Democratizzare l'Europa

Written by Stefan Collignon Sunday, 02 March 2008 20:05 Print

L’Europa versa in una crisi profonda. Emersa dal voto francese e olandese contro il Trattato costituzionale, questa crisi coinvolge tutti gli Stati membri dell’Unione europea. La presidenza tedesca dell’UE nel 2007 cercherà di trovare una via d’uscita. Se questa occasione andasse perduta, l’Unione potrebbe benissimo sparire, disperdendosi in una moltitudine di patti bilaterali tra gli Stati-nazione europei.

L’integrazione europea è un esperimento unico nella storia. Gli Statinazione mai prima avevano deciso volontariamente e liberamente di condividere il loro potere. Dopo due conflitti mondiali, con cinquanta milioni di morti e indescrivibili sofferenze, i cittadini europei misero da parte le ideologie conservatrici e reazionarie, come nazionalismo e xenofobia, sostituendole con idee di pace, di riconciliazione, di cooperazione e tolleranza. Secondo Jean Monnet, l’idea fondamentale dell’integrazione europea era questa: «Noi non creiamo coalizioni tra Stati, noi uniamo esseri umani». Malgrado gli enormi progressi, però, l’interrogativo si pone nuovamente: che cos’è che unisce le persone in Europa? Che cosa provoca il nuovo disincanto europeo? Quale strategia si può trovare per unificare l’Europa nel Ventunesimo secolo?

Il malessere europeo si manifesta oggi anche nell’emergere di forme di populismo di destra. Dopo la seconda guerra mondiale, il nazionalismo era screditato, mentre libertà e uguaglianza politica diventavano norme democratiche generalmente accettate. I conservatori reazionari, che consideravano tradizionalmente con atteggiamento critico i valori del liberalismo politico, erano costretti ad accettare un ruolo di alleato di secondo piano (spesso in stretta collaborazione con i democratici cristiani), se non volevano restare condannati all’irrilevanza, come il Movimento Sociale in Italia. La base economica di questa alleanza di centrodestra era una miscela di liberalismo economico e di nazionalismo classico, quella che i tedeschi chiamano economia sociale di mercato.1 Non è un caso che gli economisti favorevoli a un mercato rigido in Germania guardino con un occhio critico all’integrazione europea. Di converso, i socialdemocratici hanno sempre capito che in un’economia di mercato la protezione sociale della libertà individuale e la rivendicazione di un’equità politica erano realizzabili solo in un quadro stabile di cooperazione internazionale. La loro alternativa all’economia di mercato sociale era un keynesismo internazionalista. Lo Stato serviva da strumento per bilanciare libertà personale e uguaglianza sociale all’interno del paese, e per preservare la pace nel mondo. Per questo la socialdemocrazia moderna è liberale, sociale e internazionale. Il Partito socialdemocratico tedesco, la SPD, sosteneva già nel suo programma di Heidelberg del 1925 la costituzione degli Stati Uniti d’Europa, e non è un caso che Helmut Schmidt sia tra gli eminenti padri fondatori dell’euro.2

Dopo la caduta del Muro di Berlino, sembra che la filosofia politica moderna stia smarrendo la propria forza d’integrazione. Il pensiero conservatore e reazionario ha ricominciato a guadagnare terreno in molte e diverse forme. Un «nazionalismo classico» è promosso da governi che mettono l’accento su «valori e interessi nazionali». Per esempio, il primo ministro francese, Dominique de Villepin, proclama il «patriottismo economico» e boicotta le fusioni tra imprese francesi e tedesche. Il primo ministro polacco Lech Kaczynski si dice convinto che lo Stato-nazione sarà rafforzato dall’ingresso nell’Unione europea. In Germania l’iniziale euro-entusiasmo ha lasciato il posto a una mentalità d’assedio e a un miope nazionalismo guglielmino che afferma che «abbiamo anche noi i nostri interessi».

Meno spettacolare, ma probabilmente più capace d’incidere è il riemergere di un nuovo nazionalismo decentrato. Questa ideologia privilegia l’appartenenza a una comunità rispetto agli interessi individuali. Se il nazionalismo classico s’identificava con lo Stato, questo nuovo mette l’accento sull’identità culturale. Che si tratti degli euroscettici britannici, del movimento di liberazione corso, degli autonomisti baschi o catalani, della Lega Nord, degli indipendentisti fiamminghi, di quelli che si richiamano all’appartenenza bavarese, per tutti si tratta di un’idealizzazione dell’identità e di un romantico «io», e di converso tutti rifiutano ciò che appare diverso e alieno. Sono manifestazioni di ideologie pre-democratiche e anti-illuministe.3

Da quasi due secoli gli europeisti convinti hanno cercato di superare l’ideologia nazionalista, conflittuale e aggressiva. I progressi non sono mai stati tanto decisi come ai nostri giorni. Sarebbe però sbagliato dar retta a ragionamenti del tipo «l’Europa non ci serve più, perché la pace è ormai assicurata ». In quanto la pace richiede il rispetto dell’individualità di chi è diverso. Si sostiene solo se è tutelata da istituzioni che proteggono la dignità degli individui piuttosto che quella di gruppi, culture o nazioni.4 La pace deve essere conquistata ogni giorno di nuovo.

Perché il nazionalismo ha riacquistato popolarità? I fautori del nuovo nazionalismo non capiscono che oggi il benessere dei cittadini europei dipende da interessi locali, regionali, nazionali ed europei, che non si possono scambiare tra loro, ma che devono sommarsi gli uni agli altri. La crescita del benessere non è nazionale o locale, ma è la somma degli interessi dei singoli cittadini. La politica ottimale, perciò, richiede che i beni pubblici, che i cittadini utilizzano a livelli diversi, siano amministrati in modo efficiente a tutti i livelli. Il nazionalismo impedisce che si formino istituzioni capaci di promuovere il benessere dei cittadini. Se si vuole ridare slancio all’integrazione europea, è necessario comprendere perché il nazionalismo ha riacquistato popolarità.

Due fattori possono spiegare il riemergere di un conservatorismo retrogrado, che esalta l’identità, la tradizione e la patria a destra e a sinistra:5 la nuova congiuntura geostrategica del dopo guerra fredda e le sfide economiche della globalizzazione.

Scomparsa la minaccia sovietica, la posizione geostrategica dell’Europa è stata fondamentalmente alterata, con conseguenze di vasta portata per le ideologie politiche. Negli anni della guerra fredda, la difesa degli interessi nazionali e della libertà economica e politica sembrava possibile solo collaborando strettamente con altri paesi. L’internazionalismo era una garanzia di sopravvivenza, anche per i nazionalisti. Ciò spiega il consenso permissivo che ha dominato per decenni sul processo di integrazione europea, al di là dei confini di partito.

Finito il comunismo, sono scomparse le condizioni di questo sostanziale consenso. I conservatori reazionari possono vantare nuovamente l’ipotetica superiorità delle proprie identità e manifestare un’intolleranza senza limiti. È così svanita la forza collante che derivava dalla minaccia comune.

Paradossalmente, le forze democratiche devono giustificare i propri ideali politici e mettere in campo la propria forza d’integrazione oggi più che mai.

Un’altra causa importante della ripresa del nazionalismo è la svolta neoliberale attuata da Ronald Reagan e da Margaret Thatcher. Il neoliberalismo era la risposta alla stagnazione economica dopo il fallimento del sistema monetario internazionale di Bretton Woods. Si considerò a quel punto la libertà economica come motore di crescita, mentre l’uguaglianza politica e sociale furono svalutate e il settore pubblico cominciò a restringersi. La rivoluzione anti-keynesiana elevava a nuovo dogma il monetarismo nazionalista. Questa nuova ideologia spianava la strada a una globalizzazione rapida e incontrollata. Globalizzazione significa apertura di mercati grazie al progresso tecnologico e alla riduzione dei costi dell’informazione, dei trasporti e delle transazioni commerciali. Ma essa non incide su tutti i mercati nello stesso modo. In prima linea ci sono le informazioni, le comunicazioni e le finanze. Ne sono toccate direttamente le merci facilmente trasportabili, come i tessili, mentre quelle non scambiabili, in particolare il settore dei servizi pubblici, sono solo indirettamente influenzate dalla globalizzazione. Questo squilibrio nel processo di globalizzazione produce vincitori e vinti.

Gli effetti non voluti della liberalizzazione. Si può interpretare la globalizzazione come l’opera di ideologi neoliberali ai quali non interessa la sorte dei più deboli e dei più poveri. È una concezione non del tutto corretta. La logica della globalizzazione nasce dai vantaggi dell’economia di scala, che rendono conveniente investire solo se ci sono grandi mercati. Per questo ha bisogno della riduzione delle barriere commerciali, per evitare la stagnazione economica. L’Unione europea ha fatto propria questa logica, creando il Mercato comune europeo e la moneta unica. La riduzione delle barriere commerciali non tariffarie ha consolidato la competitività internazionale dell’Europa e quindi ha protetto milioni di posti di lavoro. Malgrado le giustificazioni economiche, però, la liberalizzazione provoca effetti politici non voluti. Se pochi mettono in dubbio il fatto che le politiche neoliberali stanno producendo crescenti disuguaglianze sociali, spesso si stenta a capire che esse rappresentano anche una minaccia per la democrazia. Il neoliberalismo limita il richiamo alla libertà ai soli aspetti economici e quindi indebolisce quello all’uguaglianza, che è uno dei principi fondamentali di una società moderna. Il conservatorismo reazionario riemerge perché il riduzionismo neoliberale provoca uno squilibrio politico, che mina la fiducia nella correttezza e nella giustizia delle democrazie moderne. Questa evoluzione è favorita da un importante meccanismo economico: la liberalizzazione in economia migliora la produttività e aumenta la redditività nel settore dei beni commerciabili. Se questo è auspicabile per garantire la competitività dell’economia europea, c’è anche un lato opposto della medaglia: nei settori meno dinamici dell’economia, i margini di profitto finiscono per comprimersi. Le imprese che possono vantare grossi aumenti di produttività accumulano rendite di innovazione e nello stesso tempo fanno scendere sotto la media il ritorno di capitale nei settori più tradizionali. Questo andamento provoca una pressione economica sulle medie e piccole imprese, che per lo più operano sui mercati locali. Sta qui una delle cause principali del populismo. I populisti di destra rivendicano retribuzioni e imposte più basse, per difendersi dalla concorrenza straniera. I populisti di sinistra si oppongono alle riduzioni dei salari, dandone la colpa alla manodopera immigrata, e spesso richiedono un allentamento della politica monetaria e misure protezionistiche. L’una e l’altra articolazione del populismo hanno in comune la xenofobia e un’esaltazione nazionalistica dell’identità. Sono quindi di ostacolo all’integrazione europea. Il vero problema, però, non è la globalizzazione, e neppure l’apertura dei mercati. Quella che è assente, piuttosto, è una politica dei redditi equa e giusta, che compensi chi si trova svantaggiato dall’integrazione dei mercati redistribuendone gli utili.

Una politica del genere, però, non è realizzabile in ambito nazionale. Nell’Unione monetaria è la Banca centrale europea che stabilisce le condizioni economiche. La prevalente gestione intergovernativa (una cooperazione volontaria dei governi) non è nemmeno in grado di fungere da moderatrice tra vincitori e vinti della globalizzazione, perché i governi nazionali non devono rispondere a una costituzione europea. La predominanza degli interessi degli Stati-nazione impedisce che si affermino gli interessi collettivi dei cittadini europei. Gli esperti di economia politica definiscono questo un «problema di azione collettiva».6 C’è un modo facile per uscire dal dilemma: mentre i governi nazionali sono eletti per attuare le politiche nazionali, un governo europeo deve farsi carico della politica europea.

Un governo per l’Europa. L’idea di un governo europeo è nell’aria. Qualcuno l’ha discussa apertamente, per esempio il primo ministro belga Guy Verhofstadt.7 Per altri essa nasce dalla necessità di riformare la Commissione europea. È un’esigenza ormai inevitabile, perché l’ambiente della politica europea è cambiato radicalmente dalla firma del Trattato di Roma, mentre le istituzioni politiche sono rimaste in gran parte immutate.

L’Europa è una realtà quotidiana per tutti i suoi cittadini. I consumatori approfittano del Mercato unico, in tasca hanno gli euro. Molte aree politiche si europeizzano perché le decisioni di singoli governi hanno conseguenze per i cittadini di tutti gli altri paesi. Per esempio le norme nel Mercato unico sulla tutela dei consumatori o sui minimi standard sociali, ma anche sulla concorrenza, sul commercio estero e la politica agricola, toccano tutti i cittadini europei nel loro insieme. Nella zona dell’euro la politica di stabilizzazione, cioè l’interazione tra politica monetaria e politica fiscale, è diventata di patrimonio pubblico. Per questo ogni cittadino dell’eurozona è soggetto alle stesse condizioni di tassi d’interesse e di cambio, quando ottiene un mutuo o si reca all’estero. In tutti questi campi le scelte politiche delle autorità nazionali hanno conseguenze al di fuori della propria giurisdizione e per questo gli interessi nazionali diventano facilmente una causa di disturbo degli interessi collettivi europei. Per esempio, se un paese aumenta il proprio deficit di bilancio, questo può provocare un aumento dei tassi d’interesse sul mercato dei capitali e quindi comportare una minore crescita economica per tutti.

Gli economisti insistono da molto tempo sul fatto che certi beni pubblici si possono amministrare in modo efficiente a livello di Stato centralizzato. Ciò è particolarmente vero per la politica macroeconomica, ma anche per la lotta alla criminalità e per la politica di sicurezza. In questi ambiti, è necessaria un’unica autorità politica a livello europeo.

La democrazia va preservata. A questo punto ci troviamo davanti al problema della democrazia: non è più possibile delegare più ampie competenze politiche a livello europeo, senza avere prima risolto la questione della legittimità. In un sistema democratico, i cittadini incaricano i governi di fare le leggi, che successivamente vengono applicate su di loro. Nell’Unione europea le cose non stanno così. I cittadini sono segregati negli Stati-nazione ed è qui che eleggono i propri governi, responsabili di una indistinta miscela di beni pubblici nazionali ma anche europei. I governi negoziano a Bruxelles compromessi che siano utili ai propri parziali interessi, ma non necessariamente puntano al massimo comune interesse di tutti i cittadini europei. In tal modo il sistema intergovernativo europeo non produce né legittimità politica né efficienza.

Ecco perché l’Europa ha bisogno di essere democratizzata. I beni pubblici europei devono essere amministrati da un governo eletto da tutti i cittadini europei. Le decisioni politiche nel contesto europeo devono diventare più politicizzate.

La democrazia è l’articolazione istituzionale dell’esigenza di uguaglianza politica. Per questo è sempre stata la rivendicazione centrale della sinistra politica. Ma quando le scelte politiche sono privatizzate dalle politiche neoliberali, il controllo democratico finisce per sparire. Non tutti i cittadini hanno parità di voto e godono di pari diritti. Tuttavia, poiché molte decisioni hanno effetti non voluti su altri cittadini estranei ai processi decisionali privati o decentrati, queste esternalizzazioni hanno bisogno di meccanismi che le regolino. Tradizionalmente era lo Stato che svolgeva questa funzione, ma la cosa non funziona più. L’essenza dello Stato democratico consiste nel fatto che ogni cittadino ha pari influenza nella politica, attraverso il suffragio universale. I cittadini, così, sono sovrani e lo Stato è il loro rappresentante. Nella misura in cui tolgono spazio allo Stato, i neoliberali sferrano anche un attacco ai diritti democratici dei cittadini, che sono le fondamenta della sovranità repubblicana.

Se vuole prendere sul serio la rivendicazione di uguaglianza, la sinistra democratica deve usare la democrazia a livello europeo, come strumento per correggere lo squilibrio provocato dal neoliberalismo.

All’opposto, i conservatori neoliberali propongono soluzioni diverse al problema dell’esternalizzazione dei processi decisionali. La prima soluzione riguarda la delega delle competenze decisionali ad autorità indipendenti.

Così si può forse migliorare l’efficienza tecnocratica, ma si mette anche uno schermo tra chi decide e il controllo democratico.

Negli ultimi vent’anni, a questi fini, l’Unione europea ha subito sempre più abusi da parte del sistema di cooperazione intergovernativa. Molti cittadini notano spesso l’assurdità di una pletora di norme, come quelle direttive europee sulle dimensioni delle mele o sulle specifiche tecniche dei sedili dei trattori. Il sistema tecnocratico che esclude un controllo democratico da parte dei cittadini alimenta la frustrazione politica che finisce per esprimersi nel populismo, nell’euroscetticismo e nei nuovi nazionalismi. L’altra soluzione conservatrice del problema dell’esternalizzazione è il ritorno alla morale, ai costumi e ai valori reazionari della cultura dominante. Invece di realizzare le proprie aspirazioni collettive liberamente, attraverso il controllo dello Stato democratico, i cittadini sono indotti a cedere e a sottomettersi ai valori tradizionali di una comunità culturale immaginaria.

Negli Stati Uniti questo porta al fondamentalismo cristiano del Partito Repubblicano, in Europa al nazionalismo decentrato degli euroscettici. Tutti i democratici dovrebbero accettare un fatto: i beni pubblici che interessano congiuntamente tutti i cittadini europei devono essere amministrati da un comune governo europeo che non sia solo responsabile verso di loro, ma che sia anche da loro revocabile, se lo decidono gli elettori. Ai cittadini serve non solo una voce, ma anche una scheda elettorale.

Può il Trattato costituzionale essere uno sbaglio? I nazionalisti obiettano che non ci può essere democrazia senza un demos europeo.

Per di più essi sostengono che i compromessi della politica europea sono negoziati da governi eletti democraticamente e che quindi sono sufficientemente legittimati.8 Tuttavia il concetto conservatore di una comunità fondata sull’identità non ha niente a che vedere con la rappresentanza democratica di interessi. Se gli europei sono toccati dalle decisioni politiche prese a livello europeo, devono avere il diritto democratico all’autodeterminazione. L’argomento della rappresentanza politica, poi, non sta in piedi: la formazione della volontà democratica avviene attraverso i pubblici dibattiti, che sono particolarmente intensi nei periodi che precedono le elezioni generali. Invece il Consiglio europeo dei governi degli Stati membri non esce da elezioni generali.

Esso assomiglia a un parlamento eterno che recluta i suoi deputati attraverso elezioni di secondo grado. La sua funzione è quella di difesa degli interessi degli Stati-nazione, soprattutto nel caso di condivisione di competenze politiche, e non di rappresentanza dei cittadini europei.

Lo strumento naturale della rappresentanza popolare è il Parlamento europeo. Esso, però, non ha il potere di eleggere un governo europeo.9

Così la tesi nazionalista dell’assenza di un demos europeo impedisce non sono un’amministrazione efficiente dei beni pubblici europei, ma anche una realizzazione democratica degli interessi dei cittadini d’Europa.

Questa fatale mistura d’ideologia nazionalista e di istituzioni politiche pre-moderne ha messo in campo tutta la sua forza devastante ed esplosiva nei referendum europei sul Trattato costituzionale in Francia e in Olanda. Senza una moderna alternativa democratica, l’Unione europea ha poche probabilità di sopravvivere. È stato allora un errore concludere il Trattato costituzionale?

Il Trattato è un passo nella giusta direzione. I sondaggi d’opinione indicano chiaramente che la maggioranza dei votanti per il «no» non è contraria all’Europa, ma a quello specifico Trattato.10 Soltanto il 36% dei cittadini dell’Unione ritiene che il proprio voto conti in Europa, mentre il 61% desidera una costituzione che renda l’Europa più efficiente.

Il Trattato propone più democrazia. Ma il fatto che sia possibile modificarlo solo all’unanimità è stato uno degli argomenti principali che l’ha fatto respingere dagli oppositori di sinistra. Soprattutto la Parte III, che contiene specifiche linee politiche e non regole di gestione politica, è stata vista come un modo di incidere nell’acciaio il modello neoliberale.

Il vero problema del Trattato, dunque, non è tanto la carenza di contenuti sociali, quanto la questione irrisolta della democrazia. La democrazia europea ha bisogno che i cittadini possano decidere l’orientamento politico per i beni pubblici che sono d’interesse per tutti loro. Tutte le altre decisioni politiche sono affidate ai governi nazionali o alle amministrazioni locali in base al principio di sussidiarietà. Questa tesi rispecchia la moderna idea secondo la quale i singoli cittadini sono i sovrani titolari sia dei beni privati sia di quelli pubblici, e sono loro che incaricano le varie istituzioni di amministrarli nella misura in cui tali beni incidono sulla loro vita.

Quali sono esattamente i beni pubblici europei? Il Trattato costituzionale ha assegnato chiaramente le competenze politiche. Ha definito una responsabilità esclusiva dell’UE in questi campi: unione doganale, politica della concorrenza nel Mercato unico, politica monetaria nella zona dell’euro, conservazione delle risorse biologiche marine, politica commerciale comunitaria, alcuni trattati internazionali. Inoltre, alcune competenze sono condivise con l’Unione dagli Stati membri. Il Trattato definisce poi gli ambiti di competenza esclusiva degli Stati membri, anche se questi hanno la facoltà di cooperare nell’interesse proprio e di quello comune.

Si potrà non essere d’accordo con questo elenco di competenze. Per esempio, il primo ministro belga Guy Verhofstadt ha proposto che il governo europeo abbia la responsabilità nei campi della sicurezza e della giustizia, della politica tecnologica, di quella economica e sociale, della diplomazia e delle forze armate. A medio termine, questa tesi può essere ragionevole, ma per l’immediato può bastare attribuire una piena legittimità democratica per le competenze istituzionali prospettate dal Trattato costituzionale.

Cittadini come legislatori. Le competenze esclusive dell’Unione devono essere l’elemento centrale del futuro governo europeo. Esso deve rispondere agli elettori europei dell’attuazione dell’orientamento politico generale. Deve essere eletto e revocabile dal Parlamento europeo. Si potrebbe trasformare in un governo del genere la Commissione europea. I cittadini avrebbero in tal modo il potere di influenzare la politica europea. Quest’idea è disinvoltamente respinta dai governi nazionali e dai loro funzionari, che ritengono di essere i sovrani titolari del potere nei rispet- tivi Stati. Invece la loro è una concezione predemocratica dello Stato. Per i socialdemocratici e per la sinistra europea, come per gli esponenti più illuminati del centrodestra, dovrebbe risultare ovvio che i veri titolari dei beni pubblici europei sono i cittadini e che, quindi, sono loro che devono avere il diritto di partecipare al processo decisionale. Certo, ciò non esclude il fatto che gli Stati membri mantengano il diritto di manifestare i propri interessi dell’ambito delle competenze condivise.

La presidenza tedesca dell’Unione europea dovrà ora salvare il salvabile del Trattato costituzionale.

Per preservarne la sostanza, se ne dovranno rinegoziare alcune parti. In tale contesto, è importante che il nuovo trattato apra di più l’Europa alla democrazia e alla partecipazione politica dei suoi cittadini. Non sarà un compito facile. La sinistra democratica dovrà mobilitarsi e fare pressione per avere più democrazia in Europa attraverso il Partito Socialista Europeo. Democratizzare l’Europa significa politicizzarla. Se si ritiene che abbiano il diritto di decidere, i cittadini devono allora avere la possibilità di scegliere tra diverse opzioni politiche. Sono i partiti che forniscono i programmi politici e il personale politico, e che competono per avere i voti dei cittadini. La competizione tra i partiti, però, è possibile se esiste un vasto consenso costituzionale tra tutti i grandi schieramenti democratici. Non è un caso che la teoria della giustizia sottolinei il fatto che una buona costituzione deve essere neutrale rispetto ai valori, in relazione al contenuto dei concreti indirizzi politici, mentre le norme della politica devono rispecchiare i principi di correttezza e di giustizia.

«È di noi tutti, questa Europa». Una costituzione democratica ha bisogno di una coalizione che la fondi e che condivida i principi generali di una democrazia moderna, quelli di libertà, di uguaglianza e di solidarietà.

Un’ampia coalizione social-liberale di dimensioni europee – che includa anche la maggior parte dei partiti democratici cristiani europei – deve diventare il blocco storico, il movimento fondante della democrazia europea, che dovrà mettere il nazionalismo in una posizione subordinata. In base a una tale costituzione, i cittadini eleggeranno poi il governo europeo, e i partiti competeranno per le varie cariche e proporranno le scelte politiche nel dibattito politico di tutti i giorni. La lotta politica verterà sulle scelte ideologiche: ci serve più libertà economica o più giustizia sociale? In un’Europa moderna e democratica, i cittadini devono poter determinare di persona il proprio destino e realizzare le proprie preferenze politiche attraverso elezioni generali. L’Europa sarà allora vicina a loro, una repubblica europea. Il concetto può sembrare grandioso, ma l’idea che ne sta alla base è semplice. Willy Brandt una volta l’ha espressa così: «È di noi tutti, questa Europa».11

 

[1] La memoria pubblica è spesso corta. Anche i socialdemocratici tedeschi che oggi si richiamano all’economia di mercato sociale, non devono dimenticarsi che questo concetto era stato coniato inizialmente come slogan contro di loro. Come ha messo in luce Wolfgang Münchau l’economia di mercato sociale non è né sociale né un’economia di mercato. W. Münchau, Das Ende der Sozialen Marktwirtschaft, Hanser, Monaco 2006. Se Ludwig Erhard parlava almeno di «prosperità per tutti», Konrad Adenauer, il primo cencelliere tedesco, era più cinico e aveva appiccicato l’etichetta «sociale» all’economia di mercato di Erhard. Si veda in proposito: A. J. Nicholls, Freedom with Responsibility: The Social Market Economy in Germany, 1918-1963, Oxford University Press, Oxford 2000.

[2] Per una definizione del ruolo di Helmut Schmidt nella creazione dell’euro, si veda S. Collignon e D. Schwarzer, Private Sector Involvement in the Euro: The Power of Ideas, Routledge, Londra 2003.

[3] Nei paesi euroscettici perfino i favorevoli all’Europa non sono immuni da approcci di tipo nazionalista. Per esempio nel Regno Unito o in Svezia molti si dichiarano per l’Europa sostenendo che l’Unione assomiglierà di più al proprio paese.

[4] Per evitare fraintendimenti: il rispetto verso il singolo membro di un gruppo, per esempio verso un musulmano, implica il rispetto per la religione di tutti i membri di quel gruppo. Invece il rispetto verso una cultura o una nazione non garantisce necessariamente quello per la dignità e i diritti dei singoli appartenenti a tale gruppo.

[5] Il dibattito sul referendum in Francia è stato un esempio particolarmente sgradevole di nazionalismo di sinistra.

[6] Per una discussione più approfondita, si veda Collignon, Is Europe going far enough? Reflections on the EU’s Economic Governance, in «Journal of European Public Policy», 5/2004.

[7] G. Verhofstadt, The United States of Europe, The Federal Trust, Londra 2006.

[8] Perfino la Corte costituzionale tedesca ha malauguratamente preso questa posizione nella sua delibera su Maastricht nel 1993. L’autore di questa sciagurata sentenza ultraconservatrice era Paul Kirchhof, che per un certo tempo è stato il candidato di Angela Merkel al posto di ministro delle finanze, prima delle ultime elezioni generali. Si veda in proposito J. H. H. Weiler, The State «über alles»: Demos, Telos and the German Maastricht Decision, NYU School of Law, Jean Monnet Center, Working Paper 6/1995.

[9] Qualcuno obietta che il Parlamento europeo non ha legittimità perché le sue elezioni sono eventi politici di second’ordine e sfruttate come occasioni di protesta contro i propri governi nazionali. Se, però, i cittadini avessero il diritto di eleggere il governo europeo, crescerebbe indubbiamente il loro senso di responsabilità.

[10] Commissione europea, Eurobarometer 65. Public Opinion in the European Union, luglio 2006.

[11] La versione in lingua tedesca di questo articolo è stata pubblicata con il titolo Europa democratisch machen, in «Berliner Republik», 6/2006, www.b-republik.de.