Primato della politica o primato della Costituzione?

Written by Sergio Fabbrini Thursday, 01 April 2004 02:00 Print

Nelle democrazie competitive, come è ormai divenuta l’Italia, stare all’opposizione non è facile. In tali democrazie (e ancora di più in quelle maggioritarie, si pensi al Regno Unito), l’opposizione è esclusa da ogni corresponsabilità di governo, dovendosi limitare a controllare e a denunciare l’azione della maggioranza parlamentare e del suo esecutivo. Tuttavia, tale assenza di responsabilità dirette può avere anche i suoi vantaggi. Può consentire all’opposizione di ripensare e rivedere le proprie strategie e la propria cultura, così da prepararsi adeguatamente per la competizione elettorale successiva.

 

Nelle democrazie competitive, come è ormai divenuta l’Italia, stare all’opposizione non è facile. In tali democrazie (e ancora di più in quelle maggioritarie, si pensi al Regno Unito), l’opposizione è esclusa da ogni corresponsabilità di governo, dovendosi limitare a controllare e a denunciare l’azione della maggioranza parlamentare e del suo esecutivo. Tuttavia, tale assenza di responsabilità dirette può avere anche i suoi vantaggi. Può consentire all’opposizione di ripensare e rivedere le proprie strategie e la propria cultura, così da prepararsi adeguatamente per la competizione elettorale successiva. L’essere all’opposizione è di fatto l’unica condizione che consente di riflettere criticamente sui propri riferimenti teorici e politici, proprio perché non si è costretti dalle necessità di risolvere la miriade di problemi di breve periodo che si impongono quotidianamente ad un governo. Uno dei grandi temi di cultura politica che il centrosinistra non ha ancora affrontato compiutamente, pur a distanza di tre anni dall’uscita dal governo, è quello relativo al cosiddetto «primato della politica». Per ragioni storiche e biografiche, i maggiori partiti e i più rappresentativi leader dell’opposizione continuano a manifestare (nelle dichiarazioni pubbliche, nei dibattiti inter-partitici, nel dialogo con esponenti della magistratura o dei movimenti di protesta) una spiccata predilezione ad affermare il primato della politica su altre sfere di organizzazione collettiva. Intendendo, naturalmente, per primato della politica il primato del parlamento, se non talora quello dei partiti politici, sugli altri poteri dello Stato (e sulla stessa società civile). Vorrei provare a mettere in dubbio questa predilezione culturale o abitudine di pensiero, cercando di mostrare i suoi limiti e le sue implicazioni, poiché è bene non smettere mai di riflettere sul ruolo della politica in una società democratica.

 

I fatti e le reazioni

Partiamo dai fatti. Non c’è paese democratico dove non si siano registrate tensioni acute tra la politica e le istituzioni di controllo. Nel Regno Unito si è da poco concluso uno scontro assai duro tra il primo ministro e la televisione pubblica in merito alle motivazioni che avevano giustificato la guerra in Iraq. Tale scontro si è concluso a favore del primo ministro dopo che un’inchiesta giudiziaria lo aveva giudicato non colpevole rispetto all’accusa rivoltagli (quella di avere esagerato il pericolo rappresentato dalle armi di sterminio di massa in mano a Saddam Hussein). Negli Stati Uniti, il presidente, incalzato da un Congresso in fibrillazione elettorale e da un’opinione pubblica divenuta sempre più critica verso la sua Amministrazione, ha deciso di istituire una commissione indipendente affinché valuti l’eventualità che anch’egli abbia mentito sulla reale minaccia rappresentata da Saddam Hussein. In Francia, il capo organizzativo del partito gollista ed erede politico dell’attuale presidente della Repubblica è stato condannato da un tribunale a una pena dirompente per un uomo politico: divieto a candidarsi a una carica pubblica per almeno dieci anni. In Italia, il governo e il suo primo ministro sembrano avere un’unica ossessione: attaccare la magistratura e discreditare l’informazione indipendente. Naturalmente, se le tensioni si registrano ovunque, tutt’altro che identica è la reazione della politica all’azione di controllo che su di essa viene esercitata.

Nelle democrazie anglo-americane nessuno si azzarda a mettere in discussione l’indipendenza del giudiziario o dell’informazione, anche se si cerca attivamente di condizionarne i comportamenti. Comunque sia, la divisione dei poteri viene percepita come una garanzia per tutti. In Francia, il fastidio della politica nei confronti del potere giudiziario è palese, ciononostante la legittimità di quest’ultimo non viene messa in discussione. Al massimo, lo si accusa, come nel caso in questione, di somministrare pene non proporzionate al reato commesso. Il senso dello Stato va oltre l’orgoglio partigiano. In Italia, invece, il governo e la sua maggioranza rivendicano senza ombra di dubbio il loro primato su tutte le altre istituzioni pubbliche e sociali. Un primato che rivendica il diritto a governare senza intralci. Una rivendicazione, questo è il punto, che non è estranea alla cultura politica dello stesso centrosinistra. Perché anch’esso ritiene che il parlamento sia l’istituzione primaria della Repubblica. Anche se poi il centrosinistra non ha mai trasformato tale rivendicazione in una clava per umiliare le altre istituzioni pubbliche. Che cosa ci indicano queste vicende? Che se in tutte le democrazie ci sono conflitti in corso tra la politica e le istituzioni del controllo, questi conflitti vengono tuttavia interpretati dai protagonisti e dall’opinione pubblica in modi assai diversi. In particolare, secondo due culture politiche opposte.

 

La tradizione parlamentaristica

La prima è la cultura del «primato della politica», predominante nel nostro paese. E, soprattutto, predominante nella maggioranza di centrodestra. Ma presente, appunto, anche nel centrosinistra italiano. È una cultura politica che ha le sue origini nobili nella rivoluzione francese della fine del Diciottesimo secolo e le sue degenerazioni turpi nel populismo autoritario della prima metà del Ventesimo secolo. Anche se i suoi antecedenti si possono rintracciare nella «Gloriosa rivoluzione» inglese della fine del Diciassettesimo secolo, con la richiesta che il potere reale venisse esercitato dentro il parlamento e non già fuori (o contro) di esso. Infatti, primato della politica vuole dire che le istituzioni che esprimono la sovranità popolare (il parlamento quindi) godono di una legittimità superiore a tutte le altre istituzioni pubbliche non elettive. Non poteva essere diversamente, per chi fece sia la rivoluzione inglese sia (e soprattutto) quella francese. Si trattava di sconfiggere i poteri pubblici e sociali che rappresentavano l’antico regime, poteri che non volevano abbandonare i loro privilegi e le loro prerogative (privilegi e prerogative di cui beneficiavano per concessione divina, oppure reale, oppure per tradizione, ma non certamente per legittimazione popolare).

Al fine di costruire finalmente uno Stato del popolo e per il popolo, i rivoluzionari di allora ebbero bisogno di rovesciare la sovranità, affermando che essa spettava solamente all’istituzione eletta dal popolo. Conservarono, dunque, il carattere unitario della sovranità, ma ne rovesciarono i presupposti. Tuttavia, pur se la sovranità aveva le sue origini nel consenso del popolo e non più nella volontà divina, di una sovranità unica e indivisibile quei rivoluzionari continuarono a parlare. Di lì, il passo verso l’affermazione della supremazia del parlamento su tutti gli altri poteri (esecutivo e giudiziario, prima di tutti) è stato breve. Ma, naturalmente, gli eredi di quei rivoluzionari (e cioè i democratici liberali europei) hanno dovuto molto presto prendere atto che la volontà del popolo non era sufficiente per preservarne la libertà. Tanto che il popolo, in non poche occasioni, è corso ad applaudire grandi e piccoli dittatori e demagoghi, cioè i vari suonatori di pifferi che, in nome della libertà del popolo, gliela hanno poi tolta. Di qui, la faticosa costruzione, nei paesi dell’Europa continentale in particolare nel secondo dopo-guerra, di un sistema di controlli giudiziari da associare alle istituzioni popolari. La democrazia è venuta così a coincidere, non solo con le elezioni, ma anche con il rispetto della legge («competizione elettorale più Stato di diritto», secondo una nota definizione). Dopo tutto, basta guardarsi intorno per capire che la democrazia elettorale non è sufficiente per mettere al sicuro la libertà individuale e collettiva. In molti paesi (in America Latina, in Asia, nell’ex Unione Sovietica) si tengono elezioni, ma a nessuno verrebbe in mente di sostenere che essi sono, per questa ragione, delle democrazie.

Eppure, l’Italia, sembra essere ritornata ai tempi dell’uscita dall’antico regime. La classe politica del centrodestra è impegnata in una vera e propria guerra rivoluzionaria contro la magistratura, come se essa fosse l’espressione degli interessi aristocratici della Corona. Nessun vincolo viene accettato perché lesivo della sovranità popolare. L’elezione in parlamento è come l’unzione in un tempio: un’occasione per liberarsi da ogni peccato. Per definizione, il popolo ha sempre ragione, anche quando vota a favore di un criminale o di un corrotto, così trasformandolo in legislatore. E gli eletti dal popolo sono più uguali degli altri. Anzi, alcuni di loro sono ancora più uguali. Anche se si potrebbe affermare che sono i più diseguali tra i diseguali. Al punto che dovrebbero essere esonerati (in base al cosiddetto Lodo Schifani) dal rendere conto di comportamenti con implicazioni penali e civili fino a quando detengono una carica pubblica (anche se gli eventuali reati fossero stati compiuti prima di acquisire quella carica oppure indipendentemente da essa). Inoltre, la legge in questione non accetta alcun vincolo temporale su tale esenzione. È così possibile che, passando da una carica all’altra, i nostri «diseguali» siano sottratti del tutto a qualsiasi procedimento legale che invece vale per gli «eguali» (cioè i comuni cittadini). Naturalmente, è necessario che la politica sia in grado di proteggere la propria funzione sociale. Quando eleggiamo il parlamento, gli affidiamo (diceva John Stuart Mill) un compito «terribile»: quello di prendere decisioni che hanno una valenza erga omnes, che valgono per tutti. Non si può esercitare un compito di questa portata senza beneficiare di una piena libertà di pensiero, di espressione e di organizzazione. Tuttavia, riconoscere alla politica elettiva una tale rilevanza sociale, deve avere come implicazione necessaria la celebrazione della sua superiorità sugli altri poteri? Ovvero, è necessaria tale implicazione nelle società democratiche contemporanee dell’Europa occidentale?

Naturalmente, si prende per buona la teoria che il centrodestra utilizza, quella giacobina che si è venuta definendo nella aspra transizione dalle società dell’antico regime alle società delle libertà e delle eguaglianze. È evidente, infatti, che molti esponenti di quel centrodestra hanno utilizzato e utilizzano quella teoria per ragioni puramente strumentali, non rendendosi conto o non preoccupandosi delle sue implicazioni istituzionali e culturali. Perché (giusto per fare un esempio), una cosa è delegittimare una magistratura di composizione aristocratica e al servizio di un re, e una cosa radicalmente diversa è delegittimare una magistratura socialmente composita e al servizio di uno Stato di diritto. Comunque sia, il radicalismo del nostro centrodestra ha funzionato come quegli additivi chimici utilizzati dagli scienziati per esasperare le caratteristiche di una sostanza. Ovvero per renderle più visibili e, quindi, più facilmente analizzabili. Quel radicalismo ci dice che la teoria del primato della politica ha come suo sviluppo logico, quasi consequenziale, lo «scioglimento» dalla legge dei rappresentanti della sovranità popolare. Quella teoria ci dice che il suo impianto può portare a pensare che la democrazia è un governo degli uomini prima ancora che delle leggi. Così, all’inizio del Ventunesimo secolo, siamo ritornati all’assemblearismo rivoluzionario che aveva inaugurato la nostra epoca alla fine del Diciottesimo secolo. L’assemblea è sovrana. Anche di trasformare un uomo in una donna, se si potesse fare, aveva osservato il giornalistacostituzionalista Bagehot alla fine del Diciannovesimo secolo, a proposito del parlamento di Westminster. E nessun altro potere può minacciare la politica. A cominciare dalla magistratura, che deve essere un organo dello Stato a disposizione della maggioranza parlamentare corrente, e non già un potere indipendente.

 

La tradizione costituzionalistica

La storia della democrazia non coincide con la storia dell’Europa parlamentare. E la teoria del primato della politica è stata da tempo contesa da quella del primato della Costituzione. La cultura del primato della Costituzione ha potuto prosperare soprattutto negli Stati Uniti, dove si è affermata una diversa concezione della sovranità popolare. Qui, per via delle felici condizioni ambientali e storiche in cui si è sviluppata la democrazia (in particolare per l’assenza di un precedente antico regime da sconfiggere), il popolo non ha avuto bisogno di affermare la superiorità delle proprie istituzioni elettive verso tutte le altre istituzioni pubbliche e sociali. Così, per scelta, a Filadelfia nel 1787 si decise di affidare il primato alla Costituzione e non già all’uno o all’altra delle varie istituzioni politiche da essa istituite. Anzi, queste ultime furono separate le une dalle altre e contemporaneamente sollecitate a collaborare insieme. La separazione delle istituzioni in America non ha nulla a che fare con la divisione dei poteri in Europa. L’America ha interpretato Montesquieu nei termini di istituzioni separate che condividono gli stessi poteri, mentre l’Europa lo ha interpretato nei termini di istituzioni fuse che esercitano poteri diversi. Da noi il parlamento e il governo sono fusi, nel senso che il secondo deriva dal primo. Mentre in America, il governo è l’insieme di istituzioni separate (camera dei rappresentanti, senato e presidente) che debbono decidere insieme. Se si considera poi anche la separazione verticale (quella tra il centro federale e gli Stati federati), allora si può capire perché gli americani abbiano finito per frammentare l’esercizio della sovranità (distribuendola tra i vari livelli di governo), mentre gli europei ne hanno preservato il carattere unitario (trasferendola dal re al parlamento).

In America la sovranità risiede dunque nella Costituzione (a cui il popolo l’ha trasferita attraverso un patto che ha siglato con se stesso e così ben rappresentato dal Preambolo che la introduce) ed è essa che poi ne affida l’esercizio alle varie istituzioni separate (verticalmente e orizzontalmente) della Repubblica composita. Di fronte alla supremazia della Costituzione, tutte le istituzioni pubbliche hanno lo stesso peso e la stessa importanza. Ovvero, non fa alcuna differenza il fatto che siano direttamente elette dal popolo come la camera dei rappresentanti e il senato; oppure indirettamente elette attraverso il collegio elettorale come il presidente; oppure indirettamente elette dai legislativi statali come è stato il caso del senato fino al XVII emendamento del 1913; o che siano costituite attraverso la collaborazione tra il presidente e il senato come è il caso della Corte suprema, i cui 9 membri sono nominati a vita dal presidente con il consiglio e il consenso del senato. Nessuna gerarchia può istituirsi tra di essi, perché tutte derivano la loro legittimità dalla Costituzione. L’assenza di gerarchia sollecita quelle istituzioni a tenersi reciprocamente sotto controllo. È inutile aggiungere che la cosa non sempre ha funzionato o funziona. Tuttavia, in quel paese, nessuno (politico o settore dell’opinione pubblica) può mettere in discussione il principio del primato della Costituzione.

Non si capirebbe, altrimenti, perché il presidente Clinton non abbia mai messo in discussione la legittimità costituzionale dell’azione dello Special Prosecutor, azione che pure aveva caratteri nettamente partigiani (tant’è che Ronald Dworkin, a proposito dell’impeachment non riuscito del presidente, parlò di un tentativo di «colpo di Stato»). E non si capirebbe, altrimenti, perché il candidato democratico alla presidenza Albert Gore nelle elezioni del 2000 abbia accettato la decisione della Corte suprema (di non procedere ad ulteriori verifiche elettorali in alcuni distretti della Florida) che lo penalizzava necessariamente.

Gore non si è permesso di accusare quei giudici di usurpare delle prerogative del popolo, anche se quella decisione (5 giudici a favore e 4 contro) aveva un carattere più politico che giuridico. Certamente, si può argomentare che affidare di fatto a nove giudici la scelta del presidente sia stato questionabile. Così come è stato sicuramente questionabile che quei giudici, per più di un secolo, abbiano contribuito a preservare, con le loro sentenze, il sistema di discriminazione razziale istituzionalizzatosi nel sud dopo la guerra civile del 1861-1865. I sistemi che si basano sul primato della Costituzione possono scivolare, come ha scritto Robert Dahl, verso forme di democrazia dei guardiani, poiché affidano ai giudici il ruolo di proteggere la democrazia dal suo stesso popolo. Tuttavia, si può anche contro-argomentare che gli Stati Uniti, anche grazie alla loro struttura costituzionale, si sono salvati dalle degenerazioni autoritarie e dalle stesse pulsioni populiste, che pure non sono state loro estranee. Mentre ciò non è avvenuto nell’Europa continentale. L’America ha trovato un suo modo per proteggere la democrazia da se stessa: separando le istituzioni e affidando alla Corte suprema il compito di guardiano della Costituzione. Tale difficoltà ha ostacolato le maggioranze viziose (che da noi hanno portato all’autoritarismo), ma anche quelle virtuose (che da noi hanno portato alla Stato sociale). Questo modo è discutibile. Ma sicuramente è stato efficace.

Una delle principali preoccupazioni di James Madison era stata quella di proteggere la democrazia da se stessa. Tale preoccupazione si è dileguata nella vulcanica vicenda europea che è seguita alla rivoluzione francese. Per essere sostituta da un’altra preoccupazione, quella di aprire la democrazia, e non già di proteggerla. Di nuovo, non poteva essere diversamente. Due percorsi storici diversi (su una e sull’altra sponda dell’Atlantico) hanno necessariamente prodotto due culture politiche differenti. Una domanda, però, si impone: ha senso preservare tale specificità di culture in contesti sostanzialmente diversi? Credo che dobbiamo rivedere radicalmente la nostra cultura del primato della politica. A distanza di due secoli e più da quando è stata elaborata e affermata, quella cultura produce (e continuerà a produrre) guasti istituzionali e psicologici. Anzi, ne ha gia prodotti parecchi nel passato recente. In nome del primato della politica, la corruzione era diventata un fenomeno devastante della prima Repubblica. In nome del primato della politica, il populismo illiberale dell’attuale governo di centrodestra sta soffocando la crescita della seconda. Sia allora che oggi, chi rivendica il primato della politica non accetta l’indipendenza della magistratura e dell’informazione. Non accetta che la politica sia regolabile dall’esterno: al massimo, riconosce la necessità che essa si auto-regoli.

In società a democrazia consolidata, il primato della politica è un ostacolo alla democratizzazione, e non già una condizione per il suo sviluppo. Le nostre società sono pluraliste, e pluralista è anche (e da tempo) l’articolazione dei poteri istituzionali. Per di più, il processo di integrazione europea sta rendendo ancora più articolata (o multi-livello) l’organizzazione dello Stato nazionale. Inoltre, esso ha attivato ovunque gli organismi giudiziari, anche a spese delle stesse Corti costituzionali. La Corte europea di giustizia ha trasformato i Trattati in una quasi-Costituzione, affermando quindi sia il primato della legge europea su quella nazionale che il suo effetto diretto sui cittadini degli Stati membri. Quindi, ha utilizzato un articolo del Trattato di Roma del 1957 per sollecitare le Corti, dei vari livelli del sistema giudiziario nazionale, a rivolgersi pregiudizialmente ad essa, nel caso di un conflitto tra la legge comunitaria e quella nazionale. Così avviando un processo di revisione giudiziaria diffusa delle leggi nazionali, come mai era potuto avvenire negli Stati dell’Europa (in virtù del principio della sovranità parlamentare), e come invece è avvenuto (a partire da una celebre sentenza del 1803 della Corte suprema) e continua ad avvenire negli Stati Uniti (in virtù del principio della sovranità della costituzione).

Da tempo la politica non ha più il primato nelle nostre democrazie. Molte decisioni vengono prese attraverso il concorso di altri poteri. Molte responsabilità sono affidate ad autorità esterne al circuito rappresentativo, poco o affatto controllate da esso. Per questo motivo sarebbe opportuno abbandonare la teoria del primato della politica, non solo per i guasti che produce, ma anche per la sua inadeguatezza a comprendere le trasformazioni intervenute. Non si tratta di sottovalutare il parlamento, ma di riconoscere che in esso non può più esaurirsi la sovranità popolare. In una democrazia pluralista e a diffusione dei poteri, la sovranità può risiedere solamente nella Costituzione, e non già nell’una o nell’altra istituzione. Per questo motivo, il primato della politica deve essere sostituito con il primato della legge. Insomma al populismo occorre opporre il costituzionalismo. Naturalmente, il nostro primato della Costituzione non potrà essere una fotocopia dell’esperienza americana. Abbiamo molto da imparare, ma anche molto da dire. Tuttavia, non si possono cercare vie nuove senza liberarsi di quelle vecchie. I comportamenti della maggioranza che ci governa riflettono un’opinione diffusa tra molti cittadini. Ma anche tra i partiti e i leader del centrosinistra. Perché non si utilizza la lontananza dal potere per maturare una teoria più adeguata di esso e del suo esercizio?