Verso una nuova governance istituzionale

Written by Veronica Nicotra Thursday, 08 October 2009 19:45 Print

Il modello delle relazioni interistituzionali non rie­sce a contenere e regolare la contrattazione politi­ca secondo un obiettivo che guardi ad una compo­sizione alta degli interessi. Il processo in atto che mira all’attuazione dei federalismi indica nuove for­me di governance, ma sussiste il pericolo, esiziale per il sistema che si intende realizzare, o di un ec­cesso di governance o di una governance con una doppia personalità. Intervenire in questa materia è oggi necessario; è però opportuno anche tenere presente che concertazione fra gli esecutivi e inne­sto nel Parlamento degli interessi delle istituzioni territoriali possono rappresentare due momenti complementari e non alternativi della vita politica e istituzionale.

Una delle questioni intimamente connesse alla riflessione sulla riforma del bicameralismo italiano è quella dell’aggiornamento del sistema di concertazione istituzionale che trova nelle cosiddette Conferenze la sua espressione organizzata, quale principale crocevia delle relazioni intergovernative.

In verità, da alcuni anni, da più parti e giustamente, è stata segnalata la necessità di procedere ad una rivisitazione del sistema delle Conferenze, con il duplice obiettivo di aggiornarne le regole di funzionamento, migliorando efficienza e trasparenza dei suoi processi decisionali, e di correggerne la fisionomia al fine di costruire un luogo di confronto il più possibile paritario fra i soggetti costitutivi della Repubblica.

Esigenza poi diventata urgente dopo la riforma del 2001, quando, rispetto a un modello pensato nell’ambito delle riforme Bassanini e del cosiddetto “federalismo a Costituzione invariata”, è emersa la necessità di adeguare le sedi di concertazione a un sistema costituzionale profondamente mutato e a una concezione della Repubblica diversa da quella precedente alla riforma costituzionale.

Dunque, ragione non secondaria dei ritardi e delle incoerenze che hanno segnato l’attuazione del Titolo V negli otto anni trascorsi, è stato il naufragio di ogni tentativo di aggiornare il sistema delle Conferenze, così come ogni iniziativa di modificare il bicameralismo.

Oggi, con l’avvio dell’attuazione del federalismo fiscale, e poi istituzionale, e mentre si torna a porre il problema dell’adattamento del mo - dello parlamentare al quadro costituzionale, si consolidano le motivazioni di chi ritiene indispensabile promuovere un salto di qualità nello stato delle relazioni interistituzionali, inaugurandone una nuova e diversa stagione.

Vi sono del resto molte ragioni di natura politica, istituzionale, ordinamentale che possono motivare una netta indicazione a favore di una riforma degli istituti della cooperazione.

Muovendo da una prospettiva strettamente politica, l’esperienza delle Conferenze presenta alcuni aspetti che meritano attenta riflessione. Esse, innestandosi sull’esperienza precedente e già lunga della Conferenza Stato-Regioni, nascono e si organizzano, anche nelle modalità di lavoro, per consentire di definire una sintesi il più possibile condivisa fra le componenti e dentro le componenti (Stato, Regioni ed enti locali). Tale finalità, indispensabile per mettere in moto il federalismo a Costituzione invariata, è stata sufficientemente soddisfatta anche per la capacità delle diverse componenti di mantenere, nelle specifiche questioni affrontate e nell’interlocuzione con il governo, un fronte sostanzialmente unitario, a prescindere dalle differenze di carattere politico. Finalità che è stata ed è funzionale al complessivo governo del paese e che conserva tutt’oggi un valore in sé, sia politico – il confronto ha aiutato a fissare un punto di equilibrio istituzionale – che tecnico – il confronto ha aiutato a lavorare insieme, comparando e mediando – che si ritiene giusto ribadire e rinnovare rispetto all’affacciarsi di alcuni processi di diverso segno.

Attualmente si rileva una qualche difficoltà a preservare una piena compattezza interna nelle posizioni di ciascuna componente, a fronte del frequente prevalere di logiche di parte. È questa una chiara risultanza del maggior peso politico e istituzionale acquisito dalle autonomie territoriali, destinato a crescere con le ulteriori riforme in senso federale, e della rilevanza crescente degli interessi in gioco. Inoltre, va segnalata la sempre più marcata tendenza del governo ad aggirare il confronto nella sede istituzionale, preferendo lo scambio one to one con le singole Regioni o Comuni, il che mette in crisi la stessa ragion d’essere dello strumento delle Conferenze, legata alla necessità di ricercare una soluzione di sintesi, un compromesso capace di guardare oltre. L’insieme di queste dinamiche, che probabilmente troveranno un’accentuazione nei prossimi mesi, a causa di una competizione sempre più accentuata fra Regioni, fra Regioni ed enti locali ecc., e per scelte politiche troppo spesso sbilanciate da logiche di appartenenza, fanno ritenere che l’attuale modo di essere del sistema delle Conferenze sia sempre meno in grado di reggere la contrattazione politica. Il che determina oggettivamente la crescente impossibilità di svolgere il ruolo per cui erano state pensate. Non meno rilevante è la prospettiva istituzionale. La scelta di un’interlocuzione strutturata fra i livelli di governo, prima limitata a Stato e Regioni e poi allargata a Comuni e Province, ha un’origine che risale nel tempo e ha conosciuto una progressiva sistematizzazione, motivata inizialmente dalla necessità di favorire un’applicazione armoniosa della concorrenza fra fonti nella disciplina delle materie e successivamente allargata all’obiettivo di favorire concertazione e collaborazione anche rispetto all’attività amministrativa e all’esercizio delle funzioni. Obiettivi questi che ontologicamente hanno sempre implicato lo scambio politico e il concorso fra indirizzi che devono armonizzarsi.

Tale esperienza si è arricchita di istituti di raccordo che nel tempo hanno declinato e dato corpo al principio di leale e reciproca collaborazione, che la giurisprudenza costituzionale ha ulteriormente raffinato e definitivamente collocato nell’ordinamento quale criterio regolatore dei rapporti interistituzionali.

Il quadro complessivo è stato quello di una concertazione dettata inizialmente dalla volontà dello Stato di coinvolgere, laddove opportuno o necessario, gli altri livelli di governo in scelte e politiche che comunque rimanevano sua prerogativa e appannaggio, chiedendo un parere o un contributo, e poi estesa a ricercare anche intese relativamente all’esercizio di attività e di funzioni dei livelli di governo che andavano ricondotti a un quadro di compatibilità.

Ora si tratta di fare un salto in avanti. Sono necessari percorsi concertativi, raccordi e scambi costanti in un sistema costituzionale in profonda trasformazione, nel quale va fissato un equilibrio stabile e un assestamento coerente tra i compiti e le funzioni già decentrate o redistribuite dallo Stato e i nuovi assetti e relazioni che l’attuazione del federalismo fiscale e il completamento del federalismo istituzionale comportano.

In poche parole, occorre passare da una governance pensata per un sistema “plurisoggettivo” e policentrico ad una governance adeguata a un sistema autenticamente federale.

Ciò che differenzia un sistema di governance in un modello istituzionale articolato da un sistema di governance in un sistema federale è che quest’ultimo richiede per funzionare condizioni reciproche di “controllo”, pari responsabilità e, in molti casi, implica non solo capacità e possibilità di condividere e decidere insieme, ma anche di concorrere insieme a raccogliere e definire i dati e le informazioni indispensabili per fare le scelte che riguardano il sistema complessivo. Non solo: la governance di un sistema federale ben funzionante richiede un giusto dosaggio fra rappresentanza degli interessi istituzionali e capacità di orientare la dialettica politica al perseguimento di finalità di interesse generale di tutta la Repubblica.

Il sistema attuale di concertazione non soddisfa in modo convincente tali esigenze e manifesta da tempo segnali di crisi, accentuata dal fatto di dover operare in un contesto mutato rispetto a quello in cui era nato e in cui era stato pensato.

Del resto basta guardare all’arti - colato sistema di governance del federalismo fiscale istituito dalla legge 42/09 per constatare l’oggettiva crisi del sistema delle Conferenze. È sufficiente tenere presente il ruolo e i compiti della Conferenza per il coordinamento per la finanza pubblica per comprendere che essa, sebbene istituita nell’ambito della stessa Conferenza unificata, finisca oggettivamente per sostituirla e svuotarla. Basterebbe questo per obbligare a porsi seriamente il problema della riforma del decreto legislativo 281/97.

Vi è poi un problema più generale: il pericolo che, in assenza di un’azione organica su questa materia, le riforme in atto partoriscano, per dolo o per imperizia, ciascuna un proprio sistema di governance, con connotazioni diverse e in conflitto fra loro. Preoccupazione, questa, che sembra trovare conferma nelle contraddizioni presenti già oggi, ad esempio, nel disegno di legge di riforma della contabilità pubblica, che in materia di raccordi istituzionali e sedi di concertazione segue strade difformi dalla legge di attuazione del federalismo fiscale. È dunque urgente porsi alcune domande. Si profila all’orizzonte il rischio di un eccesso di governance? E come devono articolarsi i rapporti fra i livelli istituzionali in un sistema di stampo federale? Per quanto tempo ancora può essere rinviato il problema della riforma delle Conferenze? Per quanto tempo quello di un bicameralismo adeguato alla nuova Repubblica dell’articolo 114 della Costituzione?

Se le forze politiche, insieme alle rappresentanze della autonomie territoriali, non procedono ad un ripensamento delle forme e dei modi delle relazioni interistituzionali, il rischio di un “fai da te” da parte delle diverse leggi di settore e delle prassi di concertazione è reale e concreto. Il recupero di un principio di ordine è necessario, anche e soprattutto, affinché l’attuazione del federalismo avvenga secondo una visione equilibrata e accettabile.

Nel corso dell’attuale esperienza di governo, due indirizzi apparentemente antinomici sembrano aver caratterizzato o ispirato molte decisioni politiche: dirigismo versus decentramento, centralismo versus federalismo. Non tutti i contenuti di quelle scelte erano condivisibili; non tutti erano criticabili, ma non è questo ciò che conta.

Si spera di non azzardare affermando che in questa antinomia si può leggere una nota positiva che va sviluppata. Se, come si ritiene, il federalismo all’italiana deve assicurare il raggiungimento di alcuni obiettivi, quali una maggiore efficienza dell’amministrazione; l’esaltazione dell’autonomia ma anche della responsabilità; al contempo equità, coesione sociale e diritti di cittadinanza; rispetto rigoroso della legalità in ogni parte del territorio nazionale, allora è necessario affidare allo Stato un compito di coordinamento, di monitoraggio, di controllo, cioè quella funzione unificante, bene indefettibile per ogni convivenza democratica.

Lo Stato deve esercitare questo compito dialogando e aprendosi agli altri soggetti in modo trasparente e incentivando la collaborazione e il coinvolgimento di tutti. Ma tutto questo non è possibile se non anche attraverso un sistema di governance rivisto che sappia costruire sulle fondamenta esistenti nuovi istituti della cooperazione, repubblicana o federale, a seconda dei punti di vista. Soggetti, luoghi, regole, raccordi capaci di esprimere unità nel rispetto dei singoli interessi rappresentati: chiamiamole le istituzioni della Repubblica federale.

Vi è poi un ultimo aspetto che merita una riflessione. La cooperazione intergovernativa, costruita in questi anni secondo un modello a carattere verticale, incentrato sugli esecutivi, ha contribuito a spostare il fulcro delle politiche nazionali nel governo, sbilanciando il rapporto con il Parlamento.

Rispetto a questa esperienza però la soluzione corretta non è quella di un’improbabile restaurazione del ruolo dei legislatori e delle assemblee, che cancelli l’esperienza delle Conferenze contestualmente alla revisione del bicameralismo. È necessario invece riuscire a costruire una piena circolarità fra gli enti costitutivi della Repubblica, recuperando un più corretto rapporto fra Parlamento e governo centrale, una strutturata presenza dei rappresentanti delle comunità territoriali dentro il Parlamento e, infine, un più armonico e meglio definito sistema di raccordi fra il governo centrale e gli esecutivi territoriali.

Non vi è un problema di alternatività fra la concertazione tra gli esecutivi e l’istituzione della Camera delle autonomie territoriali: al contrario vi è una stretta complementarietà fra queste due prospettive. Complementarietà che va realizzata con una riforma delle sedi di concertazione e con la costruzione di una Camera delle autonomie territoriali, capace di rappresentare e perseguire l’interesse generale, pur innestando in sé la rappresentanza degli interessi dei livelli di governo della Repubblica. Questo rafforzerà il Parlamento e gli ridarà un ruolo ancora più incisivo, sia nell’attività legislativa sia nell’esercizio di altri compiti, senza per questo diminuire la capacità di concertazione e di intesa tra gli esecutivi nell’attività ad essi propria.