Per un partito del territorio

Written by Sergio Chiamparino Friday, 08 May 2009 17:53 Print

La discussione sul partito e la sua forma deve essere contestualizzata storicamente e politicamente. Il PD, e al tempo stesso il PDL, con storie diverse ma non separate, possono essere il momento di ricomposizione delle residualità con cui guardare, finalmente, al futuro? Questa, almeno per il PD, è stata ed è la grande speranza.

Una crisi di credibilità

La discussione sul partito e la sua forma deve essere contestualizzata storicamente e politicamente. Altrimenti, come spesso avviene anche nelle sedi più propriamente politiche, separando la forma dalla sostanza – vale a dire dal ruolo, dalla funzione e perfino dall’utilità che un partito ha in un determinato momento per il proprio paese – si rischia di fare analisi di ingegneria organizzativa e di sociologia dell’organizzazione e della comunicazione, senza però accorgersi del venir meno dei presupposti stessi della discussione, cioè delle ragioni per le quali i cittadini pongono domande e attendono risposte da un’organizzazione politica.

Le difficoltà del PD hanno oggi questa natura e non sono risolvibili né unicamente con architetture organizzative o modelli di partito, né solo con messaggi programmatici, che in questo contesto rischiano di ridursi a spot, che possono essere più o meno efficaci, ma che sono pur sempre spot, né tantomeno con cambi di leadership. In altre parole, c’è una crisi di credibilità del PD presso settori significativi di cittadini, una crisi che discende dal fatto che non è chiaro il ruolo e l’utilità politica per fronteggiare il complesso processo di trasformazione in cui il paese è immerso ormai da tempo.

 

Dagli anni Novanta ai giorni nostri

È necessario chiarire maggiormente che cosa è cambiato nel rapporto fra cittadini e politica negli ormai quasi vent’anni che hanno segnato il cambio di secolo. Sono due i fenomeni con cui misurarsi. Il primo, più indagato, è l’effetto determinato dalla fine dei paradigmi ideologici propri del Novecento sulla geografia dei partiti italiani. L’altro, assai meno discusso, riguarda quello che si potrebbe definire il passaggio dalla democrazia dei partiti alla democrazia dei cittadini. Entrambi hanno naturalmente avuto e hanno una dimensione europea, o perlomeno europea occidentale e, al tempo stesso, peculiarità e forme specifiche nei diversi paesi. In Italia la fine delle grandi ideologie del secolo scorso, simbolizzata dalla caduta del Muro di Berlino, ha travolto l’assetto dei partiti che aveva prima costruito e poi retto e accresciuto l’impianto democratico scaturito dalla ricostruzione costituzionale post bellica. Dai primi anni Novanta in avanti, il divenire di quelli che erano stati gli interpreti politici dei grandi filoni di pensiero alla base del sistema politico italiano, la DC e il riformismo cattolico, il PCI nella versione nazionale del grande e tragico movimento che ha mostrato la sua ineliminabile contraddittorietà, sia sul piano della libertà sia su quello della giustizia sociale, laddove è stato governo e organizzazione statuale, fino ai riformismi socialisti e laici, obiettivamente costretti e indeboliti dal carattere di massa assunto dai due movimenti precedenti, diventa storia di residualità alla ricerca contemporaneamente, com’era inevitabile che fosse, di sopravvivenza e di futuro.

Il PD, e al tempo stesso il PDL, con storie diverse ma non separate, possono essere il momento di ricomposizione delle residualità con cui guardare, finalmente, al futuro? Questa, almeno per il PD, è stata ed è la grande speranza. Ma perché sia tale, si deve poter pervenire ad una ricomposizione e non invece ad una giustapposizione. Si deve cioè costruire un processo che metta in conto che per ottenere un amalgama, qualcosa si mette insieme, qualcosa si può anche perdere, ma qualcosa di nuovo si può e si deve conquistare. Senza anticipare le conclusioni, vale la pena approfondire il passaggio dalla democrazia dei partiti a quella dei cittadini, ovvero, in altri termini, alla richiesta, affermata a volte anche con forme di violenza mediatica inusitata, di un rapporto diretto fra elettori ed eletti, non più mediato dai partiti. A ben vedere, fenomeni dirompenti con forti ripercussioni sui partiti, tra cui principalmente Tangentopoli, ma più in generale tutto il filone della critica alla politica che da allora fino al “grillismo” di oggi non ha più abbandonato l’arena politica italiana, non sono stati altro che effetti derivati da quel passaggio, che se colto nei suoi lineamenti di fondo avrebbe consentito, e forse consentirebbe ancora, di esprimersi come critica positiva e non qualunquistica alla politica.

Certo hanno interpretato e accompagnato questi atteggiamenti verso la politica anche alcune riforme dell’inizio degli anni Novanta, quale l’elezione diretta dei sindaci e degli amministratori locali che, non a caso, sembrano essere le uniche riforme istituzionali ad avere funzionato, migliorando il rapporto cittadini- politica. E proprio per questo, non bisogna tornare indietro. Ma, soprattutto, ha pesato l’irrompere sulla scena politica, non solo italiana, di un duplice fenomeno: il principio di cittadinanza attiva e la costruzione come soggetto autonomo dell’opinione pubblica, frutti entrambi di quella maturazione democratica della società italiana prodotta dal lavoro di quegli stessi partiti che ne sono diventati, apparentemente in modo paradossale, l’oggetto delle critiche più feroci. In altre parole, il laboratorio democratico italiano si è retto in una prima fase su di un ruolo di sostanziale supplenza che i partiti hanno svolto nei confronti di una società poco democratica, chiusa nei microcosmi settoriali e territoriali, nel familismo e nelle relative subculture di appartenenza. L’educazione pratica alla democrazia ha gettato i semi della crescita che, come sempre avviene, si sono rivoltati contro i seminatori stessi, anche perché questi hanno compreso tardi ciò che stava avvenendo per effetto della loro stessa azione.

 

La risposta populista e le contraddizioni della risposta democratica

A questo cambiamento c’è stata una risposta populista che ha colto l’asse più immediato e dirompente, vale a dire la ricerca di un rapporto il più diretto possibile fra leadership ed elettori, e su questa base ha costruito risposte politiche che, inutile negarlo, hanno funzionato e funzionano costruendo forme di partito-persona, di partiti che si identificano con il leader che, non a caso, sono ancora oggi, pur su versanti almeno apparentemente diversi, quelli che appaiono più credibili in quanto detentori di un ruolo, di un’utilità e quindi di un’identità non importa quanto apparente o quanto reale nei confronti di segmenti significativi di opinione pubblica italiana.

È la storia ovviamente di Forza Italia con Berlusconi, della Lega con Bossi, dell’Italia dei Valori con Di Pietro; partiti che non a caso non sembrano avere vita autonoma da quella del proprio leader, ma che sono visti come partiti utili, vuoi per difendere il Nord contro “Roma ladrona” e contro lo straniero, vuoi per fare avere all’Italia gli stessi successi che il Cavaliere ha avuto come imprenditore, incluse le parti meno trasparenti di questo stesso successo che come la storia insegna sono parte integrante di una certa visione nostrana dello sviluppo e del benessere, vuoi per lottare contro ogni sopruso, come ha fatto la magistratura ai tempi di Tangentopoli. Poco importa che alla prova dei fatti questi siano poco più che stereotipi (basti pensare a quante volte negli ultimi tempi, la Lega ha perdonato “Roma ladrona”). Sono messaggi diventati costitutivi di quei partiti che li dotano di una missione percepita come utile dall’opinione pubblica che li sostiene.

Una risposta democratica vera non c’è stata. Si è sempre oscillato fra rincorse mascherate del leaderismo populistico e nostalgia del partito mediatore fra cittadini e governo, senza mai riuscire a declinare con sufficiente lucidità teorica e pratica la necessità di un cambiamento di concezione e di ruolo del partito come condizione per poter combinare, nel nuovo contesto in cui agisce anche la fine dei paradigmi ideali del Novecento, leadership e rapporto diretto con i cittadini elettori con un ruolo del partito non ridotto a quello del leader.

Si è però tentato di trovare delle risposte. Il ricorso alle primarie è stato ed è certamente un tentativo di ritrovare una nuova sintesi fra leader, elettori e partito. E, tuttavia, la sensazione è che in quel modo il problema lo si prenda dalla coda anziché dalla testa, con effetti a volte paradossali, qualche volta certo utili ma il più delle volte contraddittori. L’esperienza dice che le primarie sono state in qualche modo utili dove hanno rappresentato una forma di mobilitazione plebiscitaria a sostegno del leader già prescelto dal partito in vista di consultazioni elettorali (Prodi, Veltroni) ovvero, all’opposto, dove hanno rappresentato il rifiuto di scelte analoghe da parte del partito o delle sue componenti (si veda ad esempio il recente caso di Firenze). Percorsi, tuttavia, che presuppongono entrambi un partito che decida prima, di cui le primarie siano o una conferma o un rigetto, senza essere però un elemento effettivamente costitutivo del modo di essere del partito, del suo rapportarsi alla società, del suo essere rappresentanza sociale. Anzi, quanto più lo strumento primarie viene esteso per scegliere segretari di circolo e candidati ad ogni livello, tanto più diventano forme di autoreferenzialità mascherata: in termini meno eleganti, rischiano di essere una conta fra gruppi, sottogruppi e spesso individualismi e localismi tutti interni al partito e privi di reale rappresentanza esterna.

 

La storia conta, ma anche i cambiamenti

Occorre qui osservare con attenzione una connotazione profonda del sistema politico italiano (e di altri sistemi europei). Mentre al di là dell’Oceano la storia consegna un sistema politico che nasce con la società, in cui la comunità è il “principe” da cui promana la politica, la storia europea e italiana è esattamente opposta. Negli Stati Uniti la democrazia è diretta in quanto l’elettore viene storicamente prima dell’eletto e il binomio leader-elettore perde la sua connotazione populista rovesciandosi nel suo opposto democratico elettore-leader, dove la scelta del secondo nasce dal primo attraverso la sua libertà di organizzazione, di finanziamento, in un percorso storicamente definito in cui l’individuo, la società, il mercato precedono i partiti, le istituzioni, lo Stato.

Nel nostro paese, dove lo Stato è il “principe” da cui sgorga la politica, come recepire fuori da ogni semplificazione populistica, in una fase di ridefinizione dei valori ideali, la domanda di allargamento della democrazia implicita ed esplicita nella domanda di rapporto diretto fra elettori ed eletti?

Dobbiamo a questo punto tornare a concentrarci sull’eredità di questo passaggio di secolo: rarefazione dei riferimenti ideologici, rifiuto dei partiti come mediazione fra cittadini e istituzioni. Come ricostruire una missione utile e quindi credibile per un partito che vuole recuperare un sistema di valori forte attraverso l’aperta e la reciproca messa in discussione delle appartenenze di provenienza e che considera una variabile indipendente, contro le semplificazioni populistiche, la riaffermazione di un ruolo del partito come luogo di espressione e rappresentanza democratica? Questo è il quesito e duplice è la sfida. Da un lato costruire un partito che produca classe dirigente non più attraverso la gestione diretta delle risorse pubbliche (la supplenza al governo della cosa pubblica, decisiva per una lunga fase della cosiddetta Prima Repubblica), bensì attraverso la rappresentanza sociale e quindi il programma. Per fare un ulteriore passo, non più un partito che costruisca rappresentanza in parte con le appartenenze ideologiche (che non ci sono più) e in parte con la gestione delle risorse pubbliche (la supplenza non più accettata), bensì con l’elaborazione del programma (cosa diciamo su bioetica, immigrazione ecc., solo come esemplificazione simbolica) e il controllo della sua attuazione.

Questa strada stimola un ulteriore approfondimento. Le trasformazioni sociali ed economiche indotte dalla modernità o, se si preferisce, dalla postmodernità, e la sfida della globalizzazione ci interrogano su un punto: la società è ancora rappresentabile politicamente attraverso rappresentanze settoriali sommate e tenute insieme dal cemento politico e ideologico? Al di là del fatto che, come già detto, quest’ultimo non ha più una presa sufficiente, è proprio la società che non si lascia più interpretare e quindi rappresentare attraverso interessi settorializzati da combinare in qualche modo successivamente attraverso giustapposizioni e mediazioni. Tutto ciò va fatto in una fase precedente. O, meglio, va costruito direttamente nella società mettendo insieme sistemi coalizionali capaci di comporre mediazioni di interessi sufficienti a soddisfare almeno parzialmente gli interessi dei partecipanti alla coalizione stessa e per questa via ad esprimere domanda e politiche di governo. Vince e governa chi sa svolgere questo ruolo nella società, nell’economia, nella comunità civile, portando alle istituzioni la rappresentanza di questi sistemi coalizionali.

Ecco il ruolo del partito che attraverso il programma assembla coalizioni sociali con una mediazione di interessi che non può prescindere dai valori di riferimento, e che propone i rappresentanti delle coalizioni medesime come classe dirigente chiamata a governare.

 

Il partito del territorio e i sistemi coalizionali

Si affaccia prepotentemente il ruolo del territorio e del partito del territorio. Non come sindacato territoriale (si vedano le differenze con la Lega e con l’autonomismo meridionale), ma come partito che privilegia il territorio perché è l’adesione a questo che gli permette di conoscere, interpretare, far esprimere e rappresentare i diversi sistemi coalizionali. Ognuno con le proprie specificità e centralità, dall’industria ai servizi alla pubblica amministrazione. Sapendo che per vincere e governare bisogna saper far prevalere la rete di coalizioni che meglio supporta gli obiettivi che il paese si pone in quel momento, sia esso promuovere sviluppo, ribaltare la distribuzione del reddito o affermare la laicità della società e dello Stato per garantire il valore sociale delle religiosità.

La sfida del partito del territorio non è una sfida ad escludere bensì ad includere. Ad includere quanti più soggetti possibili nei processi coalizionali. Ad includere parti diverse del territorio nazionale in funzione di una maggiore forza di governo verso le sfide globali.

 

Le sfide da affrontare

Proviamo, per concludere, a riprendere le fila del discorso dall’inizio. Abbiamo tre sfide davanti a noi. Recuperare utilità politica e quindi credibilità verso settori di opinione pubblica; costruire un partito che, ricomponendo e scomponendo le culture fondative, trasformi una storia di residualità in una prospettiva di futuro; corrispondere alla domanda di democrazia dei cittadini senza scorciatoie, anzi contrastando le scorciatoie populistiche e costruendo un rapporto fra leader, partito ed elettori che esalti la politica e i partiti come luoghi di espressione e di azione collettiva.

Il partito del territorio può essere il sottile fil rouge che tiene insieme questo complesso mosaico. Perché ci obbliga a costruire nuova rappresentanza coalizionale e attraverso di essa a proporre nuova classe dirigente. Perché nel fare questo ci obbliga a mettere in discussione apertamente e reciprocamente i paradigmi di appartenenza. Perché in questo modo le leadership locali e nazionali sono obbligate ad una conquista continua del loro ruolo e della loro stessa leadership. Perché, in tal modo, si delinea un ruolo democratico del partito come soggetto aggregatore di interessi attraverso valori e portatore di rappresentanza. Perché il leader del partito alla fine è tale solo se interpreta ed esprime la rappresentanza della rete di coalizioni costruita dal partito medesimo: in questo modo e solo in questo si stabilisce quel rapporto diretto con gli elettori che può garantire un plusvalore democratico essenziale per il paese e per l’intero sistema politico. Perché, infine, in questo modo si può recuperare una funzione utile, percepita come tale da quell’opinione pubblica ancora vasta che cerca riferimenti fuori dal populismo e che può (ri)trovarli in un nuovo partito democratico. Prima che smetta definitivamente di cercarli.