Après le déluge

Written by Giuliano Amato Tuesday, 09 December 2008 15:48 Print
L’insieme dei saggi che seguono, se considerati come uno spaccato attendibile di cultura riformista, ci dice con chiarezza che la nostra non è una cultura passatista, non vede cioè nel cataclisma economico-finanziario abbattutosi sul mondo una ragione per tornare al passato, ma lo legge piuttosto come occasione per entrare in un futuro che essa aveva predicato da tempo. Non a caso alcuni dei saggi sono dedicati ai moduli del nostro tradizionale intervento pubblico, alle partecipazioni statali e alla proprietà pubblica delle banche e, pur riconoscendone i meriti nella stagione in cui fiorirono (specie in paesi dotati di un capitalismo debole come il nostro), sottolineano anche il loro successivo deterioramento e quindi l’irripetibilità dell’esperienza.

L’insieme dei saggi che seguono, se considerati come uno spaccato attendibile di cultura riformista, ci dice con chiarezza che la nostra non è una cultura passatista, non vede cioè nel cataclisma economicofinanziario abbattutosi sul mondo una ragione per tornare al passato, ma lo legge piuttosto come occasione per entrare in un futuro che essa aveva predicato da tempo. Non a caso alcuni dei saggi sono dedicati ai moduli del nostro tradizionale intervento pubblico, alle partecipazioni statali e alla proprietà pubblica delle banche e, pur riconoscendone i meriti nella stagione in cui fiorirono (specie in paesi dotati di un capitalismo debole come il nostro), sottolineano anche il loro successivo deterioramento e quindi l’irripetibilità dell’esperienza. Del resto, nonostante il ruolo di garanti di ultima istanza per il quale gli Stati sono oggi insostituibili nel momento dell’emergenza, sarebbe davvero strano se la recherche di un migliore governo per un’economia e una finanza divenute globali approdasse allo statalismo. Il cataclisma ci viene giustamente presentato in queste pagine come il frutto di un fallimento, non solo del mercato, ma anche dello Stato e come una vicenda che, nonostante abbia certamente le sue radici in una finanza cresciuta mostruosamente su se stessa, ne ha anche di più profonde nella stessa economia.

Di sicuro ciò che ci ha colpito di più è appunto la crescita delle attività finanziarie, che si sono sganciate dai valori reali, hanno mescolato insieme debito presente e aspettative di reddito futuro e con questi ingredienti hanno moltiplicato se stesse e i propri titoli, arrivando a volumi nominali di valore (apparente) pari a oltre il doppio del prodotto lordo mondiale. Ha preso corpo così un gigante dai piedi d’argilla e ciò è accaduto grazie alla irresponsabile fantasia degli addetti ai lavori, alla collusione delle agenzie preposte al rating e molto spesso cointeressate ai prezzi presenti e futuri dei titoli sottoposti al loro giudizio, alla inadeguatezza e anche all’omissione degli organi pubblici preposti alla sorveglianza e alla vigilanza. È accaduto così che si siano riempiti i portafogli di istituti e di privati con titoli sprovvisti di un prezzo di mercato perché negoziati bilateralmente fra emittente (o collocatore) e compratore, è accaduto di conseguenza che del grosso dei rischi assunti non si fosse neppure in grado di conoscere il valore ed è accaduto che ciò non sia stato tempestivamente né segnalato né contrastato. E quando gli ormai famosi mutui subprime hanno cominciato a far cilecca, gli effetti a catena si sono moltiplicati su se stessi.

Definire tutto questo un fallimento del mercato e basta è, per certi versi, un insulto al mercato, che per nessun altro prodotto o servizio funziona in modo così privo di trasparenza, di responsabilità e di argini. Il mercato finanziario hadunque fallito, perché hanno fallito le istituzioni che gli hanno consentito di essere com’era, che hanno in buona sostanza voluto che fosse com’era. La vicenda – lo sappiamo – è partita dagli Stati Uniti e lì ci sono state leggi del Congresso che, in nome di una mal ponderata socialità, hanno allargato la possibilità di ottenere mutui per la casa anche a chi non se li poteva permettere, offrendo così carne da macello ai confezionatori di prodotti finanziari derivati. Ci sono state autorità di vigilanza che hanno praticato un rigoroso self restraint davanti a una crescita esponenziale del debito privato trasformato in apparente ricchezza finanziaria. C’è stato lo stesso Fondo monetario internazionale, che ha continuato a occuparsi dei rischi di instabilità nei paesi deboli e non ha neppure posato l’occhio su quelli, ben più consistenti, che prendevano corpo negli Stati Uniti.

D’altra parte, se tutto questo è accaduto non è stato solo per ragioni endogene al mondo finanziario e il nesso con i mutui casa ne è da solo una spia. C’entra, e molto, l’economia reale e c’entra la visione dell’economia reale che divenne dominante negli anni che accompagnarono la caduta del comunismo. La vecchia Europa, con la sua dottrina dell’economia sociale di mercato e quindi con la sua attenzione alla compresenza di più stakeholders nella vita dello stesso mercato, parve obsoleta. Nella visione ortodossamente e rigidamente liberista che si affermò, gli animal spirits degli operatori economici dovevano badare a se stessi, pensare alla remunerazione del capitale e non dovevano incontrare ostacoli in questo loro proposito. L’etica degli affari si scollegava così dall’etica corrente. La liberalizzazione dei capitali, rendendo loro possibile di spostarsi in tempo reale dall’una all’altra parte del mondo, portava all’esaltazione della loro remunerazione a breve e le coincidenze della storia hanno voluto che questo accadesse proprio mentre era al suo massimo vigore la forza del ciclo tecnologico dell’high tech. Grazie a ciò, l’economia sembrava essere sintonizzata con lo “short-termismo” finanziario, perché la sua produttività era in crescita costante e in condizioni perciò di garantire remunerazioni costantemente in crescita.

Avremmo presto capito che non era necessariamente così, che l’high tech era una realtà, ma l’impennata dei suoi valori era frutto di una bolla finanziaria, mentre, in molti casi, la remunerazione del capitale e del management avveniva a spese del lavoro (l’aumento dei valori azionari e delle stock options in proporzione diretta all’entità dei licenziamenti ne fu una delle prove più agghiaccianti). Ciò che restò di quella stagione miracolosa (tale sembrava nell’analisi che ne faceva Alan Greenspan) fu il debito crescente, che un insieme di circostanze, economiche e finanziarie, ha consentito di alimentare e di sostenere sino al cataclisma. E qui ci sono di mezzo i maghi della finanza, ma anche gli interessi dei paesi in surplus, a partire dalla Cina, che hanno vissuto dello squilibrio di cui erano corresponsabili, comprando titoli americani e mantenendo alto il livello dei consumi americani e quindi delle proprie esportazioni.

Se è tutto questo ciò che è accaduto, lo spettro dei correttivi che servono è davvero cospicuo e tale da esigere una eccezionale mobilitazione di risorse, intellettuali e politiche, ai più diversi livelli. Non c’è dubbio che occorrono regole più rigorose per le negoziazioni finanziarie e per la contabilità degli istituti creditizi e finanziari, che occorre decidere cosa fare di queste deplorevoli agenzie di rating e rivedere l’assetto e i poteri degli organidi vigilanza. A questo riguardo è difficile capire come mai il Consiglio europeo, che già ripetutamente (e utilmente) si è occupato della crisi finanziaria, non decida di attivare l’articolo 105, paragrafo 6 del Trattato, a norma del quale «il Consiglio, agendo all’unanimità su proposta della Commissione, con il parere della Banca centrale europea e con l’assenso del Parlamento, conferisce alla stessa Banca centrale compiti specifici di supervisione prudenziale delle istituzioni creditizie e finanziarie, ad eccezione delle imprese di assicurazione». Se una lacuna è emersa in Europa, è proprio l’assenza di una autorità di vigilanza transfrontaliera, come transfrontaliere sono in più casi le istituzioni partecipi della crisi. Non colmarla, quando si dispone degli strumenti per farlo, dimostra una stupefacente resistenza delle opposizioni che impedirono di evitarla sin dall’inizio.

Fatte queste considerazioni, di sicuro non ci si può fermare qui, anche se è qui che il bubbone è scoppiato. Alla lievitazione del debito americano, e della finanza infetta che esso ha generato, hanno concorso – come si è detto – gli squilibri commerciali fra i paesi, quelli che si chiamano global imbalances, favoriti da politiche valutarie e fiscali asimmetriche. Non possiamo certo pensare ad un ministero finanziario e ad una banca centrale mondiale, ma fra una tale utopia e la carentissima situazione attuale c’è un ampio spazio su cui lavorare. Il Fondo monetario può e deve estendere la sua sorveglianza ai paesi ricchi e nel farlo deve includere fra i fattori di rischio il debito privato non meno del debito pubblico. E sui risultati di questa sorveglianza devono poi lavorare con responsabilità e poteri adeguati istituzioni nazionali o regionali, coordinate in sede multinazionale in modo da ottenere, fra l’altro, ciò che mai sinora siamo riusciti a ottenere, e cioè non solo un minor debito dei paesi in disavanzo, ma anche un trasferimento su maggiori consumi interni di una quota di surplus dei paesi che ne godono in situazioni di grave squilibrio globale. A un tale coordinamento dovrebbe servire l’International Financial and Monetary Committee, che definisce due volte l’anno gli indirizzi dello stesso Fondo, così come dovrebbe servire anche il G20 e potrebbe altresì servire, con il massimo di autorevolezza politica, il G8 allargato. Per non parlare, poi, del suggerimento che da tempo è stato avanzato di dar vita in seno alle Nazioni Unite ad un Consiglio per la sicurezza economica, non consultivo, ma parallelo al Consiglio di sicurezza e ben più facilmente di questo dotabile di una composizione adeguata alla realtà del nostro tempo. Il nostro problema, quindi, non è trovare le sedi, ma trovare il coraggio di portare in esse le nostre prerogative sovrane, definire di anno in anno un interesse comune e assumere impegni di coordinamento per realizzarlo. È ciò che da anni facciamo in Europa, che per l’Europa rappresenta il minimo di azione comune e che a livello globale potrebbe rappresentare invece un risultato di grande rilievo. Noi europei a quel punto (e anche per dare più forza alle sedi di coordinamento globale) dovremmo fare di più e, almeno per quanto riguarda l’area euro, dovremmo arrivare a condividere le grandi decisioni annuali di entrata e di spesa, in modo da garantire la massima coerenza delle politiche di bilancio al fianco della politica monetaria. E tuttavia neanche questo basterebbe a rimuovere i fattori della crisi, giacché alle radici degli squilibri globali non c’è soltanto un difetto di coordinamento fra politiche nazionali e regionali, c’è ancora di più la sostanza di queste stesse politiche, che sono in più casi, e in primo luogo in quello americano, promotrici naturali di debito privato. E qui non si tratta soltanto del favore che riceve il credito al consumo, ma della vera e propria necessità in cui vengono messi milioni di americani di rivolgersi ad esso, dovendo destinare una quota di reddito disponibile di gran lunga superiore a quella degli europei a bisogni essenziali come la salute o l’educazione propria o dei figli. Guardando in questa chiave ai problemi americani, ci si accorge che il primo punto del programma di Obama, quello di assicurare possibilmente a tutti l’assistenza sanitaria, può contribuire a ridurre la finanza fondata sulla moltiplicazione del debito non meno, e forse maggiormente, di più rigorose regolazioni finanziarie.

Allo stesso fine, certo, è il sistema nel suo insieme che dovremmo riuscire a far girare su assi diversi da quelli che hanno preso forza negli ultimi decenni. Sono perciò le ragioni dell’economia che dovrebbero tornare a prevalere su quelle della finanza, divenuta essa il fine quando invece dovrebbe essere il mezzo. Civiltà dell’economia e civiltà del lavoro, come viene suggerito nei più lungimiranti fra i saggi qui pubblicati. È questa, e non il ritorno al vecchio statalismo, l’utopia per la quale vale la pena oggi di impegnarsi. Non è un’utopia astratta o fuori dal mondo, è un progetto realizzabile attraverso una pluralità intelligentemente costruita di azioni concrete. Certo, c’è una forte componente redistributiva in tali azioni e c’è quindi bisogno di una forte condivisione perché si realizzino. La politica serve a questo, non a rimettere le mani in pasta. Essa ha trovato, e proprio negli Stati Uniti, un leader che queste cose le pensa, che sembra intenzionato a farle e che possiede la rara capacità di far condividere i propri disegni. Chissà che la crisi economico-finanziaria peggiore degli ultimi decenni non diventi l’occasione per entrare in un futuro migliore.