre i miei ca­pelli che sono una delle cose che amo di più di me. Ebbene sì, Italia, mi è stata concessa la cittadinanza italiana ma sono ancora straniera perché sono velata: sono straniera da me stessa.

A volte mi chiedo se tutti sappiano esattamente cosa sia il velo. Il velo è una prigione amata dalle donne che lo portano o una gabbia indi­struttibile di cui non riescono a liberarsi? In realtà il velo è uno stru­mento, un mezzo per consolidare e rafforzare il potere del maschio sulla donna. Il velo non è solo un vestito, una stoffa, un lenzuolo dal colore deciso e scuro che le donne musulmane hanno scelto di in­dossare in ossequio a una moda senza tempo, ma un abbigliamento obbligatorio dal punto di vista religioso e giuridico. Esso è compli­ce della violenza verso il mondo femminile in quanto, ad esempio, quando una donna viene picchiata dal marito o da qualche altro maschio della famiglia nessuno la può vedere e ci vuole molto coraggio ad andare in questura, a togliere il velo e mostrare le proprie ferite. Così il marito o comunque l’autore del reato si sente ben protetto dall’esclusione e dall’abbandono in cui si trovano le donne.

Da chi pensi che io vada quando mi sento feri­ta? Dove trovo conforto o protezione? Non in amici italiani che sembrano avere timore di me e provano diffidenza verso una persona dall’aspet­to integralista, benché io non lo sia realmente. E sicuramente non nei miei familiari che con le loro parole mi feriscono più di una pioggia di fuoco. E non nel Co­rano dove “leggo” che poiché sono donna valgo la metà dell’uomo e sono stata creata soltanto per compiacerlo. Come vedi, sono sola. E non riesco nemmeno a costruirmi un’esistenza che mi consenta di crescere come persona in modo da divenire una donna solida che possa almeno contare su se stessa.

Come sicuramente saprai, è conforme al diritto islamico picchiare le mogli, le donne in genere, quando queste si allontanano dall’indi­rizzo politico-religioso che l’uomo intende dare alla propria casa. E anche per questo sono giunta alla conclusione che è meglio morire vergine che sposare un musulmano. Come potrei infatti non disprez­zare un uomo che ha collaborato, sia pure indirettamente, al mio essere mutilata fisicamente e nello spirito? Come potrei mai amare un uomo che aspira a mutilare le sue figlie e a cui sembra naturale, se non addirittura piacevole, avere una donna ferita indelebilmente fino nell’intimo?

In realtà io ce l’ho anche con le donne che sposano quegli uomini schifosi che vogliono una donna mutilata e velata, quegli uomini che non hanno alcuna empatia e non hanno vergogna a usare le donne come se fossero delle cose. Del resto però se hanno ragione i sociologi a sostenere che la persona è ciò che mangia, culturalmente parlando, non potrebbe essere altrimenti dato che ciò è il sostrato di fondo del sapere islamico circolante.

Io non riesco a comprendere perché si sia aspettato fino a questo punto per capire che moderazione e integrazione non si trovano dietro a un velo. Anche il dibattito odierno, per lo più femminile – come se il problema non riguardasse anche gli uomini che fino a prova contraria sono stati partoriti da una donna e generano a loro volta future madri –, non prende in considerazione la questione in modo adeguato, non è radicale, come invece dovrebbe essere, perché si tratta sempre di un osservatore esterno. Sembra infatti che le di­rette interessate credano che non parlando del problema questo sarà meno gravoso o che addirittura il loro silenzio possa rendere meno acuto il dolore. E così la problematica è lasciata al giornalismo e ad altri ambiti di scarsa scientificità. Qualche volta mi prende un so­spetto terribile. Forse gli italiani sono egoisti e non vogliono offrire agli altri uomini il bene più alto della vita, quello che non dovrebbe avere nessun prezzo, la libertà. O forse, la libertà, essendo il bene più alto donato dal Creatore al genere umano, nessuno dovrebbe avere la pretesa di offrirla, di concederla.

A ogni modo, io continuo a essere ancora una straniera, ma questa volta sono straniera “solo” da me stessa. Forse non avevo bisogno della concessione, della – vostra – cittadinanza, ma solo di ritrovare me stessa, di essere liberata da questa gabbia di ferro che mi sovrasta ingombrante e potente. Infatti, ritengo che la miglior cittadinanza sia l’essere se stessi. Ahimè, non riesco a liberarmi da sola e così sento il bisogno di un forte appoggio da parte delle istituzioni. Io sogno una legge che bandisca ogni sorta di velo nei luoghi pubblici, nella scuola come nell’università, sui luoghi di lavoro come per strada.

Italia mia, se hai timore di togliere il velo a qualcuna che invece lo ama davvero parlale liberamente e dille: “Io non sono nata velata, il mio abito è tricolore e non so camminare col velo perché ci inciam­po, pertanto (cara persona velata) sei pregata di rientrare nella patria natia per poter sfoggiare i tuoi abiti spersonalizzanti”.

Se mi è permesso dirlo, vorrei anche aggiungere che è assurdo con­cedere la cittadinanza a una persona velata in quanto non è possibile presumere ragionevolmente che sia moderata e integrata. E penso anche che i mezzi attualmente utilizzati per favorire l’integrazione non siano idonei al suo conseguimento. Infatti cambiare (quello che si sta chiedendo agli immigrati, specie a quelli islamici) non è un obiettivo semplice e conseguentemente non può essere raggiunto fa­cilmente. Perciò in questi casi serve una mano ferma. Dico questo perché molti dei miei parenti di sesso maschile sono naturalizzati e tutti denigrano il sostrato di fondo della Costituzione, del mondo dentro cui mi cerco e del quale vorrei vestire lo spirito. Quei sacri versi scolpiti indelebili nella mia mente mi pro­mettono la libertà che anelo e che non ho mai avuto.

In fondo, che cosa è la vita se non una continua ricerca di se stessi e della propria felicità? Ebbe­ne, sotto questo indumento oscuro io non riesco a vedermi, a trovarmi, mi sembra di nasconder­mi, di vergognarmi. Finché sarò velata non riuscirò a iniziare la ricer­ca della strada della mia vita. Ogni volta che faccio qualcosa di cui dovrei essere felice, orgogliosa di me stessa mi ricordo di essere una donna ancora velata e allora scopro di non sapere più chi sono e le mie aspirazioni mi sembrano così lontane. Allora parlo fra me e me per dare un senso al mio essere velata e sono più che onesta se dico che non ho mai trovato una spiegazione che non mi abbia ferita nel profondo anche se non l’ho detto a nessuno prima.

Tuttavia, sempre più paesi europei mi sembra stiano regredendo, tol­lerano o addirittura ammettono il velo e altre forme di privazione delle libertà. Qualche settimana fa sono stata a Londra. Sembrava di essere in un paese islamico. Le donne si muovevano come fantasmi, solo che a differenza di questi ultimi erano vestite di nero. Una cosa scioccante! Sono rimasta sinceramente interdetta quando ho visto così tante bambine velate. Io mi aspettavo un paese civile; credevo di andare in un paese europeo anche nello spirito, dove si persegue in­nanzitutto la libertà e in particolare quella dei più deboli, quella dei bambini e delle donne. Come può un paese ritenersi civile quando promuove o consente che le bambine di sei o sette anni siano velate, considerando che il velo è uno strumento di sessualizzazione poiché fa capire a colei che lo porta che non è altro che una vagina che ispira solo pensieri impuri? Il velo sull’infanzia è la negazione della spensieratezza, della purezza della mente, è la negazione del diritto all’infanzia e all’innocenza.

Il velo invece serve a preparare il giusto terreno per demolire i diritti umani delle donne e non solo di quelle velate. Infatti, gli uomini che velano le loro donne non hanno alcun rispetto verso quelle che non portano il velo (ammesso che rispettino quelle coperte di tutto punto) e le umilierebbero se soltanto ne avessero l’autorità. E non a caso, nei paesi islamici le donne ambasciatrici non incontrano mai i colleghi stranieri perché secondo il loro modo di vedere una donna non è degna di ragionare con un uomo. A mio parere bisognerebbe imprimere un indirizzo politico efficace per rimuovere il problema alla radice. Sono giunta alla conclusione che l’unico modo per “ad­domesticare” gli integralisti sia quello di discriminarli in conformità al principio di reciprocità, specie gli uomini, ai quali si potrebbe dare accoglienza solo qualora mantenessero una condotta irreprensibile verso le loro donne, verso tutte le donne.

Voglio essere libera da questa cultura che continua a opprimermi, a schiavizzarmi. Il mio spirito non riesce più a resistergli con la stessa alterigia di un tempo. Sto per essere sconfitta da questo odio atavico e misogino che è la mia cultura. E tu, Italia mia, non mi stai aiutan­do, perché sembra che tu non voglia bandire il velo dalle strade, e così stai aiutando i miei nemici, che tra l’altro non ti sono nemmeno grati come lo sarei io se mi riconoscessi questo sacro diritto di essere me stessa. Infatti, coloro che opprimono le donne, o meglio coloro che calpestano la libertà degli altri, non sono in grado di compren­dere il suo valore e anzi ritengono che gli occidentali siano persone prive di valori, che portano sudiciume nella mente; non compren­dono affatto che devono ringraziare proprio queste persone che tan­to disprezzano se oggi possono costruire moschee su suolo cristiano e pregare senza che qualcuno gli getti ordigni esplosivi alle finestre come se pregare fosse un crimine...». A un tratto qualcuno suonò il campanello di casa. Andai a rispon­dere. Era il postino con una raccomandata. Scesi giù per firmare. Il postino era una donna che conoscevo di vista, che avevo incontrato spesso al portone di ingresso, ma col velo non mi riconobbe e mi guardò con fare giudicante. Da quando avevo messo il velo tutti mi guardavo in modo diverso, con uno sguardo che non mi piaceva affatto.

Proprio mentre firmavo la ricevuta arrivò mia madre. Salimmo insie­me. Non feci in tempo ad andare in camera mia per mettere a posto le cose che stavo facendo che lei attaccò:

«Domani verranno i tuoi zii con tuo cugino, perciò devi prepararti».

«Io domani esco con le mie amiche, non ci sono per nessuno», repli­cai con impazienza.

Non avevo in programma di uscire ma odiavo trovarmi a casa quan­do venivano quei parenti che avrei ripudiato volentieri. Avevano sempre da ridire sul mio modo di essere, sul mio abbigliamento e addirittura sull’indirizzo di studio. E come se non bastasse il cugino di cui parlava era un pretendente. Ero già in ansia per l’incontro tra Ismaele e i miei. La presenza di altre persone avrebbe certamente peggiorato le cose.

«Vuoi invecchiare senza mai sposarti? Vuoi che si sparli di noi? Le ra­gazze serie non escono, nessuno sposa le ragazze scosciate e poppute che vogliono imitare le occidentali».

«Io preferisco non sposarmi mai che sposare quello!».

«Sentiamo, chi vorresti sposare, un gaal [non musulmano] con la bocca sporca di alcolici, un gaal che si ciba di maiale? Sappi che se mi porterai un gaal a casa io ti ripudierò come figlia e non vorrò nemmeno vedere i tuoi figli».

«Io voglio sposare qualcuno che mi ami così come sono, non per come mi vesto. Voglio qualcuno che sappia guardarmi dentro».

«E tu pensi davvero che un gaal ti guardi dentro?! Ah, povera illusa! Vuoi sapere come ti guarda? Ti guarda solo come una cosa esotica con cui divertirsi e da buttare poi via come la scatola vuota delle scarpe», replicò mia madre quando sentì il mio cellulare squillare.

Corsi per controllare. Era Ismaele. Mi disse che non sarebbe venuto. Non sarebbe venuto a conoscere la mia famiglia. Mi misi a sedere. Sentivo la vista annebbiarsi, le gambe e le braccia deboli. Forse era solo un calo di zuccheri dato che non avevo fatto colazione. Sentii le lacrime calde scendermi sulle guance. Non piangevo quando mia madre mi maltrattava con le parole, non piangevo quando mio padre mi picchiava. Ora mi sentivo sconfitta. Ismaele era il mio mondo. Qualche istante dopo sentii mia madre sorreggermi il collo. Dovevo essere svenuta. Ero debole. Mi chiese come stavo, cosa era successo. Bisbigliai con un filo di voce:

«Non verrà, Ismaele non verrà domani. Come ha potuto deludermi in questo modo, come ha potuto?».

«Su, coraggio, mi dispiace che tu gli abbia creduto, ma se non viene vuol dire che le sue erano solo carinerie, carinerie che ha affinato con l’esercizio, dato che ha alle spalle oltre trent’anni di onorato dongio­vannismo».

Io tacevo, non avevo le forze per replicare. Allora mia madre tirò su una stoffa che aveva sulle ginocchia e disse: «guarda che cosa ho trovato, lo indossavo la prima volta che conobbi tuo padre. Puoi metterlo domani, se vuoi».

Mia madre continuava a parlare ma io non riuscivo a sentirla bene. Volevo solo chiudere gli occhi e non svegliarmi più. Domani sarei stata sola, col mio velo, ad accogliere il mio caro cugino.

 


Foto: Dielmann