Riforme ordinarie e riforme ordinamentali per il rinnovamento della giustizia

Written by Giuliano Pisapia Tuesday, 09 February 2010 19:55 Print
La ricerca di soluzioni condivise e praticabili si pone come obiettivo prioritario per restituire alla giustizia italiana efficienza, rapidità e garanzie. Essenziali si rivelano sia riforme di tipo ordinario e organizzativo, come la modifica del sistema penale, sia provvedimenti di natura ordinamentale, che attengono all’obbligatorietà dell’azione penale, alla separazione delle carriere e alla composizione del Consiglio superiore della magistratura. Tutte riforme che, tuttavia, dovranno avvenire nel pieno rispetto dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura.

Uno dei motivi della condizione drammatica in cui versa, ormai da anni, la nostra giustizia deriva da una situazione per cui ogni seria proposta di riforma si trova immediatamente sotto il fuoco concentrico, da un lato, di chi pensa solo a risolvere i propri problemi e, dall’altro, di quei gruppi, di quelle fazioni, di quei partiti che si oppongono a qualsiasi reale cambiamento, per difendere interessi corporativi o per meschini interessi elettoralistici. Ecco perché bisogna uscire dall’attuale spirale perversa e cercare quelle soluzioni, possibili e praticabili, in grado di coniugare celerità, efficienza e garanzie. Nella consapevolezza che ciò sarà possibile solo se si avrà, come punto di riferimento, l’interesse generale e se si faranno crescere le condizioni per un confronto costruttivo che individui i punti di equilibrio tra posizioni differenti, isolando chi, a destra e a sinistra, strumentalizza la giustizia per finalità che, con la giustizia, nulla hanno a che vedere.

Chi vuole realmente riformare, e far funzionare, la giustizia condivide certamente l’esigenza di porre fine a interventi settoriali e privi di organicità; permane però la divergenza tra chi considera prioritario accelerare i tempi processuali e chi, invece, ritiene che la priorità debba essere quella di una reale, e non solo formale, parità delle parti e terzietà del giudice. Eppure, se si analizza la situazione senza pregiudizi emerge con tutta evidenza che non vi può essere priorità tra obiettivi che non solo non sono contrapposti, ma anzi si rafforzano a vicenda. E, quindi, non possono che essere affrontati contemporaneamente. L’articolo 111 della Costituzione (parità delle parti; terzietà e imparzialità del giudice; ragionevole durata del processo) non può essere spezzato e frammentato: è inaccettabile, oltre che incostituzionale, sia un processo che non rispetti ragionevoli tempi processuali, sia un processo che non rispetti quelle garanzie di imparzialità che sono il baluardo contro errori giudiziari e ingiuste detenzioni.

Se si vuole impedire al governo di continuare nella sua opera disgregatrice, non ci si può limitare a sbraitare e insultare (senza incidere minimamente sul continuo scempio del diritto e dei diritti), ma si deve fare il possibile per contrapporre a proposte non condivise (e talvolta indecenti) un realistico progetto riformatore in grado di trovare, in Parlamento e nel paese, il consenso più ampio possibile. È decisamente più efficace (anche se più difficile) sfidare l’avversario, anche cercando di dividerlo, che attestarsi nella difesa di uno statu quo, fonte quotidiana di denegata giustizia.

Entrando nel merito di alcune proposte concrete, si potrebbe partire da una norma che preveda la sospensione dei processi (e dei termini di prescrizione) in caso di imputati irreperibili. Se poi diventassero realtà le tante decantate notifiche per via telematica (ai difensori e, per quanto possibile, a parti offese, testimoni, periti ecc.) si eviterebbe gran parte dei numerosi rinvii delle udienze che incidono profondamente sugli attuali tempi processuali (quasi la metà dei processi viene rinviato per omessa notifica). Sarebbe anche estremamente semplice, e comporterebbe vantaggi sotto ogni profilo (per gli operatori e per gli utenti della giustizia), estendere il più possibile, anche solo con una circolare ministeriale, quei protocolli d’intesa tra avvocati e magistrati che già funzionano in alcuni tribunali, con risultati decisamente positivi e con rilevanti risparmi, non solo di carattere economico. Si creerebbero le condizioni per fissare, fin dalla prima udienza, un calendario che programmi tutto lo svolgimento del processo fino alla sentenza, ponendo così fine a rinvii evitabili e alla prassi, ben poco rispettosa, di convocare, lo stesso giorno e al la stessa ora, decine di testimoni di processi anche diversi, molti dei quali vengono poi rinviati ad altra data.

Vi sono poi istituti deflattivi che, dove applicati, hanno dato ottimi risultati e che potrebbero far diminuire l’enorme debito giudiziario che ci perseguita da troppo tempo (oltre 10 milioni tra processi penali, amministrativi e civili pendenti): non punibilità per irrilevanza del fatto e/o tenuità dell’offesa; messa alla prova in caso di reati di non particolare gravità; aumento dei reati perseguibili a querela (incentivando i tentativi di conciliazione da parte del pubblico ministero); sanzioni in caso di “querele temerarie” o infondate. Così come si eviterebbe uno spreco di fondi e di energie se si stabilisse, in caso di eccezione di incompetenza non accolta, il ricorso immediato in Cassazione (che dovrà decidere entro trenta giorni) evitando, come non raramente accade, che dopo tre gradi di giudizio, l’eccezione venga accolta, annullando tutta l’attività svolta.

Molti altri sono gli interventi, necessari e possibili: le sentenze dovrebbero essere motivate in maniera sintetica e depositate contestualmente alla decisione, fissando eventualmente una udienza apposita (è chiaro che si dovranno, conseguentemente, adeguare i tempi per le impugnazioni); si potrebbe, nei casi in cui è prevista l’udienza preliminare, evitare il deposito degli atti ex articolo 415 bis del codice di procedura penale (incombente dimostratosi sostanzialmente inutile ai fini difensivi ma che allunga mediamente di oltre sei mesi la fissazione del processo di primo grado); si dovrebbe limitare il più possibile, sulla falsariga del provvedimento approvato dal Senato nella XIII legislatura, il numero dei magistrati fuori ruolo con funzioni diverse da quelle giudiziarie (potrebbero tornare alla loro funzione oltre 150 magistrati).

Sarebbe, poi, certamente utile la presenza in ogni tribunale di figure professionali che si occupino di questioni organizzative, evitando, o quanto meno limitando, quelle disfunzioni che sono causa di rinvii e disguidi di vario genere, che non poche responsabilità hanno sul cattivo funzionamento della macchina giudiziaria (malgrado i più che apprezzabili sforzi di chi quotidianamente opera per evitare che la giustizia si fermi). Una figura manageriale dovrebbe, sotto il controllo e la direzione dei capi degli uffici, coordinare il lavoro delle cancellerie, “liberando” così i magistrati da incombenze che nulla hanno a che vedere con la loro professionalità.

La riforma del sistema penale

Indispensabile sarebbe, inoltre, una profonda modifica del sistema penale. Non è possibile che, ad oltre sessant’anni dalla Costituzione, si applichi ancora il codice del 1930 il quale, oltre ad essere impregnato di una concezione della pena non aderente ai principi costituzionali, prevede ancora non pochi casi di responsabilità oggettiva. In attesa del tanto auspicato nuovo codice penale – sul modello dei progetti predisposti dalle ultime quattro commissioni ministeriali, istituite da governi di centrodestra e di centrosinistra, che sono arrivate a conclusioni molto simili – è necessario, al più presto, approvare una legge delega (come era già avvenuto, quasi all’unanimità, nel 1999, anche se poi il governo l’aveva abbandonata in un cassetto) che modifichi il sistema sanzionatorio, prevedendo per reati di non particolare gravità pene non carcerarie irrogabili già dai giudici di merito (detenzione domiciliare, sanzioni interdittive, prescrittive, ablative, lavori socialmente utili o finalizzati al risarcimento del danno, attività riparatorie ecc.). Pene che dovranno essere effettivamente eseguite, ponendo così fine a quel senso di impunità che è una delle cause principali della recidiva. Non si tratterebbe affatto, come temuto da molti, di un cedimento al buonismo o di un insano “indulgenzialismo” ma, al contrario, sarebbe una saggia ed efficace politica contro il crimine e la criminalità. Come dimostrano i dati, un sistema sanzionatorio diversificato fa diminuire la recidiva, creando così i presupposti non solo per una maggiore sicurezza dei cittadini, ma anche per un miglioramento della situazione carceraria: chi sconta l’intera pena in carcere ha un tasso di recidiva di oltre il 60%; chi usufruisce di pene diverse dalla detenzione ha un tasso di recidiva inferiore al 12%.

Ampiamente condivisa è la proposta di prevedere che, in caso di richiesta di custodia cautelare in carcere, la decisione sia presa da un organo collegiale. È inaccettabile che oltre la metà dei detenuti sia in carcerazione preventiva, non a caso definita la “lebbra” del processo penale. I paventati problemi di incompatibilità che potrebbero nascere nei picco li tribunali possono essere superati demandando tali decisioni alle Corti d’appello. Sulle intercettazioni, invece, il testo all’esame del Senato – che pure affronta problemi reali – deve essere profondamente rivisto, in quanto finirebbe per neutralizzare un fondamentale, e particolarmente delicato, strumento di ricerca della prova. Basterebbe applicare correttamente le attuali norme – per cui le intercettazioni sono possibili solo in presenza di “gravi indizi di reato” e quando “assolutamente indispensabili per la prosecuzione delle indagini” – per evitare gli abusi e le nefandezze alle quali quasi quotidianamente siamo costretti ad assistere. Si eliminino norme che rasentano l’assurdità giuridica – quali quelle di permettere le intercettazioni solo in presenza di “evidenti indizi di colpevolezza” o di vietarle nei procedimenti contro ignoti (casi in cui, invece, sono spesso “assolutamente indispensabili”) – e si istituiscano efficaci controlli e adeguate sanzioni (disciplinari e processuali) in caso di intercettazioni autorizzate in mancanza dei requisiti previsti dalla legge. Analogo discorso può, e deve, essere fatto per la quotidiana e vergognosa diffusione di atti di indagine di cui la legge vieta la pubblicazione: un reato, quello previsto dall’articolo 684 del codice penale (“Pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale”), rispetto al quale l’obbligatorietà dell’azione penale si è smarrita nei meandri delle procure. Sarebbe sicuramente più efficace, invece di minacciare il carcere, stabilire adeguate sanzioni disciplinari per i giornalisti e pene pecuniarie, proporzionali alla diffusione e alla gravità del fatto, per le testate giornalistiche. Non si può confondere la libertà di stampa, il diritto di informare e di essere informati, con le spiate dal buco della serratura, con la violazione della privacy, con condotte che spesso mettono a repentaglio le indagini (permettendo ai colpevoli di concordare strategie difensive, prepararsi alibi, darsi alla latitanza).

 

Le riforme ordinamentali

Le pur indispensabili modifiche ordinarie e organizzative risolverebbero, come già accennato, solo alcuni dei problemi che attanagliano la giustizia. Sono quindi altrettanto indispensabili riforme ordinamentali, che presuppongono alcune (limitate) modifiche costituzionali.

Per quanto concerne l’obbligatorietà dell’azione penale, garanzia del principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, l’attuale discrezionalità (che non raramente rasenta l’arbitrio) può essere risolta introducendo strumenti deflattivi, quali quelli sopra accennati, e avviando una seria depenalizzazione nell’ottica di quel diritto penale minimo, tanto auspicato nei convegni e nei dibattiti e altrettanto tradito nel corso dei lavori parlamentari. Serio motivo di riflessione può essere offerto dalla proposta del presidente della Camera di prevedere, per un limitato periodo di tempo, indicazioni di priorità nell’esercizio dell’azione penale. Indicazioni le quali, più che al Parlamento (idoneo alla formulazione di valutazioni soprattutto di carattere generale), potrebbero essere demandate ai Consigli giudiziari, con la presenza di rappresentanti dell’avvocatura e dei giudici di pace e previa consultazione con il prefetto, il questore e i rappresentanti delle istituzioni locali.

Del tutto diversa la questione della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, presupposto indifferibile del “giusto processo”. Separazione delle carriere che, oltre ad essere presente in quasi tutti gli ordinamenti democratici, ha avuto autorevoli sostenitori nei lavori della Costituente ed è stata condivisa da giuristi che hanno illuminato il cammino della democrazia nel nostro paese. A favore della separazione delle carriere si è espressa, recentemente, anche l’associazione che riunisce tutti i professori ordinari di procedura penale. È questo un tema su cui bisogna fare chiarezza, evitando equivoci e strumentalizzazioni: è assolutamente falso che la separazione delle carriere incida sull’autonomia e sull’indipendenza della magistratura. Chi appoggia una netta distinzione tra pubblici ministeri e giudici è consapevole che non vi può essere parità delle parti e terzietà del giudice fino a quando il giudice sarà collega di chi rappresenta l’accusa; ma è altrettanto consapevole dei danni che provocherebbe alla giustizia un pubblico ministero dipendente dall’esecutivo. La separazione delle carriere deve quindi accompagnarsi alla più strenua difesa dell’autonomia e indipendenza dell’intera magistratura.

Altro tema delicato è quello del Consiglio superiore della magistratura (CSM). A differenza di quanto si sente spesso ripetere, i costituenti non hanno inteso il CSM quale organo di “autogoverno della magistratura”, ma, piuttosto, quale organo di “governo” dei magistrati e di garanzia per magistrati e cittadini. È sufficiente leggere gli articoli 104 e 105 della Costituzione, e prendere atto del fatto che non appartengono alla magistratura il presidente, il vice presidente e alcuni componenti del CSM, per avere la conferma che non si tratta, né si può trattare, di un organo di autogoverno.

Due sono i temi da affrontare: la composizione e la sezione disciplinare di tale organo di rango costituzionale. Modificare l’attuale composizione comporterebbe, nella situazione corrente, uno scontro frontale che renderebbe ancora più difficili le riforme più urgenti: varrebbe quindi la pena, forse, di accantonare per ora tale tema. È però da subito necessaria (e ha già trovato significativi consensi) l’istituzione di un’Alta Corte di giustizia che, superando il concetto di “giustizia domestica”, sia titolare delle decisioni sui procedimenti disciplinari che riguardano gli operatori della giustizia (giudici, pubblici ministeri e, perché no?, avvocati). Del resto, come è possibile difendere ad oltranza, come fa soprattutto la magistratura associata, l’attuale situazione del CSM, aspramente criticata – anche recentemente – dal presidente della Repubblica, da presidenti della Corte di cassazione, da ex vice presidenti del CSM nonché da autorevoli magistrati che hanno ripetutamente stigmatizzato il “correntismo imperante” che condiziona l’attività del Consiglio. Un’Alta Corte di giustizia, organo di garanzia come lo è – checché ne dica il presidente del Consiglio – la Corte costituzionale, sarebbe una soluzione ragionevole in grado di porre fine a difese corporative e, nel contempo, di impedire una politicizzazione che sarebbe dannosa sotto ogni profilo.

Solo con un confronto serrato e costruttivo, senza steccati – se non quello dell’interesse generale e del rispetto del principio di eguaglianza – ma anche senza pericolosi salti nel buio, sarà possibile bloccare chi, nella maggioranza, vuole stravolgere principi fondanti della nostra democrazia e chi, all’opposizione, cerca di impedire ogni cambiamento in grado di dare al paese una giustizia realmente al servizio dei cittadini. L’auspicio è che tutti coloro i quali sono realmente interessati a una giustizia che funzioni sappiano unire le forze e far prevalere la forza della ragione.