Il martello e il nemico. Il nuovo profilo delle minacce e i rischi delle decisioni politiche

Written by Fabrizio Battistelli Thursday, 01 April 2004 02:00 Print

Due cause dell’insicurezza: le minacce e i rischi Ogni anno che passa, la terra è un luogo meno sicuro, stretta com’è tra deterioramento ambientale e aggressività nei rapporti politici internazionali. Il microscopico, ma per noi significativo, frammento di universo in cui ci è capitato di partecipare al fenomeno della vita è assediato da rischi e da minacce progressivamente più incombenti, sia sul piano ecologico che su quello politico-strategico. Da un lato, la piena consapevolezza di questo processo è ridotta, attestata in nicchie di riflessione scientifica inevitabilmente elitarie, scarsamente presente nel discorso pubblico istruito dai mass media e tendenzialmente ostacolata dal potere.

 

Due cause dell’insicurezza: le minacce e i rischi Ogni anno che passa, la terra è un luogo meno sicuro, stretta com’è tra deterioramento ambientale e aggressività nei rapporti politici internazionali. Il microscopico, ma per noi significativo, frammento di universo in cui ci è capitato di partecipare al fenomeno della vita è assediato da rischi e da minacce progressivamente più incombenti, sia sul piano ecologico che su quello politico-strategico. Da un lato, la piena consapevolezza di questo processo è ridotta, attestata in nicchie di riflessione scientifica inevitabilmente elitarie, scarsamente presente nel discorso pubblico istruito dai mass media e tendenzialmente ostacolata dal potere. Dal lato opposto – e attualmente questo è uno dei pochi fattori di ottimismo – della gravità della situazione esiste presso l’opinione pubblica una percezione non dettagliata nei particolari, ma chiara nella sostanza.

Sul piano ecologico, il paragone con la situazione di appena trenta o anche venti anni fa è, per il deterioramento che rivela, impressionante. Fino alla crisi energetica del 1973 l’incoscienza dei «limiti dello sviluppo» (come erano stati definiti alla vigilia della crisi dal rapporto del MIT al Club di Roma) rispecchiava una situazione di (apparente) integrità delle risorse naturali e di facilità nell’accesso a esse. Strutturalmente l’inquinamento della terra, dell’aria e dell’atmosfera non aveva ancora raggiunto i livelli attuali. Il riscaldamento del pianeta e il buco dell’ozono costituivano fenomeni incipienti, oltre che sconosciuti. Il gruppo di testa dei paesi industrializzati (Stati Uniti, Europa occidentale, Giappone) non aveva sviluppato i ritmi frenetici di inquinamento di oggi e ad esso non si erano ancora aggiunti (come sta accadendo nel primo decennio del XXI secolo) colossi demografici quali la Cina e l’India.

Né la situazione appare più incoraggiante sul piano politico-strategico, dove sino a quindici anni fa l’assetto bipolare e il duopolio nucleare assicuravano, sia pure nell’alternanza di modalità di competizione/cooperazione, un framework consolidato per la gestione dei conflitti internazionali. La scomparsa per autodissoluzione di uno dei due contendenti/partner ha lasciato il campo a un mondo che è, insieme, «unipolare» e «multicentrico». Le due caratteristiche non si elidono né danno vita a una qualche forma di compensazione. L’«unipolarità», cioè lo status degli USA di unica superpotenza sopravvissuta, militarmente più forte, non soltanto di ogni rivale ma anche di ogni ipotizzabile coalizione di rivali, non annulla di per sé l’altro cruciale dato (il «multicentrismo»), sulla base del quale nell’arena internazionale agiscono numerosi e caotici attori. Come ha sottolineato Rosenau,1 questi ultimi sono tanto di natura orizzontale (Stati) quanto verticale (entità pubbliche e private infrastatuali) e sono in grado, gli uni e gli altri, sia di intervenire all’interno, sia di proiettarsi all’esterno dei confini statali. Rispetto alla fase storica precedente, la novità è che non soltanto gli attori minacciosi possono – liberati dalla gabbia della guerra fredda – operare dando vita a sanguinose guerre civili a sfondo religioso, nazionale, etnico, ma possono anche (come ha mostrato l’11 settembre) esportare la minaccia in qualsiasi parte del mondo decidano di farlo.

Per quattro decenni dopo la fine della seconda guerra mondiale, la divisione del mondo in due blocchi aveva fatto assumere al conflitto una forma ritualizzata. Nel mondo unipolare e multicentrico lo scenario strategico è drasticamente mutato. Dalla reciproca distruzione assicurata (totalizzante e concomitante), propria della minaccia nucleare, con il terrorismo si è passati a una serie di distruzioni particolari, selettive e sequenziali. Ma la caratteristica che ha drasticamente modificato il quadro strategico è ancora un’altra: da una minaccia virtuale si è passati a un’offensiva reale.

Tabella 1

Al tempo della guerra fredda l’Unione Sovietica non ha mai potuto attaccare gli Stati Uniti – così come gli USA non hanno mai potuto attaccare l’URSS – in quanto un’aggressione con armi nucleari al territorio del nemico avrebbe comunque lasciato a quest’ultimo una panoplia di armi nucleari basate all’esterno (su aerei e sottomarini) sufficiente a distruggere il territorio dell’attaccante. Questo è il principio strategico della deterrenza, o dissuasione, la cui applicazione ha ottenuto il risultato di stabilizzare la sfida tra le due superpotenze nel cosiddetto equilibrio del terrore. Oggi invece, non avendo un territorio, né uno Stato, né una società da difendere, il terrorismo internazionale elude il principio della deterrenza. I tentativi di tradurre in pratica tale principio, operati dagli Stati Uniti prima in Afganistan, poi in Iraq, domani in altri «Stati canaglia», risultano (ed eventualmente risulteranno) largamente inefficaci. Le ritorsioni militari, infatti, conseguono in misura ridotta l’obiettivo di punire i terroristi che hanno compiuto gli attentati, e in misura nulla quella di dissuadere i terroristi che ne stanno per compiere di nuovi. L’esito è quello cui assistiamo dall’11 settembre 2001 all’11 marzo 2004: l’affermazione di uno stato permanente di squilibrio. Lo squilibrio del terrore.

Drammatico per tutti, il bilancio è particolarmente allarmante per l’Occidente che, già frazione del pianeta privilegiata anche nell’ambito della sicurezza, attualmente deve registrare un drastico peggioramento in questo campo. Va detto con chiarezza che le cause di tale peggioramento sono sia esogene che endogene. Tra le cause esogene un ruolo decisivo spetta all’aggressività sprigionata da un connubio di masse e di élites frustrate (queste ultime in parte emarginate, in parte coltivate in passato dai governi occidentali), che condividono l’appartenenza al mondo arabo e/o alla religione musulmana. Settori minoritari ma influenti di queste masse e di queste élites trovano sempre più spesso nel fondamentalismo islamico il retroterra ideologico e nel terrorismo internazionale lo strumento strategico per esprimere il proprio irriducibile antagonismo. Tra le cause endogene, invece, sono da annoverare sia le ragioni di scambio dei paesi sviluppati con il resto del mondo, troppo ineguali per non generare conflittualità, sia le politiche prescelte dall’attuale leadership americana, le quali appaiono destinate non ad attenuare bensì a esasperare la conflittualità stessa.

A questo punto è necessario introdurre una distinzione tanto cruciale quanto sinora trascurata. Nel caso dell’insicurezza di origine esogena dobbiamo parlare di minaccia, nel caso dell’insicurezza di origine endogena dobbiamo parlare di rischio. La distinzione non è oziosa, perché chiama in causa la quintessenza del discorso strategico, cioè la presenza e l’entità – ovvero l’assenza – di un’intenzionalità. Sono numerosi gli eventi in grado di condizionare o menomare la sicurezza, uno dei beni più importanti (e pregiudiziale nei confronti di tutti gli altri) per l’individuo e per la società. Tali eventi, peraltro, hanno cause differenti, le quali si dispongono variamente lungo i due assi dell’intenzionalità/non intenzionalità.

Figura 1

Al livello di «intenzionalità zero» si colloca il «pericolo», concetto che descrive uno stato di crisi che interviene a perturbare la normalità per cause esclusivamente naturali, ad esempio un terremoto o l’eruzione di un vulcano. Sull’asse opposto, quello della massima intenzionalità, si dispone la «minaccia», cioè uno stato di crisi intenzionalmente indotto da un attore dotato di intelligenza, di volontà e di risorse che il medesimo attore finalizza al conseguimento di propri scopi. Una terza tipologia di crisi, infine, è rappresentata dal «rischio», cioè dall’eventualità di un danno che condivide con la prima tipologia (il pericolo) la mancanza dell’intenzionalità diretta ma condivide con la seconda (la minaccia) una componente sia pure indiretta di intenzionalità, insita nell’aver creato le circostanze dalle quali può scaturire una crisi. Secondo l’analisi sociologica più avanzata,2 costituiscono rischio le situazioni critiche che sono determinate da decisioni (politiche e tecniche), cioè da scelte tra corsi alternativi di azione. Fondate su criteri razionali e miranti a obiettivi funzionali, tali decisioni generano nondimeno conseguenze inattese che possono essere in determinate condizioni, e/o per taluni attori, irrazionali e disfunzionali.

Rispetto alla retorica positivistica del perseguimento della soluzione ottimale – unica e tale indistintamente per tutti – la prospettiva autoriflessiva, propria della società contemporanea, muove dall’accettazione di una pluralità di soluzioni auspicabili (e quindi di decisioni politiche) in funzione di attori e di settori interrelati ma legittimamente differenziati tra loro. È così che decisioni di natura politica o tecnica, di per sé foriere di conseguenze positive in determinati ambiti (ad esempio relativamente allo sviluppo economico delle società che le intraprendono), possono comportare conseguenze negative in ambiti diversi dallo sviluppo economico (ad esempio nell’inquinamento ambientale, nell’esaurimento delle risorse non rinnovabili ecc.); ovvero possono comportare conseguenze negative nel medesimo ambito, ma per altri attori (ad esempio contribuendo al sottosviluppo delle società del Terzo mondo).

Classificare un problema in ambito internazionale come un «rischio» oppure come una «minaccia» riveste numerose e cruciali implicazioni. La maggiore di tutte è l’individuazione della presenza o meno di un «Nemico». Attribuire un’intenzionalità esplicita, e quindi a un Nemico, un determinato stato di crisi, ispira reazioni che possono innescare conflitti incontrollabili. Non avere l’acqua o non averne a sufficienza configura una crisi grave; non averla perché qualcuno ti capta le sorgenti o ti devia il corso dei fiumi (è accaduto e in futuro accadrà sempre più spesso sulla scena internazionale) costituisce un atto di ostilità che può provocare una guerra. In un caso (interpretazione del danno come minaccia) prevale una proiezione all’esterno dei problemi, mentre nell’altro (interpretazione del danno come rischio) prevale l’assunzione di corresponsabilità nella loro prevenzione (è di questo tipo il protocollo di Kyoto, con il quale alcuni paesi industrializzati, con in testa l’Unione europea, si sono impegnati a ridurre i gas di scarico che «bucano» l’ozono).

A complicare ulteriormente le cose, infine, vi è il dato che la percezione tanto delle minacce quanto dei rischi non è identica nelle differenti culture nazionali. Quando si parla dell’«Atlantic gap» che sta allontanando le due sponde – quella europea e quella americana – dell’Oceano, si tende a sottolineare le differenti opzioni politiche. Invece le differenze culturali, che pure hanno il loro peso, vengono trascurate. Anche la percezione della minaccia, come ogni altro atteggiamento umano, è filtrata dalla cultura, cioè dalle esperienze, dai valori, dalle propensioni e dalle fobie condivise da una collettività.

Nella cultura americana, ad esempio, i successi riscossi nell’applicazione di scienza e tecnologia alla produzione hanno condotto a interiorizzare profondamente l’ideologia positivista. In un contesto culturale dominato dalla fiducia nella validità assoluta delle invenzioni e delle applicazioni scientifiche, c’è una scarsa propensione a focalizzare il tema dei rischi. Da un lato, infatti, viene ritenuto inverosimile che da scienza e tecnica possano provenire effetti dannosi. Dall’altro lato, quand’anche ciò accada, prevale la convinzione che questi ultimi possano essere fronteggiati e risolti da nuovi ritrovati che la scienza e la tecnica avranno provveduto ad approntare. I limiti di questo approccio emergono quando lo stato di crisi fa la sua comparsa nel mondo: la disponibilità ad assumersene la responsabilità è scarsa, mentre è molto maggiore la propensione a imputarne le cause a una strategia ostile, cioè all’azione intenzionale di un Nemico.

Questo pessimismo strategico, paradossalmente figlio dell’ottimismo positivista e pragmatista, costituisce un dato della cultura americana, emergente con progressiva chiarezza a partire dalla seconda guerra mondiale, in particolare dopo la proditoria aggressione subita a Pearl Harbor. L’ulteriore, e forse psicologicamente più grave, Pearl Harbor subita l’11 settembre 2001 ha accentuato il pessimismo americano. Il secondo successo politico di Osama Bin Laden (dovendo il primo considerarsi quello di essersi consacrato come il capo dei «dannati della terra» nel suo assalto all’Occidente) è consistito nell’aver diviso gli Stati Uniti dall’Europa. Di fronte a un colpo orribile come le Twin Towers tutte le attestazioni di solidarietà, per quanto sincere, a molti americani sono apparse insufficienti e le analisi degli alleati, per quanto razionali (o forse proprio perché «troppo» razionali) hanno accresciuto la sensazione pessimistica dell’incomprensione e dell’isolamento. Questo in un campo come quello strategico dove, effettivamente, la predisposizione a prefigurare il «caso peggiore» (worst case) non sempre esprime un atteggiamento paranoico, ma è talora un’opzione drammaticamente fondata.

In questo quadro si inserisce la rappresentazione sociale del Nemico. Dall’esperienza della frontiera a quella del contrasto alla criminalità organizzata nelle metropoli della prima metà del XX secolo, ricorre nell’esperienza americana la figura del «Nemico pubblico», un soggetto iniquo che si pone al di fuori della legge e minaccia la comunità. Anche nella politica internazionale le dimensioni cognitive e affettive della minaccia, e della difesa nei confronti di essa, tendono a strutturarsi intorno a quella che James Burk ha definito, in riferimento all’Unione Sovietica ai tempi della guerra fredda, il «nemico focale».3 Oltre che focalizzato, il nemico spesso è personalizzato – un nome, un volto, una storia ben precisi – secondo una lista che, anche soltanto in relazione all’ultimo ventennio, è, tra «cattivi» (villains) grandi e piccoli, lunga e perennemente aggiornata: l’ayatollah iraniano Khomeini (1979), il leader libico Gheddafi (1986), il dittatore di Panama Noriega (1989), il capoclan somalo Aidid (1993) fino, passando e ripassando per Saddam Hussein, a Osama Bin Laden.

La prospettiva politica e psicologica degli europei è differente perché differente è l’esperienza storica cui essi fanno riferimento. Il lutto per due conflitti di proporzioni devastanti iniziati nel Vecchio continente e di lì esportati nel resto del mondo e il lutto per due tragici esperimenti di controllo dei comportamenti umani della portata del nazismo e del comunismo hanno lasciato agli europei una pesante eredità sulla quale riflettere. Mentre secondo gli americani – osservava quasi trent’anni fa un realista acuto come Henry Kissinger – «ogni problema può essere superato se sottoposto a una sufficiente dose di expertise», gli europei vivono in «un continente coperto di rovine che testimoniano della fallibilità della previsione umana».4 Da qui la contrarietà degli europei nei confronti di una definizione complessiva della realtà secondo la logica binaria bianco/ nero, aperto/chiuso, 0/1; in politica internazionale, di una visione dicotomica amico/nemico; e infine, nei rapporti strategici, dell’uso della forza come strumento privilegiato per la soluzione delle crisi.

In alcuni casi la forza militare non è efficace rispetto agli scopi, come quando devono essere fronteggiati dei rischi. Che fare quando – come ad esempio nel Rapporto del Pentagono reso noto nel febbraio 2004 sui catastrofici cambiamenti climatici previsti a partire dal 2020 – manca l’intenzionalità diretta di danneggiare? «È una cosa deprimente» dichiara Doug Randall, uno dei due autori del Rapporto. «Si tratta di una minaccia alla sicurezza nazionale che è unica poiché non c’è un nemico contro il quale puntare i nostri cannoni».5

In altri casi la forza militare appare agli europei inefficace rispetto ai mezzi o, per meglio dire, la sua intensità andrebbe modulata non sull’entità delle risorse disponibili bensì sulla natura degli obiettivi da perseguire. Come ha scritto Robert Kagan, il teorico degli americani discendenti da Marte e degli europei discendenti da Venere, a chi possiede un martello tutte le cose sembrano chiodi.6 È così che la superpotenza mondiale, la quale detiene il dispositivo militare più ampio e potente del pianeta, ha la tendenza a definire la sicurezza in termini militari. Il guaio è che la minaccia al mondo occidentale non è di natura militare, bensì terroristica, che è cosa assai diversa. Come abbiamo visto, con il terrorismo non funzionano i principi della logica strategica, che funzionavano invece con un nemico tradizionale come l’Unione Sovietica. Essendo despazializzato e privo di un territorio da difendere, il terrorismo sfugge in larga misura all’azione militare. A due anni dalla strage delle Torri gemelle, Osama bin Laden non appare colpito (né in senso proprio, né in senso figurato) dalla disfatta subita dal regime di Saddam più di quanto non lo sia stato dalla disfatta del regime dei Talebani, cioè relativamente poco.

Ben lontana dal dissuadere, neutralizzare o almeno indebolire un nemico con le caratteristiche del terrorismo di matrice religiosa, l’opzione militare si rivela insignificante o addirittura controproducente a causa delle proprie caratteristiche intrinseche. Sul piano operativo lo strumento militare è palese, mentre quello terroristico è occulto; il primo è accentrato, mentre il secondo è decentrato; il primo è standardizzato, mentre il secondo è flessibile; il primo è rigido, mentre il secondo è resiliente, ecc. Insomma: due parallele che non si incontrano. È inutile, in questo scenario, disporre delle Forze armate più agguerrite e dell’arsenale di armamenti più potenti e precisi del mondo. Così come (osservava Keynes) le messe a Westminster possono giovare all’anima, ma sono scarsamente rilevanti per la produzione, il potenziamento della spesa e della produzione militare attuato dal presidente Bush potrà essere utile per stimolare il mercato all’interno ed espandere il ruolo geo-strategico degli Stati Uniti all’esterno, ma avrà scarse conseguenze nella lotta al terrorismo. Il risultato è che, come ha osservato recentemente l’ex segretario di stato Brzezinski, attualmente la potenza militare dell’America è al suo apice mentre la sua posizione politica globale è, dal punto di vista della sicurezza, al suo punto più basso.

 

L’atteggiamento dell’opinione pubblica di fronte alla minaccia terroristica

In questo scenario strategico i governi dell’Occidente e, per quanto più direttamente ci riguarda, i governi europei, devono affrontare quella che è forse la sfida più difficile: adottare le decisioni giuste senza perdere la fiducia dei propri cittadini. Per fare ciò devono cercare di guidare l’opinione pubblica, ma non possono ignorarne o contrastarne le convinzioni più radicate. Ovvero, farlo comporta seri danni per sé (come ha dimostrato la vicenda del governo di destra in Spagna) e, soprattutto, per i rispettivi paesi.

Un’analisi equilibrata del rapporto governi/opinione pubblica sui cruciali problemi delle minacce, dei rischi e dei mezzi per prevenire le une e gli altri (compreso l’uso della forza) deve innanzitutto sgombrare il campo dai pregiudizi e dalle polemiche strumentali. Il disturbo arrecato da piccole minoranze di estremisti che si aggirano nelle piazze non può impedire alla classe politica di porsi in una posizione di ascolto nei confronti del messaggio che giunge dall’opinione pubblica nel suo insieme. Attraverso un ampio ventaglio di canali espressivi – che vanno dai movimenti di protesta ai sondaggi, passando per il contatto diretto elettori/ eletti – quella che il «New York Times» ha definito «l’altra superpotenza mondiale» formula, nella sua grande maggioranza, una richiesta univoca ai governi: una sicurezza conseguita con i mezzi politici e tecnici, il più possibile alternativi all’uso della forza.

La posizione dell’opinione pubblica occidentale, ed europea in particolare, fonda questa sua posizione su due ordini di fattori: valori (frutto delle esperienze maturate nel passato) e valutazioni (frutto di percezioni e considerazioni basate sull’attualità politica). Dei valori abbiamo accennato. Per quanto riguarda le valutazioni politiche, vediamo adesso gli atteggiamenti dell’opinione pubblica in ordine alle minacce alla sicurezza, con particolare riferimento alla maggiore di esse: il terrorismo a sfondo religioso.

Già arma estrema, usata occasionalmente e in determinate condizioni, a partire dall’11 settembre 2001 i kamikaze sono diventati l’emblema del salto di qualità rappresentato dal terrorismo internazionale. Dal punto di vista filosofico, l’impiego di esseri umani disposti ad aderire alla carica esplosiva che portano con sé fino a essere un tutt’uno con essa (e con il bersaglio) costituisce l’antitesi dell’umanesimo laico occidentale, sintetizzato nell’imperativo kantiano di guardare alla persona come fine e non come strumento. Dal punto di vista strategico, la disponibilità di esseri umani utilizzabili come armi introduce un elemento in grado di competere con successo con i più avanzati ritrovati della tecnologia occidentale applicati alla guerra. All’«intelligenza» pre-programmata di armi dotate di sistemi di guida auto-cercanti, il kamikaze contrappone l’intelligenza inimitabilmente flessibile e creativa della mente umana, arricchita dall’altrettanto esclusiva capacità di odiare. Ignorando il principio economico-militare del risparmio delle vite dei combattenti, l’impiego dei kamikaze sovverte alla base l’analisi costi/benefici applicata al combattimento e modifica drasticamente il calcolo dei rapporti di forza sul campo. Il risultato netto è, nell’ambito del conflitto asimmetrico, lo spostamento del vantaggio tattico a favore della parte meno dotata di risorse distruttive di natura tecnica ma più dotata di risorse distruttive di natura psicologica e politica.

Nello stesso tempo il vantaggio competitivo insito nel disporre di un’arma più intelligente di qualsiasi sistema d’arma intelligente (e in più capace di odiare) non è appropriabile né imitabile da parte delle forze di difesa e di sicurezza occidentali: per un verso sarebbe pressoché impossibile trovare persone disposte ad adempiere il ruolo di kamikaze, per un altro – seppure si trovassero – la loro funzione sarebbe considerata, tanto per gli effetti su loro stessi che per gli effetti sui destinatari, eticamente inaccettabile.

Alle spalle di una differente visione di ciò che è consentito e praticabile in un conflitto, vi è una differente visione delle modalità dell’uso della forza all’interno di una medesima società e tra società differenti. Nel lungo processo che Norbert Elias ha definito di «civilizzazione», la società occidentale ha progressivamente ristretto l’intensità e lo spettro delle situazioni in cui viene ritenuta accettabile la violenza.7 Da un lato lo Stato ha espropriato ad altri attori, che pur l’avevano a lungo esercitato in passato, il diritto di usare questa risorsa; dall’altro, avocando a sé la gestione della weberiana «violenza legittima», l’ha sottoposta a determinati limiti. È così che all’interno, come sottolinea Foucault,8 cessano gradualmente l’uso della tortura e la pratica dei supplizi pubblici; mentre all’esterno, a partire dal XVII secolo, anche la guerra viene sottoposta a un processo di regolamentazione rispetto alle modalità del suo esercizio (jus in bello).

Quando il terrorismo islamico sottolinea – all’indomani degli attentati di New York e di Washington e all’indomani della strage di Madrid – la diametrale differenza tra un Occidente che vuole la vita e un Islam che (nell’interpretazione fondamentalista) vuole la morte, coglie indubbiamente un punto cruciale per quanto riguarda l’atteggiamento di europei e americani. Partita nel Medioevo da una concezione che prediligeva la morte (in quanto vita eterna) sulla vita terrena (in quanto effimera preparazione alla prima), nel tempo la cultura occidentale ha sviluppato una visione del mondo in cui la vita occupa effettivamente il posto centrale.

Nella centralità della vita convergono fattori molteplici e di segno differente: ideologici e materiali, remoti e recenti; dall’innesto dell’umanesimo cristiano su quello greco-romano all’individualismo borghese, al consumismo della società di massa, alla contrazione dei tassi di natalità sperimentato oggi dalle società occidentali. Il risultato netto è un immanentismo individualistico, antitetico tanto ai fondamentalismi di matrice religiosa quanto alla retorica eroica delle ideologie politiche. Piaccia o meno ai nostalgici delle virtù militari, l’atteggiamento prevalente nell’opinione pubblica occidentale (non italiana soltanto, ma tedesca, spagnola, francese, inglese e, sia pure con una soglia di tolleranza più alta, anche americana) è pacifista, privilegia cioè l’uso di mezzi politici nella gestione delle crisi internazionali.9 Questo pacifismo non è assoluto: non esclude infatti l’impiego della forza, ma la subordina a vincoli molto precisi: la giusta causa (difesa da un’aggressione, ripristino della legalità violata, tutela dei diritti umani ecc.) e la legittimità internazionale (multilateralità e rispetto delle procedure nell’assunzione delle decisioni ad opera delle Nazioni Unite).

Anche nei confronti della minaccia terroristica l’atteggiamento dell’opinione pubblica va compreso per ciò che è, piuttosto che giudicato ideologicamente in base agli assunti di valore dell’osservatore. Qui il vero problema è che alla minaccia agitata e realizzata dagli aggressori si possano cumulare i rischi generati dalle incomprensioni e dagli errori dei difensori. Le scienze sociali sottolineano l’eventualità, sempre incombente, che nell’assunzione delle decisioni si determinino effetti perversi e conseguenze inattese, cioè che scelte non sufficientemente controllate diano vita a risultati controproducenti.

Per prevenire questi danni – primo fra tutti lo scollamento psicologico e politico tra governanti e governati – è indispensabile ricostruire il punto di vista e i bisogni di questi ultimi, quali effettivamente sono e non quali si vorrebbe che fossero. Sotto la minaccia del terrorismo internazionale, può accadere che gli uomini e le donne delle società occidentali percepiscano un crescente senso di insicurezza non soltanto a causa dell’aggressione da parte di un nemico esterno, ma anche a causa della risposta decisa dai propri governi. Infatti, la situazione psicologica della popolazione di un paese minacciato/aggredito dal terrorismo internazionale è per molti versi paragonabile a quella di uno o più individui inermi presi in ostaggio da un criminale armato. Nei confronti della polizia e delle altre autorità pubbliche l’atteggiamento degli ostaggi è duplice: da un lato essi contano sulle forze dell’ordine per essere liberati, dall’altro temono che una reazione incauta o sproporzionata di queste ultime possa esporli alla catastrofe.

Figura 2

Passando dalla dimensione individuale (psicologica) a quella collettiva (politica), la situazione si complica ulteriormente. Agli interrogativi prettamente tecnici della prima dimensione (questi poliziotti sono sufficientemente bravi, addestrati, coscienziosi, ecc.?), si sommano interrogativi di natura ideologica, che chiamano in causa il complesso rapporto rappresentanti/rappresentati che è alla base della democrazia occidentale. Nella teoria economica principal/agent, il maggiore rischio nella delega di un potere da parte del «principale» (il popolo sovrano) all’«agente» che opera in suo nome (il rappresentante politico) è che quest’ultimo ispiri i propri comportamenti non al bene comune bensì al proprio bene egoistico. Nel caso della rappresentanza politica, dunque, viene chiamata in causa non soltanto la risorsa della competenza (il capo della polizia sa quello che fa?, la nostra intelligence è all’altezza?, ecc.); ma, anche e soprattutto, la risorsa, assai più aleatoria, dell’integrità politica e morale (il premier dice la verità?), le sue scelte sono dettate dal perseguimento del bene comune? Oppure ci si può chiedere se le sue scelte siano ispirate da criteri estranei al bene comune: ad esempio essere rieletto, danneggiare un rivale interno, assicurare un vantaggio a terzi sulla base di uno scambio che lo beneficia, ecc.).

Se in democrazia è fisiologico che le decisioni suscitino controversie, pochi altri temi necessitano, come la sicurezza, di unità e di coesione. Viceversa le decisioni relative all’uso della forza sono particolarmente inclini a dividere. Innanzitutto, nell’ambito dei rapporti fra Stati esse portano alla luce le differenze tra il paese leader (gli Stati Uniti) e i suoi alleati (l’Atlantic gap, che è emerso prepotentemente alla vigilia della guerra irachena). Secondariamente, all’interno dei singoli Stati, esse producono una frattura direttamente proporzionale all’entità della forza impiegata e inversamente proporzionale alla legittimazione sociale di quest’ultima, tra le opinioni pubbliche e i rispettivi governi. Ciò è accaduto nel momento in cui nelle politiche strategiche e della sicurezza sono state assunte decisioni osteggiate dalla maggioranza dei cittadini (come nel sostegno di alcuni governi europei all’intervento in Iraq), ovvero nel momento in cui sono state additate responsabilità politicogiudiziarie poi rivelatesi infondate (come la responsabilità dell’attentato di Madrid attribuita all’ETA dal governo Aznar).

Se la forza viene usata in modo opportunistico, si determina un deficit di consenso, per colmare il quale i governi sono costretti a immettere sul mercato politico ingenti riserve di fiducia, che a loro volta vengono rapidamente bruciate dalla crisi. Il risultato immediato è un indebolimento della capacità del sistemapaese di reagire – a livello nazionale e a livello internazionale, come singolo e come membro di alleanze – con modalità insieme ferme ed equilibrate alla minaccia terroristica.

 

Osservazioni conclusive

È singolare che, di fronte all’umanesimo, fondato sui valori della pace e della vita, dell’opinione pubblica euroamericana, recalcitri e dia segni di insofferenza quella corrente ideologica che si atteggia a vestale e interprete autentica dell’Occidente, cioè la destra. Tutt’altro discorso è riconoscere che la coerenza con i propri principi costitutivi e il rispetto della volontà dei cittadini inducono la teoria e la pratica politica dell’Europa e degli Stati Uniti ad affrontare dei costi per tutelare la prima e la seconda. Assertori della superiorità su tutte le altre della civiltà occidentale in quanto fondata sullo sviluppo economico, sulla pace e sulla democrazia, quando si tratta di perseguire gli obiettivi della sicurezza, gli esponenti della destra sembrano considerare queste caratteristiche un intralcio e invidiare l’autoritarismo che denunciano negli altri sistemi politico-sociali.

Da qui la strana sensazione che provocano le condanne e le polemiche che hanno accompagnato la ribadita volontà dei socialisti spagnoli di ritirare i propri militari dall’Iraq se non sarà l’ONU ad assumersi la responsabilità della ricostruzione. Stridenti sempre, i paragoni con l’arrendevolezza delle democrazie europee a Monaco nel 1938, le ironie su «Bambi» Zapatero, gli appelli al coraggio virile e gli atteggiamenti gladiatori sono addirittura imbarazzanti quando provengono, come è accaduto in Italia, da esponenti politici di estrazione aziendale e da intellettuali militesenti.

Di fronte alla verificata inconsistenza della madre di tutte le giustificazioni della guerra – il possesso da parte dell’Iraq delle armi di distruzione di massa – il pensiero conservatore italiano, ben lungi dal fare autocritica, si spinge a teorizzare la menzogna come buona pratica dei governi. Avendo come vera motivazione un obiettivo ritenuto impresentabile ai propri elettori e all’opinione pubblica internazionale – il cambio di regime a Baghdad – bene avrebbe fatto il presidente Bush a tenerlo nascosto. Il problema è che – contrariamente a quanto credono i neocons nostrani, la logica del «Grande inquisitore», che serba per sé il peso dei segreti del governo e mente al popolo per mantenerlo tranquillo, funzionava forse nella Spagna del XVI secolo e nella Russia del XIX, ma funziona poco o per niente nel mondo del XXI. Governare significa assumere la responsabilità delle decisioni per il bene comune. Ma in ogni ambito, in particolare nell’ambito nevralgico della sicurezza, i governi democratici sono obbligati a selezionare le decisioni all’interno dei valori condivisi dai cittadini.

 

 

Bibliografia

1 J. N. Rosenau, Turbulence in world politics: a theory of change and continuity, Princenton University Press, Princenton 1990.

2 U. Beck, La società del rischio: verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2000; A. Giddens, Le conseguenze della modernità. Rischio e fiducia, sicurezza e pericolo, Il Mulino, Bologna 1994.

3 J. Burk, La guerra e il militare nel nuovo sistema internazionale, Angeli, Milano 1998.

4 H. A. Kissinger, The Troubled Patnership. A Re-appraisal of the Atlantic Alliance, Anchor Books, Garden City (NY) 1966; P. Isernia, Ph. Everts, Uniti intorno alla bandiera? Le opinioni pubbliche di Europa e Stati Uniti di fronte alla guerra, in «Italianieuropei», 2/2003, pp. 49-78 .

5 Cfr. «The Observer» del 22 febbraio 2004.

6 R. A. Kagan, Paradiso e potere: America ed Europa nel nuovo ordine mondiale, Mondadori, Milano 2003.

7 N. Elias, La civiltà delle buone maniere, Il Mulino, Bologna 1982; Elias, Potere e civiltà, Il Mulino, Bologna 1983.

8 M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1976.

9 F. Battistelli, Gli italiani e la guerra. Tra senso di insicurezza e terrorismo internazionale, Carocci, Roma 2004.