La crisi di Gaza: quale ruolo per Stati Uniti e Unione europea

Written by Vittorio Emanuele Parsi Monday, 16 February 2009 13:08 Print

Il nuovo capitolo del conflitto arabo-israeliano scop­piato a Gaza lo scorso dicembre costituisce un altro estremo tentativo da parte sia di Hamas che di Israe­le di provocare un radicale cambiamento dello sta­tus quo nella regione. La natura di questo scontro rende però più difficile l’intervento di attori esterni per consentire il raggiungimento di una tregua. La relativa assenza degli Stati Uniti, impegnati nella tran­sizione fra l’Amministrazione Bush e quella Obama, offre all’Unione europea un’imperdibile occasione per giocare un ruolo di mediatore, sempre che si su­perino le tradizionali divisioni fra gli Stati membri.

Più ancora che le divisioni interne alla comunità internazionale, l’imbarazzo del mondo arabo e islamico o le frizioni occidentali, la crisi di Gaza, scoppiata il 27 dicembre scorso, ha messo in luce tutta l’impotenza di governi e diplomazie nel trovare anche solo una realistica via che conducesse alla cessazione delle ostilità. Per una volta, a livello di governi se non di opinioni pubbliche, è sembrato che, nonostante un tasso di discordia inferiore al consueto o, se si vuole, una polarizzazione tra gli attori significativi esterni alla regione minore di quanto normalmente si registra sul contenzioso arabo-israeliano, la capacità di intervento della comunità internazionale sulla crisi di Gaza sia stata estremamente bassa. La tesi di chi scrive è che ciò si sia verificato proprio a causa della natura di “azzardo politico deliberato” che gli attori direttamente coinvolti sul terreno hanno scelto per le proprie azioni strategiche. Detto in altri termini, sia Hamas sia Israele (senza che questo accostamento voglia suonare minimamente come un’equiparazione dei due attori sul piano etico o della legittimità politica) hanno tentato di giocare il match decisivo della loro lunga sfida, per ottenere, al costo del sangue delle popolazioni civili coinvolte, un radicale cambiamento dello status quo, ritenuto dagli uni e dagli altri insostenibile, sia pur per ragioni opposte. La comprensione dell’elevato contenuto intrinseco di politicità della crisi (cioè, in ultima analisi, della minor rilevanza della sua dimensione puramente militare) ha reso estremamente difficile l’intervento esterno. Quest’ultimo, in Palestina, si è mosso prevalentemente seguendo le logiche di emergenza, talvolta definita “umanitaria”, alla ricerca di puri e semplici cessate il fuoco, sempre temporanei, allontanando di fatto la possibilità e la neces-sità di prese di posizione più squisitamente politiche che, proprio in quanto tali, impegnassero la comunità internazionale ad azioni concrete di peacekeeping e peace-building. L’unica rilevante eccezione in questi anni è stata rappresentata dal rafforzamento del preesistente contingente UNIFIL tra Alta Galilea e Libano Meridionale nell’estate del 2006, ad opera dei buoni uffici dei governi italiano e francese di allora. Non a caso, quella apparve come la sola strada percorribile e, contemporaneamente, la più difficile, per le oggettive differenze dei due teatri e della natura di alcuni degli attori coinvolti.

Al di là del fatto che si possa giudicare più o meno appropriata la reazione israeliana alla denuncia unilaterale delle tregua da parte di Hamas e alla successiva provocazione, platealmente ricercata con l’intensificarsi del lancio di razzi sul Sud del paese, una cosa appare infatti chiara: per settimane, mentre i morti superavano rapidamente il numero di mille e l’escalation arrivava fino all’invasione della Striscia, nessuno è riuscito a produrre un’ipotesi di lavoro che consentisse di raggiungere una tregua duratura. Anzi, proprio lo stesso concetto di “tregua duratura” è divenuto rapidamente ostaggio delle diverse posizioni, non solo e non tanto in Medio Oriente, ma anche all’interno della comunità internazionale. Alcuni attori hanno infatti ritenuto che, per ragioni umanitarie, fosse necessario porre fine immediatamente all’azione militare israeliana, altri hanno considerato invece impossibile una tregua che non impegnasse le parti a una sospensione delle reciproche ostilità prolungata nel tempo e “garantita”. Difficile non vedere come il sostegno alla prima ipotesi, al di là delle motivazioni invocate magari nella più perfetta buona fede, avrebbe finito oggettivamente con il fornire una sponda ad Hamas. Il movimento palestinese (tuttora inserito dall’Unione europea nella lista delle organizzazioni terroristiche) vede infatti nella cessazione dell’offensiva militare israeliana una delle tre precondizioni (insieme all’apertura di tutti i valichi e alla fine dell’assedio economico) per poter interrompere il lancio dei propri missili. E, d’altra parte, è evidente come un tale esito avrebbe segnato una vittoria di Hamas che ha intrapreso la pericolosa strada della denuncia della tregua e dell’escalation missilistica proprio per ottenere la fine dell’assedio economico e l’apertura permanente dei valichi. Analogamente, i sostenitori della “tregua duratura” hanno sposato di fatto la posizione israeliana, per la quale era inammissibile continuare a non reagire allo stillicidio di attacchi missilistici sul Negev ed era impossibile lasciare senza risposta la denuncia materiale della stessa tregua operata da Hamas. Per rompere uno status quo giudicato insostenibile, il governo di Gerusalemme non aveva del resto deciso di imboccare la rischiosa via di un’offensiva militare massiccia e destinata, inevitabilmente, a produrre centinaia di morti anche tra la popolazione civile di Gaza?

Con una simile articolazione delle rispettive posizioni, una cosa è apparsa subito evidente. Che non sarebbe stato possibile per nessuno cavarsela con la classica salomonica presa di posizione tanto cara a molte diplomazie europee, che mentre «ribadiva il diritto di Israele alla sicurezza(…) invitava a non far scorrere sangue innocente». Gli attori in campo, ambedue gli attori, tanto Hamas quanto Israele, hanno infatti scelto deliberatamente di assumersi oneri, costi e rischi per modificare lo status quo, e nessuno dei due è disposto a recedere. A differenza da quanto avvenuto con la guerra del 2006 tra Israele e Hezbollah, nel caso di Gaza non si può parlare di un errore di calcolo da parte di Hamas o di una sottovalutazione delle capacità militari dell’avversario da parte di Israele. Hamas ha consapevolmente provocato la reazione israeliana, mettendone in conto la presumibile durezza e l’altissimo costo che la popolazione civile palestinese avrebbe dovuto sopportare. Anzi, in certo qual modo, la “mattanza” di civili – e la capacità di sfruttarla mediaticamente attraverso le reti televisive arabe e internazionali – costituisce uno degli strumenti essenziali scelti da Hamas per il conseguimento dei propri obiettivi strategici: cioè rompere, a un tempo, l’assedio economico e militare di Gaza da parte israeliana e l’isolamento politico di Hamas rispetto all’Occidente oltre che alla gran parte del mondo arabo. Israele, dal canto suo, ha preparato l’offensiva con meticolosità militare e con un’ampia serie di mosse diplomatiche, ottenendo la “comprensione preventiva”, se non il vero e proprio via libera, dai suoi alleati occidentali e persino da diversi governi della regione. Inoltre le autorità israeliane hanno necessariamente messo in conto che l’offensiva sarebbe stata lunga e sanguinosa, che avrebbe provocato disagio crescente tra le opinioni pubbliche “neutrali” e rabbia in quelle arabe, e che conseguentemente avrebbe messo in difficoltà sia i governi arabi moderati sia lo stesso Abu Mazen.

Sul versante del comportamento degli attori esterni, è possibile individuare alcuni snodi piuttosto significativi anche per le conseguenze di lungo periodo che potrebbero determinare. Innanzitutto si è osservata una certa assenza di incisività nell’azione americana, sia pur orientata alla classica linea di sostegno al governo di Israele. In parte questo è stato evidentemente imputabile alla transizione tra le amministrazioni di George W. Bush e di Barack Obama; in parte, invece, essa è il portato dell’appannamento della leadership americana in Medio Oriente in seguito all’esito non brillante della sanguinosa campagna irachena. Anche in questa regione le aspettative che circondano la nuova amministrazione sono molto elevate. Ma occorre anche qui osservare una certa cautela. Seppur con l’uscita di scena di George W. Bush sia ipotizzabile che gli Stati Uniti abbandoneranno la posizione di appoggio incondizionato a qualunque azione israeliana (con ciò tornando all’antico), non è lecito attendersi un radicale cambio di paradigma da parte di Washington nella lettura della crisi arabo-israeliana e, soprattutto, della natura degli attori e del trattamento da riservare loro.

La maggiore attenzione per la crisi di Gaza, promessa dal segretario di Stato Hillary Clinton durante l’audizione di conferma della sua nomina alla Commissione esteri del Senato, e il contemporaneo annuncio di un cambiamento di approccio da parte della nuova amministrazione democratica nei confronti di Siria e Iran sono stati infatti accompagnati dalla secca smen-tita di qualunque possibilità di trattative che coinvolgessero Hamas. Queste “aperture” verso due paesi chiave per l’ordine regionale, che si sono spinte fino al riconoscimento del loro ruolo e alla disponibilità di offrire oggettive garanzie rispetto alla stabilità dei loro regimi (pur fatte salve le legittime preoccupazioni israeliane per la propria sicurezza), sono molto importanti, anche se è difficile che possano produrre risultati immediati. La sfida del nucleare iraniano resta infatti una partita dall’esito quasi certamente infausto per la comunità internazionale, ed è molto probabile che colui che è stato capace di inserirla nell’agenda politica interna iraniana, il presidente Ahmadinejad, si trovi ad essere confermato e rafforzato dalle imminenti elezioni presidenziali. Non è per nulla scontato, comunque, che l’America sia in grado di mantenere una tale apertura, ma, anzi, essa potrebbe essere platealmente lasciata cadere, magari rafforzando il rifiuto con qualche smaccata provocazione. D’altronde, un maggiore impegno degli Stati Uniti sulla vicenda palestinese e un loro più diretto coinvolgimento non è così scontato. Da un lato Barack Obama sa che il suo futuro politico e la sua possibile rielezione saranno giocati sui temi della politica interna e della grave crisi economica che sta colpendo pesantemente il paese. Le elezioni di midterm fra due anni rappresentano la scadenza entro la quale Obama vorrà poter registrare risultati reali da esibire di fronte alla propria opinione pubblica, almeno in termini di occupazione. Ciò consentirà a Hillary Clinton di attuare, con l’assenso del presidente, iniziative di politica estera che siano connotate da una forte valenza simbolica e di comunicazione, ma da un basso impegno economico o militare. E questo è tanto più probabile per il Medio Oriente, dove restano ancora aperti il fronte iracheno e, soprattutto, quello afgano. Già altre volte in passato “l’aquila calva” presidenziale si è bruciata le piume con tentativi di mediazione tra arabi e israeliani andati a vuoto, l’ultimo dei quali fu promosso da Bill Clinton alla fine del suo secondo mandato: anche questa indiretta esperienza personale potrebbe indurre il nuovo segretario di Stato a muoversi con estrema prudenza. Durante questa “vacanza” dell’attore americano è oggettivamente cresciuto lo spazio disponibile per l’Unione e i paesi europei. La specificazione è d’obbligo, se solo si rammenta il pasticcio combinato da cechi e francesi e il discredito inferto alle istituzioni comunitarie da parte dei due governi che si stavano avvicendando alla presidenza di turno dell’Unione. Alla condanna francese per la sproporzione della reazione israeliana ha fatto seguito, com’è noto, il riconoscimento del diritto israeliano a tutelare i propri cittadini da parte ceca. Ma è stata la frettolosa convocazione di un improvvisato vertice da parte francese, nell’ultimo giorno della presidenza di Parigi, e l’invio di una propria delegazione nazionale nell’area, in concomitanza con la missione ufficiale della troika dell’Unione, a far chiaramente percepire come la Francia non intenda rinunciare a considerare l’Unione come una sostanziale protesi per la propria politica estera. Non a caso, nelle stesse ore, il Cancelliere Angela Merkel affermava il «diritto legittimo di Israele a proteggere la propria popolazione civile e il proprio territorio» e attribuiva la responsabilità dell’attacco israeliano a Gaza «chiaramente ed esclusivamente » ad Hamas, per aver «unilateralmente rotto gli accordi per il cessate il fuoco» e dato avvio a un «continuo lancio di razzi in territorio israeliano». Nel prendere una posizione così netta è probabile che Angela Merkel stesse guardando lontano, oltre Atlantico piuttosto che sulle rive della Senna, e abbia deciso di “supplire” temporaneamente, almeno in termini di impegno politico, a quella che è stata giustamente definita la “latitanza di Washington”, destinata a durare fino all’insediamento della nuova amministrazione. È sembrato che il Cancelliere tedesco volesse mandare a Obama e al suo segretario di Stato il segnale che l’Europa è pronta ad assumersi maggiori responsabilità e a giocare un ruolo più importante in Medio Oriente: spazzando innanzitutto il campo dalle differenze di sfumature che spesso si son prestate a qualche ambiguità, a cominciare da quelle riguardanti il sostegno convinto ad Abu Mazen e il rifiuto di considerare Hamas un interlocutore possibile fino a quando non si dimostrerà responsabile e rispettoso del diritto di Israele a esistere. Com’è noto la Germania fa anche parte di quel “terzetto” europeo incaricato di cercare di stabilire le precondizioni per un dialogo diretto tra Stati Uniti e Iran sulla questione del programma nucleare iraniano. Una Germania meno “cerchiobottista” a Gaza potrebbe, contemporaneamente, trovare più ascolto a Gerusalemme e a Washington nel tentare fino all’ultimo di scongiurare pericolose opzioni militari e chiarire a Teheran che giocare la carta di una possibile spaccatura occidentale potrebbe rivelarsi una tragica illusione. I buoni uffici francesi restano nonostante tutto determinanti per raggiungere il risultato di una tregua duratura a Gaza, possibilmente assistita e garantita dalla presenza di un corpo di spedizione internazionale (un po’ sul modello Libano 2006), magari con la presenza di un contingente militare turco. Questa sembrerebbe la sola soluzione accettabile per Israele, benché Hamas l’abbia osteggiata apertamente in quanto ciò la costringerebbe a sospendere la lotta armata; un accordo simile implica infatti non solo l’interruzione del lancio di missili ma anche la rinuncia a eventuali campagne terroristiche, le quali riavvierebbero a loro volta la spirale delle rappresaglie israeliane.

Il difficile del percorso verso la tregua duratura, in effetti, sta tutto lì: perché questa si realizzi occorre che Hamas si muova nella direzione dell’elaborazione di una nuova posizione politica che comporti, di fatto, l’accettazione della presenza israeliana. Evidentemente è irrealistico che una simile evoluzione possa avvenire sotto le bombe ma, come sempre accade in Medio Oriente, è d’altronde necessario trovare una soluzione che, mentre contribuisce a salvare centinaia di vite umane, consenta a tutti di “salvare la faccia”. Attraverso la mediazione egiziana, e con il tacito consenso israeliano, l’Unione europea (o la Francia a nome dell’Unione) potrebbe allora intavolare dei dialoghi con Hamas che portino oltre il minimo esito di un immediato cessate il fuoco bilaterale, sia pur integrato da un’intesa più ampia che implichi l’impegno per Hamas a non aprire un fronte terroristico e per Israele a cessare l’assedio economico. Sarebbe invece opportuno cogliere l’occasione, sempre con il consenso israeliano e la mediazione ufficiale dell’Egitto e dell’Autorità Nazionale Palestinese, ed eventualmente coinvolgendo la Lega araba, affinché l’Unione predisponga un dettagliato piano di intervento, costituito da una serie di misure di carattere economico e politico, concordate con Hamas, che diverrebbe però operativo solo nel momento in cui Hamas trasformasse lo stato di “tregua per ragioni umanitarie” in quella “tregua duratura” (pluriennale), che resta la sola che Israele prenderebbe in considerazione. Solo questo potrebbe contribuire sia a spezzare il quadro di rabbia e rancore che caratterizza la regione, sia a trasformare la stessa natura del movimento di Hamas. Perché se è vero che si “tratta coi nemici” e che “la pace si fa col nemico”, è altrettanto vero che ciò diventa possibile solo a condizione che il nemico rinunci a voler “continuare la guerra con altri mezzi”, cioè manifesti concretamente la sua intenzione di collaborare al reciproco riposizionamento, al passaggio dallo status di nemici a quello di avversari, di “nonamici”, che rinunciano all’esercizio reciproco della violenza. Questo sarebbe il solo modo di contribuire a rendere poco remunerative le politiche dell’azzardo degli uni e degli altri, consentendo a entrambe le parti di non risultare sconfitte.