Spostamenti nel pubblico televisivo: dalla maggioranza ai nativi digitali

Written by Carlo Freccero Thursday, 02 July 2009 18:04 Print

Dalla nascita della televisione come servizio pubblico all’attuale epoca di integrazione dei media, il pubblico televisivo ha subito una trasformazione radicale, passando da mero fruitore ad artefice della programmazione, ad attore e autore delle trasmissioni. Si tratta di una rivoluzione che non ha travolto soltanto i mezzi di comunicazione ma la società intera. Come ha dimostrato la campagna elettorale di Obama, infatti, la generazione dei millennial non è disinteressata alla politica, come si crede comunemente, ma alle ormai anacronistiche modalità di partecipazione alla vita democratica.

Se la politica pensa di doversi occupare di televisione e telecomunicazioni solo quando deve proporre una legge di disciplina del settore, compie una grave sottovalutazione del problema.

Prima di tutto, in un sistema maggioritario dominato dalla rilevazione dei sondaggi, la politica è comunicazione. Sin dalla sua nascita il Partito Democratico ripete uno slogan che richiama alla concreta valutazione delle cose: le famiglie che alla terza settimana hanno esaurito i soldi per riempire il carrello della spesa non dovrebbero aver bisogno di altri argomenti per essere convinte della necessità di una politica che sostenga i settori più deboli della società. Peccato che i sondaggi smentiscano questa certezza. Sembra che il 60% degli operai voti per la Lega. Il consenso del premier veleggia intorno al 75%. Oggi i consumi sono soprattutto immateriali. Chi non ha il necessario vuole sognare il superfluo. La vita assomiglia sempre di più ad una grande lotteria in cui siamo disposti a rinunciare al minimo garantito, per aspirare al successo o per sbancare il superenalotto. Non viviamo nella prima rivoluzione industriale, ma nell’ultima fase della società dello spettacolo. Ma c’è di più. Oggi l’economia, la famosa “struttura” di marxiana memoria, non si identifica più con la produzione materiale. Oggi la produzione è produzione di immaginario. La cultura, lo spettacolo non sono più sovrastruttura, ma struttura, base economica del nostro presente.

La scorsa stagione gli sceneggiatori di Hollywood sono scesi in sciopero per richiedere che il diritto d’autore fosse esteso a tutte le piattaforme su cui una fiction può essere utilizzata. Oggi un film o un telefilm non viene prodotto per essere proiettato una sola volta, nelle sale cinematografiche o nelle televisioni a pagamento, ma è concepito per un uso illimitato e sui media più diversi. Un film viene visto al cinema, ma farà i passaggi più numerosi in televisione, prima nella pay per view, poi sulle reti a pagamento e nelle reti generaliste, nel prime time e poi negli orari di minor richiamo. Verrà riprodotto in DVD per uso domestico. Sarà accessibile su internet e visibile su telefonino. Riceverà un numero esponenziale di letture e fruizioni. Continuerà a generare profitto per i suoi autori per un tempo illimitato. Lo sciopero degli sceneggiatori ha paralizzato l’industria dello spettacolo. Molti telefilm di culto non hanno completato gli episodi previsti per l’attuale stagione e ciò ha generato un effetto “rarità” del prodotto. Alla fine gli sceneggiatori hanno vinto la loro battaglia. Oggi anche un istituto tradizionalmente operaio come lo sciopero fa parte dell’immaginario. Sembra quasi di sentire le obiezioni. Tutto ciò non riguarda la gente normale, non è paragonabile allo sciopero degli operai FIAT di Mirafiori che difendono il loro posto di lavoro. Ma proprio qui sta la differenza. Se ci stacchiamo dal caso umano e analizziamo i due scioperi alla luce di una fredda logica puramente economica, dovremo ammettere che lo sciopero degli sceneggiatori ha un’incidenza sull’economia reale decisamente maggiore dello sciopero dei metalmeccanici. Gli sceneggiatori hanno potuto imporre le loro condizioni perché hanno dimostrato di poter paralizzare quella che è oggi la vera forma di produzione: la produzione di immateriale. Gli operai sono invece in sciopero perché il loro lavoro risulta superfluo e inessenziale per la produzione. L’industria dell’immaginario fattura miliardi. Le fabbriche di auto sono in tutto il mondo sull’orlo del fallimento. Per questo bisogna tagliare posti di lavoro.

Non è più il lavoro a valorizzare la fabbrica. Piuttosto, le fabbriche vengono tenute in piedi, non allo scopo di produrre, ma al semplice scopo di garantire la sopravvivenza agli operai. Sono fossili viventi delle precedenti rivoluzioni industriali. Che ci piaccia o no oggi l’economia è sempre più immaginario. Basta guardare gli inserti economici del “Corriere della Sera” o di “Repubblica”, basta scorrere “Nòva” de “Il Sole 24 ore” o le pagine di “Milano Finanza”. Oggi l’economia è sempre più moda, tecnologia, nuovi media, videogiochi e comunicazione, una produzione che si colloca tra le dimensioni del simbolico e dell’immaginario, che registra il passaggio dall’universo consumistico degli anni Ottanta (moda, pubblicità) alla nuove esigenze dei bisogni immateriali (videogiochi, internet, telefonia).

I giovani nati negli anni Ottanta stanno uscendo dal modello ormai vecchio di consumi materiali, imposto in quegli anni dalla televisione commerciale, per affermare una nuova identità. Su questa generazione denominata millennial si concentra l’attenzione di sociologi e psicologi. Una mostra sugli artisti che hanno meno di trent’anni è in corso a New York.

I moderni studi di neuroscienze si interrogano sul futuro di una generazione di “nativi digitali” che ha imparato a gestire un videogioco prima che a scrivere, a interagire con il computer prima che con il libro.1 Entrare in sintonia con questo mondo significa ritagliare uno spazio futuro alla politica, che oggi non sembra interessare veramente più a nessuno.

L’ultima generazione che ha creduto nella politica, che ha pensato di poter cambiare il mondo e la società è stata la generazione dei baby boomer di cui è figlia la sinistra di oggi. Ma già negli anni Ottanta questa visione era vecchia.

È interessante riportare qui una citazione di Elie Théofilakis tratta dall’editoriale degli atti della mostra “Les immatériaux” che ebbe luogo nel 1985 presso il centro Georges Pompidou di Parigi: «La nostra modernità si spegne, la nostra modernità muore (…). Ma simultaneamente in questa fine di secolo, i vertiginosi sviluppi delle tecnoscienze relegano i 5000 anni della nostra storia all’età della pietra e l’uomo, come misura di ogni cosa, al museo della nostalgia (…). La cibernetica, l’informatica, la biogenetica, l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande aprono infinite potenzialità (…). Il nostro mondo – che si doveva cambiare per interposti filosofi, azioni e pratiche quotidiane – si trova oggi talmente modificato che è necessario ed urgente reinterpretarlo».2

Oggi per comprendere la realtà sociale è essenziale studiare la televisione, la sua evoluzione e le sue molteplici trasformazioni. La prima grossa rivoluzione coincide con l’avvento della TV commerciale. La politica non riesce a comprenderne la portata ed è travolta dall’antipolitica. Tutti i partiti tradizionali spariranno insieme ad una visione ideologica del mondo, cancellata dal consumismo e dal desiderio di integrazione e conformismo. Il crollo del Muro di Berlino si limitò a sancire, anche a livello simbolico, un processo che la televisione commerciale aveva da tempo posto in atto. La televisione, che non conosce muri o sbarramenti materiali, aveva già diffuso anche in Europa orientale il mito del consumo. Solo la presenza fisica del Muro impediva alle popolazioni comuniste di riversarsi in Occidente per raggiungere la terra promessa, l’emporio, il regno dello spettacolo e delle merci.3

La televisione commerciale si impone in Italia e poi in Europa nei primi anni Ottanta come alternativa al servizio pubblico il cui fine era quello di educare gli spettatori. Rappresentava, secondo Régis Debray, il naturale complemento della pubblica istruzione. Il messaggio della televisione, all’epoca del servizio pubblico, era fortemente accentrato e unidirezionale. Il pubblico poteva solo accettare i programmi che gli venivano proposti o spegnere il televisore.

La televisione commerciale fa dello spettatore, attraverso la rilevazione dell’audience, il vero artefice della programmazione. Sono le scelte del pubblico ad orientare gli acquisti e le produzioni dell’emittente. È l’indice di ascolto, la massa del pubblico catturata dai programmi, a costituire il vero valore dell’industria televisiva. I contratti pubblicitari cominciano ad essere stipulati sulla base dell’audience presunta dei programmi. Un punto in più o in meno può spostare milioni di lire in contratti pubblicitari.

La vera rivoluzione non riguarda però la televisione, ma la società. Lo sviluppo inarrestabile della televisione commerciale prima e della pubblicità poi impone il sondaggio, nelle sue forme di rilevazione dell’audience, indagine di mercato ed exit pool, come nuova matrice della società. Le scelte del pubblico tendono al raggiungimento di un gusto comune, quel minimo comun denominatore sulla base del quale vengono prodotti e riprodotti programmi e consumi. È la maggioranza a dettare le sue leggi. Appartenere alla maggioranza,4 condividerne i gusti, sostituisce a livello simbolico il mito borghese della distinzione teorizzato da sociologi come Pierre Bourdieu.5 Il messaggio teorico e politico si semplifica e si svuota di contenuto. Il dibattito non riguarda più i problemi sostanziali, ma le tematiche fittizie ed effimere che i media selezionano per noi. È la maggioranza a dettare l’agenda dei media e a subirne nello stesso tempo le tematiche, secondo un incessante processo di interazione reciproca e di reciproca influenza. Orientare la comunicazione, controllare i media, diventa sinonimo di successo politico. In Italia questo processo è esasperato dal macroscopico conflitto di interessi per cui il capo del partito di maggioranza è proprietario anche della maggior parte dei mezzi di comunicazione. Ma anche negli altri paesi controllare la comunicazione diventa sinonimo di successo politico. La politica di Bush, la guerra in Iraq rivelatasi poi fallimentare per gli Stati Uniti, hanno goduto a lungo del consenso popolare grazie alla propaganda di reti di informazione come la Fox, schierate con il governo, e grazie alle produzioni di un giornalismo embedded, pronto a creare docu-fiction di grande valenza emotiva, come il salvataggio fittizio della soldatessa americana, catturata dal nemico. È curioso oggi, a trent’anni di distanza dalla nascita della TV commerciale, ricordare come il fenomeno fu interpretato allora dalla politica. Essa, e in particolare la sinistra, vide nella moltiplicazione delle emittenti televisive l’affermazione di una maggiore libertà di espressione e, in particolare, l’accesso di tutti alla comunicazione: una sorta di democrazia della comunicazione nel momento in cui la comunicazione si avviava a diventare monopolio e proprietà di un unico soggetto; l’espressione di un pluralismo locale e culturale nel momento in cui la televisione stava per trasformarsi nel megafono della maggioranza e nell’organo di produzione del conformismo di massa. Prima di chiamarsi commerciali e di essere raccolte in un unico impero mediatico, le emittenti si chiamavano locali o libere, con una sorta di involontaria ironia che solo noi, a posteriori, siamo in grado di cogliere. Si aspettava la liberazione dell’etere proprio nel momento in cui era in atto la sua completa colonizzazione.

La seconda grande rivoluzione televisiva riguarda l’oggi ed è connessa al passaggio dall’analogico al digitale. La politica non deve perdere ora quella battaglia ideologica che all’avvento della televisione commerciale non fu in grado di comprendere.

Il digitale permette di moltiplicare ogni canale analogico per cinque, ponendo fine alla cronica penuria di frequenze. Non solo, il digitale permette l’interazione e l’integrazione assoluta tra media diversi: televisione, telefonia, computer, ma anche cineprese amatoriali e videotelefonini, un’integrazione tra grande e piccolo, tra universale e individuale che fa del singolo non un semplice spettatore, ma un potenziale produttore di contenuti.

Questi due cambiamenti fondamentali, introdotti dal digitale nel panorama generale dei media, sono oggetto di studi specifici ben noti agli addetti ai lavori.

Le conseguenze della moltiplicazione delle reti sono alla base dell’analisi di John Ellis,6 riportata da Grasso e Scaglioni in “Che cos’è la televisione”. Secondo il ricercatore inglese la storia della televisione si riassume in tre grandi epoche: «(…) l’età della scarsità (scarcity), l’età della disponibilità (availability) e l’età dell’abbondanza (plenty)».7

L’età della scarsità coincide in Europa con il servizio pubblico e con la presenza di una sola o poche emittenti gestite direttamente dagli Stati; l’età della disponibilità è caratterizzata dalla nascita delle televisioni commerciali e dalla moltiplicazione delle reti analogiche; infine l’età dell’abbondanza è prodotta dalla moltiplicazione digitale delle reti e dall’interazione tra media diversi.

L’affermazione del digitale porta con sé anche e soprattutto la convergenza tra diversi media e diverse culture. Questo aspetto fondamenta le della rivoluzione in atto è oggetto del saggio di Henry Jenkins “Cultura convergente”.8

Nell’epoca del digitale siamo di fronte ad una convergenza mediale, prodotta dalla perfetta compatibilità e interazione degli strumenti di comunicazione più diversi (TV, telefono, computer, iPod, iPhone, cineprese), a cui fa riscontro una convergenza culturale per cui il pubblico abbandona il suo ruolo eminentemente passivo, per farsi attore e autore dei media con cui interagisce. Riguardo alla televisione in senso stretto, nel più generale panorama dei media, sono possibili più chiavi di lettura. Il modello tradizionale di televisione generalista relegato nello schermo standard dell’apparecchio televisivo entra in crisi. In questo senso si esprimono le analisi più superficiali che da tempo predicono un declino della televisione. Ma esiste una visione più ampia e articolata. La televisione abbandona lo schermo unico per invadere altri schermi (computer, telefonino, DVD) o meglio ancora il contenuto, il testo pensato per la TV (ad esempio il telefilm) si affranca dal suo supporto tradizionale per espandersi su altri media.9

L’evoluzione del testo televisivo riguarda la critica televisiva e gli studiosi di media.

Ma c’è un altro aspetto fondamentale della rivoluzione televisiva in atto che riguarda invece la società e il suo futuro. Se negli anni Ottanta la televisione commerciale ha creato il modello attuale di homo videns10 conformista, passivo, legato alla scelta della maggioranza e interessato ai consumi materiali, la nuova televisione sta costruendo un pubblico attivo impegnato a sua volta in veste di attore e produttore di contenuti. La prima fase di questa rivoluzione riguarda ancora la televisione generalista con la cosiddetta neotelevisione. Con il reality il pubblico passa al di là dello schermo, si fa interprete attivo e attore dello spettacolo. Oggi, nell’era digitale, il pubblico ha portato sino in fondo la sua rivoluzione copernicana facendosi autore, in senso più o meno compiuto, dei programmi preferiti. L’esempio più semplice è dato dai filmati autoprodotti con strumenti digitali di ampia diffusione come cineprese e telefonini. Chiunque può essere testimone e filmare un evento improvviso. Le cronache dell’11 settembre passano quasi tutte attraverso riprese amatoriali. I processi sulla responsabilità della polizia durante le manifestazioni del G8 a Genova si basano su prove audiovisive raccolte dagli stessi partecipanti ai cortei. È il fenomeno del “reporter diffuso” che ha su Sky TG24 una rubrica fissa settimanale (oggi “ioReporter”).

C’è poi il caso YouTube, il sito web per la condivisione di contenuti video, dove l’evento viene appositamente creato per essere filmato. E ci sono, infine, i reportage di Current TV, autoprodotti dal pubblico, ma con criteri di coerenza e professionalità. Anche la fiction ha nello spettatore un coautore. In genere i nuovi telefilm sono oggetto di culto. Il loro è un pubblico attivo che intende influire sull’evoluzione della storia, allestendo su internet blog e fan club, sottotitolando le serie, organizzando il dibattito e lo scambio su di esse. Spesso i siti dedicati alle serie sviluppano storie parallele, una sorta di spin-off del testo madre. Nascono indirizzi web dedicati ad aspetti accessori della fiction. “Lost” ha generato un sito della Oceanic Airlines, compagnia aerea di fantasia coinvolta nel disastro aereo che ha condotto i superstiti sull’Isola. Fioriscono su internet storie parallele di personaggi in qualche modo legati ai protagonisti della serie. Tutto questo universo di fan e internauti testimonia un bisogno estremo di immaginario, di narrazione, legato all’attuale spirito del tempo.

Un libro francese tradotto in italiano con buon successo, “Storytelling”,11 denuncia come l’arte di trasformare i prodotti in storie sia diventata oggi il maggior strumento di marketing, commerciale e politico. Al di là della denuncia di una nuova tecnica di persuasione più o meno occulta, il libro è una testimonianza della fame di immaginario che pervade l’epoca presente. E rappresenta un forte suggerimento per la politica. Fenomeni politici emergenti come Nicolas Sarkozy in Francia o Barack Obama negli Stati Uniti non avrebbero avuto successo senza il supporto dello storytelling, la traduzione del tradizionale discorso politico nella forma più accattivante della narrazione della parabola e della fiction. È una risorsa a cui è ricorso a suo tempo anche Berlusconi in Italia con la sua “Storia italiana”.

E tutti sanno che Obama è passato da sconosciuto politico di seconda fila a presidente degli Stati Uniti tramite l’attivismo dei suoi supporter sul web. All’universo passivo e conformista degli anni Ottanta-Novanta si sta sempre più sostituendo una nuova generazione di cittadini che non vuole restare ai margini dello spettacolo, ma vuole contare e collaborare. Una generazione a cui la rappresentatività tradizionale va stretta. Se fare politica significa firmare un mandato in bianco ad un rappresentante, spesso nemmeno scelto dagli elettori, ma indicato dai partiti, non possiamo aspettarci che i millennial provino per la politica lo stesso trasporto che hanno provato i baby boomer negli anni Settanta. Allora la politica rappresentava la vita e alla politica si era disposti a sacrificare il privato.

Oggi sono venute meno molte categorie teoriche di allora, il concetto di classe e di soggetto collettivo, la visione del mondo per cui una conquista individuale non ha valore se non si trasforma in un progresso per tutti.

Attualmente si ragiona in termini di maggioranza, secondo il modello della televisione generalista. La maggioranza non può esprimersi che per sondaggi e ha bisogno di leader che ne impersonino i valori. In Italia questo leader è da molti anni Berlusconi. Non possiamo pensare che quasi trent’anni di televisione commerciale non abbiano inciso sui gusti, sulle opinioni, sulle abitudini degli italiani. Ma nuovi modelli stanno emergendo con l’avvento del digitale, l’interattività e la convergenza tra i media. Grazie al computer è attualmente in atto anche a livello di comunicazione pura la rivoluzione già registrata da Jeremy Rifkin12 nel campo del commerciale e dei consumi. Nell’epoca dell’informatizzazione la produzione di merci non è più produzione di massa, ma produzione di massa individualizzata. Si prenda, ad esempio, il mondo della moda. L’alta moda confezionava un capo esclusivo su misura per una clientela d’élite. La grande produzione un prodotto di massa per tutti. Il prêt-àporter un prodotto d’élite diffuso. Negli ultimi due casi, l’industria e gli stilisti potevano solo prevedere la domanda del pubblico, mettendo in produzione un certo numero di capi, stoccando le merci nei magazzini, ritirando l’invenduto per gli outlet.

Oggi non è più così. Le grandi catene di moda come Zara o H&M hanno un sistema di produzione computerizzato per cui ogni capo portato alla cassa mette in produzione, tramite la lettura del codice a barre, un capo eguale per sostituire il precedente nel negozio. Si registra così una drastica riduzione del magazzino e dell’invenduto. Ma c’è di più. Le grandi case di moda come Zegna o Armani sono in grado di proporre, tramite banca dati computerizzata con le misure e i dati dei clienti, un prêt-à-porter su misura, un incrocio tra prêt-à-porter e alta moda.

La massa della produzione non diminuisce, ma diventa produzione di massa individualizzata.

Qualcosa di simile riguarda attualmente la comunicazione e l’informazione. La pay TV è organizzata a partire non da dati anagrafici o di largo consumo (casalinghe, giovani, anziani), ma soprattutto da differenze culturali e di genere (gay, maschi, femmine, usanze e tradizioni diverse) secondo il modello dei cultural studies americani. È una televisione che non cerca il minimo comun denominatore, ma vuol fornire ad ogni gruppo, anche limitato, un prodotto specifico che soddisfi bisogni personalizzati. La pay per view rende questo processo più esplicito perché l’acquisto del programma è fatto dal singolo spettatore, anche se all’interno di una gamma limitata di scelte. Questa tendenza arriva alle estreme conseguenze con l’uso individuale della massa sconfinata di contenuti presenti sul web.

La popolazione dei nuovi nativi digitali è sostanzialmente diversa dalla maggioranza passiva degli anni Ottanta e Novanta. Non vuole un notiziario preconfezionato, ma cerca su internet le notizie che gli interessano, anche in ambiti specialistici. Scarica dal web i contenuti che le reti generaliste o a pagamento non gli forniscono, partite, musica, giornali stranieri, film di prima visione e serie americane non ancora tradotte. Ignora il diritto d’autore e difende il “no copyright”. Non si limita a ricevere, ma mette in evidenza sul web i suoi contenuti: notizie, filmati, blog e commenti, ma anche il brano musicale che nel mercato tradizionale non avrebbe circolazione, il romanzo o il saggio che un tempo sarebbero rimasti in un cassetto. Quando non ha doti di opinionista, musicista o scrittore, mette sul web attraverso una webcam la cronaca pure e semplice della propria vita, una sorta di auto-grande fratello che ha nella web TV Justin” la sua più completa manifestazione.

Questo popolo di millennial sembra non avere interesse per la politica, ma di fatto ne costeggia continuamente le problematiche e i contenuti attraverso la controinformazione e i blog di opinione, come quello di Beppe Grillo in Italia. L’ultima campagna elettorale americana lo ha visto partecipe nella misura in cui internet è stato il veicolo principale della diffusione del fenomeno Obama. Precedentemente, altri candidati, come il democratico Howard Dean, avevano usato internet per raggiungere l’elettorato, ma si era trattato, nel complesso, di un uso tradizionale. Il candidato aveva utilizzato un suo sito per far conoscere il suo programma e raccogliere fondi. Con Obama non si è trattato solo di questo. I simpatizzanti sono stati incoraggiati, in prima persona, a stabilire contatti con altri simpatizzanti, in una sorta di catena di Sant’Antonio virtuale che prevedeva anche il ruolo di attori e produttori delle idee del leader. Il contatto con i partecipanti alla campagna era costante e attivo. Gli elettori non erano solo cittadini a cui si richiedeva una delega politica attraverso il voto, ma coautori e diffusori del programma insieme al candidato. Per questo la vittoria di Obama è stata vista come una vittoria di tutto il suo gruppo e di tutto il suo partito.

L’esperienza americana sembra provare che il disinteresse del pubblico attivo per la politica non è legato tanto all’oggetto, quanto alle modalità di partecipazione, oggi solo rappresentative. I giovani vivono la politica come una casta di burocrati separati dalla vita reale e su cui non è possibile intervenire. Sta alla politica capire il fenomeno e creare spazi di interattività e coinvolgimento che rompano il crudele incantesimo che ha separato la politica dal settore più attivo ed emergente della società.


[1] Scrive Luca Tremolada: «Mentre noi adulti cerchiamo sempre un ‘manuale’ o abbiamo bisogno di strumenti per inquadrare concettualmente un oggetto di studio prima di dedicarci ad esso, questi ‘nativi digitali’ apprendono per esperienza e per approssimazioni successive. Noi assorbiamo informazioni in sequenza logica, loro giocano con le informazioni, tagliano e incollano saperi diversi, hanno una cultura delle immagini più sviluppata, una ‘manualità’ nell’apprendere che si manifesta al computer. Non è detto che sia un dato positivo ma è un fatto. Piuttosto che interpretare configurano; piuttosto che concentrarsi su un oggetto statico, vedono il sapere come un processo dinamico; piuttosto che essere lettori o spettatori sono attori e autori attivi». L. Tremolada, Riforma mentis, in “Nòva” de “Il Sole 24 ore”, 14 maggio 2009.

[2] E. Théofilakis, Condition humaine, l’interface pour la transmodernité, in Théofilakis (a cura di), Modernes et après? Les immatériaux, Autrement, Parigi 1985, pp. IX-X.

[3] C. Freccero, D. Strumia, Introduzione, in G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano

[4] Cfr. Freccero, L’audience come periferia, in A. Grasso, M. Scaglioni, Che cos’è la televisione. Il piccolo schermo fra cultura e società: i generi, l’industria, il pubblico, Garzanti, Milano 2003.

[5] P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, Il Mulino, Bologna 1983.

[6] Cfr. J. Ellis, Seeing Things. Television in the Age of Uncertainty, Tauris, Londra 2000.

[7] Grasso, Scaglioni, op. cit., p. 291.

[8] H. Jenkins, Cultura convergente, Apogeo, Milano 2007.

[9] S. Carini, Il testo espanso. Il telefilm nell’età della convergenza, Vita e Pensiero, Milano 2009.

[10] G. Sartori, Homo videns, Laterza, Bari 1997.

[11] C. Salmon, Storytelling. La fabbrica delle storie, Fazi Editore, Roma 2008.

[12] J. Rifkin, L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, Mondadori, Milano 2000. 1997