Berlinguer, un comunista italiano

Written by Goffredo Bettini Tuesday, 01 June 2004 02:00 Print

Ripensare Berlinguer, evitando una facile utilizzazione del suo ricordo per una polemica, in un senso o nell’altro, sulle vicende politiche dell’oggi. Tra le cose assodate, per tutti, è che Berlinguer fu un leader di straordinaria statura: etica e intellettuale. Con la tempra di un padre della Repubblica. In questo senso sono bellissime le parole con cui Mario Tronti conclude il suo libro «Il Principe disarmato»: «È difficile parlare di Berlinguer, senza nostalgia. Sì, lo so, c’è il pericolo di idealizzare il personaggio, di immaginare l’isola che non c’è, di vedere solo luci senza ombre. Ma è un peccato veniale che ci deve essere concesso.

 

Ripensare Berlinguer, evitando una facile utilizzazione del suo ricordo per una polemica, in un senso o nell’altro, sulle vicende politiche dell’oggi. Tra le cose assodate, per tutti, è che Berlinguer fu un leader di straordinaria statura: etica e intellettuale. Con la tempra di un padre della Repubblica. In questo senso sono bellissime le parole con cui Mario Tronti conclude il suo libro «Il Principe disarmato»:1 «È difficile parlare di Berlinguer, senza nostalgia. Sì, lo so, c’è il pericolo di idealizzare il personaggio, di immaginare l’isola che non c’è, di vedere solo luci senza ombre. Ma è un peccato veniale che ci deve essere concesso.

Nella desertificazione politica in atto, nella crisi presente di ceto politico, nel crollo anzi dell’idea stessa di classi dirigenti, tornare a pensare a modelli individuali di agire pubblico, che, a modo loro, fanno epoca, serve per attestarsi su una linea di resistenza umana».

Così come, per me, è assodata la profondità e la sensibilità con cui Berlinguer colse certi mutamenti dell’Italia e del mondo, prima degli altri. L’articolazione dei soggetti del cambiamento. Le donne. I giovani. Nuove figure sociali. L’emergere di nuovi protagonisti in rapporto alla crisi dello Stato sociale e a una certa perdita della centralità operaia. E quindi l’urgenza di un rinnovamento della politica e del partito, come dirà in un importante saggio del 1981. Oppure l’avvertire acutamente che con il venire sulla scena mondiale di nuovi popoli, Stati, protagonisti, stenta a reggere il modo di produrre, consumare, vivere, della parte più ricca del mondo. Che il Sud, insomma, interroga il Nord.

Da qui il coraggiosissimo, inattuale, ampiamente non compreso, discorso sull’austerità pronunciato nel 1977 all’Eliseo, di fronte a una platea di intellettuali. E varrebbe la pena indagare meglio la forza anticipatrice di quelle parole, a fronte delle rotture, dei conflitti, degli squilibri del mondo d’oggi. E delle ambizioni e delle attese di miliardi di esseri umani che la globalizzazione ha messo in movimento e che impongono un cambiamento anche del nostro stile di vita, oltre che, se si vuole evitare un susseguirsi di guerre, una sorta di governo mondiale.

Suggestione, quest’ultima, proprio di Berlinguer.

D’altra parte, mi paiono assodati anche alcuni suoi limiti. E trovo perfino un po’ inutile andare a misurare quanto fossero oggettivi o soggettivi. Certo, i condizionamenti di un’epoca pesano. E non va mai dimenticato che Berlinguer fu sì un riformatore, ma un riformatore che rimase, e fino all’ultimo volle rimanere, un comunista. Un comunista italiano, ma un comunista. Da qui il permanere, nonostante lo «strappo » con l’URSS, di una prudenza nel giudizio sulle società del comunismo fino ad «allora realizzato»; e poi il ribadire una diffidenza verso le esperienze e i grandi partiti socialdemocratici europei, a favore di formulazioni, in verità talvolta un po’ oscure, sulla necessità di una fuoriuscita dal capitalismo. Formulazioni ampiamente utilizzate dalla parte più retriva della DC, per ribadire l’illegittimità di governo del PCI e per far pagare ad esso prezzi pesantissimi nelle possibili intese unitarie.

Detto questo, quello che ora interessa recuperare è un nucleo vitale dell’esperienza di Berlinguer, che, come un filo rosso, mai disperso, è in grado di parlare fino a noi. Qual è questo nucleo vitale? La capacità, che egli ha avuto come ultimo grande leader dei comunisti italiani, di collocare come nessuno fino ad allora aveva fatto il suo movimento (e per questo portandolo fino al 34% dei consensi nell’elettorato) nel cuore della società italiana, della democrazia, delle istituzioni, proiettandolo in una funzione nazionale e democratica. L’ambizione cioè di mettere in campo un progetto in grado di parlare a tutti e di convincere la maggioranza del paese. L’ambizione di far coincidere la promozione delle masse popolari con un migliore avvenire per l’insieme della società e per l’Italia.

In questo Berlinguer porta alla massima torsione possibile la peculiarità del PCI, voluta da Togliatti con la svolta di Salerno, e che ha reso questo partito così influente e anomalo rispetto al panorama degli altri partiti comunisti dell’Occidente. Questo respiro unitario e nazionale è certamente una scelta, ma anche una necessità. Necessità che scaturisce molto dalla consapevolezza di avere tra le mani un paese fragile nei suoi orientamenti democratici e nel suo spirito pubblico.

Così come è presente in Berlinguer, vivissima, la lezione di Antonio Gramsci. E anche il peso della storia italiana. Una nazione che non si è formata attraverso momenti decisivi in grado di fare da collante tra istituzioni, popolo e nuovi valori spirituali: battezzando così solide fondamenta. Come è stato per la Germania con la rivoluzione protestante, o per la Francia con la rivoluzione dei lumi. No. Il rapporto tra Stato e popolo, da noi, è stato più complesso, torbido, frammentato. Un Risorgimento, con masse enormi di pezzenti a guardare, passive o diffidenti. Una democrazia, prima del fascismo, elitaria e lobbisitica. Poi la dittatura fascista, con un rapporto perverso tra masse e potere. Da qui l’analisi costantemente preoccupata, di Berlinguer, su possibili lacerazioni, rotture verticali, in grado di incrinare l’impalcatura costituzionale. E questa preoccupazione è tanto più viva, in quanto la DC ha rotto, nel 1947, quel processo unitario nel popolo italiano scaturito dalla guerra di liberazione e fondamento della Repubblica.

Interromperlo ha significato mortificare una delle pagine nazionali più significative nella costruzione collettiva di valori comuni tra gli italiani, esponendo così il paese al risorgere continuo di forze e di tentativi eversivi e di spaccature del tessuto democratico. Tutte le proposte politiche di Berlinguer avranno come sottofondo, perfino emotivo, quello di ritornare allo spirito dell’immediato dopoguerra. Dunque, se il paese è fragile spetta alla sinistra e al PCI un «doppio lavoro»: quello di trasformarlo e quello, nello stesso tempo, di salvarlo. Deve, cioè, di fare quel lavoro che le classi dirigenti e dominanti italiane, nel loro complesso, hanno fatto poco e spesso male.

Deve svolgere una funzione di responsabilità nazionale, affinché siano salvaguardate le istituzioni, le regole, la convivenza civile, il patrimonio comune. In questo cruciale compito la tradizione dei comunisti italiani – e Berlinguer in particolare – conquista un radicamento, un rispetto, una essenzialità, che al di là del crollo dei muri, del fallimento del comunismo, dei ritardi ideologici, sono un patrimonio (trasmesso ancora oggi da una comunità di persone, che è la sinistra italiana) indispensabile per affrontare le sfide dell’avvenire. E anzi, credo che una certa debolezza dell’impianto storico culturale, su cui si fondò la svolta del 1989, abbia messo in ombra questo aspetto, oggettivamente svalutandolo troppo. Perché la storia è fatta di involucri, di strutture, di simboli e di nomi. Ma anche di persone in carne ed ossa. Che hanno vita propria; che in quanto comunità esprimono cultura, valori, senso comune. E dunque sono essi stessi, autonomamente, «facitori» di storia.

Giusto, dunque, aver tolto di mezzo con coraggio gli involucri e i simboli ormai del tutto inutilizzabili. Ma nella piena consapevolezza che sotto di essi rimane viva e presente una collettività di uomini e donne (i comunisti italiani, appunto) la cui funzione è stata parte decisiva della vita democratica del paese, della società e dello Stato. Una straordinaria energia da spendere seppure in forme nuove e in contesti radicalmente mutati.

La fragilità del paese è stata alla base, anche, dell’assillo di Berlinguer per la costruzione di un vasto arco di alleanze democratiche. In particolare con la DC, che egli temeva potesse spostarsi a destra in cerca di avventure pericolose. E quindi il suo impegno per suscitare un moto democratico in grado di far emergere in ogni partito le energie migliori, popolari e schiettamente dalla parte della libertà. I fatti del Cile, che lo impressionarono fortemente, i tentativi golpisti che si intrecciarono in Italia con la strategia della tensione agli inizi degli anni Settanta, radicarono in lui la convinzione della necessità di una collaborazione tra le grandi correnti popolari della nazione. Nasce, così, nel 1973, la proposta del «compromesso storico». Il punto, forse conclusivo e comunque alto, della strategia togliattiana. In esso convergono i temi della salvezza del paese e della possibilità di profondi cambiamenti, ma nel quadro di garanzia dell’accordo dei partiti costituenti. Un modo, in fondo, di tornare, dopo la lunga pausa dei governi anticomunisti, allo spirito del 1945.

So di esprimere una opinione forse minoritaria, o inconsueta, ma non vedo in Berlinguer una scissione netta, o peggio una contraddizione, tra questa fase politica, così espansiva e unitaria, e gli ultimi anni, quelli della «questione morale» e dell’«alternativa democratica».

Macaluso, nel suo brillante libro sul PCI,2 scrive: «Berlinguer, dopo la seconda svolta di Salerno (novembre del 1980) inizia un periodo di forte attenuazione della lucidità politica. Si attenuò, quindi, la funzione che in certi momenti il PCI aveva svolto come forza che metteva, anche dall’opposizione, al centro della sua iniziativa, l’interesse generale. La “nuova generazione” non è stata sensibile rispetto a questo ruolo che invece era stato fortemente presente anche nel Berlinguer degli anni Settanta». Non sono proprio d’accordo. Nel primo e nel secondo Berlinguer resta vigilissima la tensione per la salvezza economica, morale, democratica della nazione. La generosità per un disegno generale.

Del compromesso storico abbiamo detto. Per la svolta dell’alternativa basti pensare a ciò che la mosse. Lo sdegno per i soccorsi mancati in Irpinia. Il messaggio accorato di Pertini. Il dilagare di un rapporto distorto tra partiti e Stato, in grado di corrodere dall’interno la vita istituzionale. Un certo disgregarsi della vita sociale, con nuovi fenomeni, in particolare tra la gioventù, di disperazione e disorientamento, come il rapidissimo diffondersi della droga. Si può discutere nel merito la proposta politica, ma non che essa fosse ispirata da una preoccupazione nazionale. Il punto è che rispetto agli anni Settanta il quadro politico che si trovava di fronte Berlinguer era enormemente cambiato. Moro, unico suo vero interlocutore, era scomparso. Il suo partito aveva ripreso, dopo di lui, la politica della preclusione a sinistra. E poi Berlinguer era rimasto personalmente scottato dal rapporto con la DC. L’esperienza di collaborazione ravvicinata e diretta lo aveva profondamente deluso. Non solo sul piano politico. Ma anche sul piano morale, dei comportamenti, della lealtà. È come se egli stesso si sentisse offeso, tradito, ingannato. Tanto il PCI era stato generoso nel non guardare prioritariamente a calcoli di bottega, per dedicarsi a un’impresa difficile di rinascita del paese, tanto l’alleato fondamentale era stato astuto e prudente nel mantenere la sua centralità, nel rimandare le riforme, nel ricostruire un suo rapporto con ampi settori sociali.

Le elezioni amministrative del 1978 furono uno spartiacque. Le ricordo bene: mentre il PCI pagava un prezzo salato per le posizioni di fermezza contro il terrorismo, nelle piazze i candidati della DC denunciavano le oggettive collusioni tra i comunisti e le Brigate Rosse. Va ricordato solo per contestualizzare le scelte di Berlinguer. Egli si trovò con interlocutori per lui diventati poco credibili e in un quadro chiuso a possibilità di cambiamenti. Quindi non scelse, per settarismo, di non avanzare una proposta di governo agli altri partiti. Egli riteneva davvero difficile, con quei partiti di allora, una collaborazione utile per il paese. Ma pure in questa visione disincantata e pessimistica, e tuttavia abbastanza realistica, della situazione, non avanzò l’idea di una alternativa di sinistra, una proposta frontista e di spaccatura.

Si rivolse con respiro ampio alle energie oneste, preoccupate, disponibili di ogni partito e anche a quelle al di fuori dei partiti, e indicò la necessità di un’alternativa democratica. Insomma, mantenne lo spirito di una linea di responsabilità generale, ma adeguò quella linea al giudizio di sfiducia che in quel momento egli aveva del sistema politico italiano. Sistema politico, peraltro, che egli vedeva via via in forte ulteriore involuzione e che pensava indispensabile spingere al cambiamento radicale. La ripresa della pregiudiziale verso il PCI, dirà Berlinguer, accentua ulteriormente alcuni dati patologici della vita dei partiti di maggioranza (ma egli, in fondo all’animo, credo pensasse a qualche avvisaglia negativa anche nel proprio campo).

Berlinguer afferma, nel 1981, in un’intervista a Scalfari: «I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientele: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società, della gente; idee, ideali, programmi pochi o vaghi; sentimenti o passione civile zero». Dopo la crisi del 1992 e Tangentopoli, l’emergere di partiti azienda, come non sentire che quelle parole più che cedimenti al massimalismo sono lampi sul futuro e su scenari che verranno? Semmai, rileggendo il percorso di Berlinguer, sul piano strettamente politico, vedo più lucidità e determinazione nell’ultima fase, piuttosto che nella pur grande esperienza del compromesso storico e della successiva unità nazionale. È negli anni Settanta che sento più incertezze e illusioni. Una analisi forse troppo ottimistica sulla DC, sulle sue possibilità di rigenerazione complessiva.

Una certa sottovalutazione del rapporto con il PSI. Che spinse, poi, questo partito alla rivalsa craxiana. Non che non fosse giusto in quel momento ricercare il massimo dell’unità tra tutte le forze democratiche. Tuttavia, rendere strategico il discorso dell’impossibilità di governare con il 51% e dunque l’intesa con l’altro grande partito italiano, la DC, di fatto dichiarava l’inessenzialità dei socialisti o il loro carattere marginale. L’incontro con la DC poteva essere ricercato marcando di più il suo carattere transitorio, emergenziale, gestito con un rapporto a sinistra più coordinato, stretto, reciprocamente valorizzante. Così come, proprio in merito all’impalcatura che sorresse la proposta del compromesso storico, oggi appare più chiara, anche a me, una certa visione organicistica che proprio Bobbio aveva allora con straordinaria arguzia criticato e anche un certo appesantimento ideologico: come se il PCI nel cimentarsi in un rapporto con gli altri, che lo esponeva a compromessi (questo fu soprattutto evidente nella fase dell’unità nazionale), dovesse irrobustire, soprattutto verso la base, la sua fedeltà nell’obiettivo rivoluzionario del cambiamento socialista, criticando ogni cedimento socialdemocratico. Furono anche queste debolezze (oltreché, ovviamente, l’azione degli avversari) che contribuirono a far scivolare su un versare negativo l’esperienza della collaborazione unitaria. Fino agli anni convulsi e opachi dell’unità nazionale. E alla successiva sconfitta. Penso, invece, al contrario di Macaluso, che dopo quella sconfitta e l’esaurimento dell’esperienza unitaria, Berlinguer fece l’unica cosa che rimaneva da fare. Il PSI si era ormai (anche per gli errori nostri da me prima ricordati) collocato stabilmente nel preambolo anticomunista, in una logica di competizione sul potere con la DC, che lo porterà all’autodistruzione. Sul resto ho detto: il sistema politico si era di nuovo bloccato in una logica perversa.

D’altra parte, in politica ci sono i momenti delle avanzate e quelli delle ritirate. Ci sono i momenti dell’unità e del mare aperto e quelli nei quali occorre serrare le fila. Berlinguer colse che si doveva attraversare la bufera, parlare direttamente al paese e alla società, ribadire i punti fermi irrinunciabili, tentare di rinnovare il partito, e lavorare per il futuro. E lo fece, a mio avviso, con chiarezza di idee, tenacia e mettendo bene i piedi per terra con una presa sulla realtà schietta e diretta.

Indovinò tutto? Non ci furono errori? Non lo so. So che fu anche grazie alla capacità di preservare, in quella fase, una grande comunità di popolo dal progressivo degrado dei partiti della repubblica (e non perché con noi i magistrati furono più buoni), che dopo il 1992 il PDS-DS, rimase la sola forza in piedi. In grado di riannodare credibilmente i fili di un discorso sull’avvenire del paese.

Sostengo con una certa passione e convinzione questi argomenti, perché per certi aspetti attorno a questi problemi ha ruotato anche la storia della sinistra romana: la nostra e mia esperienza personale. Io ho avuto l’onore e l’onere di dirigere per lungo tempo prima il PCI e poi il PDS-DS di Roma. E anche noi (in fondo con il medesimo gruppo dirigente) abbiamo vissuto il momento della resistenza e poi quello dell’apertura unitaria. Anche in questo caso rivendico una continuità. Dal 1987 al 1992 fummo protagonisti di una orgogliosa, combattiva ma solitaria battaglia politica contro la DC di Sbardella. Dissero che eravamo massimalisti. Quanti compagni, anche nel partito, suonarono le sirene dell’unità, dell’intesa, almeno della collaborazione programmatica o del superamento del muro contro muro. Ancora le ho nelle orecchie quelle sirene. Che, peraltro, portarono in altre città, con risultati catastrofici, ad altre politiche, più cedevoli e compromissorie.

Noi giudicammo che non c’era un terreno di dialogo. Realisticamente non c’era. E dicemmo questo non per calcoli di parte; ma per il bene della città. Giudicammo che era essenziale mantenere uno spazio alternativo utile per il dopo. Quando ci fossero state le condizioni, come indicammo in un famoso convegno, di «slegare Roma». Questo ci permise, solo questo, di essere noi. Sottolineo noi. Dopo Tangentopoli, gli arresti degli assessori, lo scasso di quel sistema, di fare una proposta credibile, unitaria e di governo. E promuovemmo Rutelli. Un sindaco civico, di tutti. Quando ci fu realisticamente uno spazio più aperto, allargammo subito il respiro delle alleanze e ci mettemmo al servizio di una idea più ampia. Anche allora, paradossalmente, ci furono le sirene al contrario.

Si disse che svendevamo il partito, la sinistra. Le ragioni della nostra presenza. Che ci saremmo via via disciolti. Anche queste sirene le ho ancora nelle orecchie. Tenemmo la barra dritta. Per cui alla fine, in una città come Roma, tendenzialmente di destra, da più di dieci anni governano le forze riformiste, e spero e credo sarà cosi ancora per molto tempo.

E la sinistra, alla fine di un ciclo, si è talmente poco indebolita che i DS sono tornati ad essere il primo partito della capitale e c’è un sindaco della sinistra all’80% dei consensi. Un sindaco come Veltroni, riconosciuto e rispettato da tutti e che mi rende orgoglioso di essere cittadino della capitale. Anche qui, dunque, c’è stato il momento della preparazione, delle battaglie di trincea, della bufera e poi dell’espansione. Il problema dunque non è ricercare sempre e ad ogni costo intese, anche quando esse si rivelerebbero impossibili e dannose, il problema è non perdere in ogni passaggio che la politica e le condizioni impongono, la bussola del bene comune, della società, dello spirito pubblico, degli interessi democratici e generali.

 

 

Bibliografia

1 M.Tronti, Berlinguer, il principe disarmato, Sisifo, Siena 1994.

2 E. Macaluso, 50 anni nel PCI, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003.