La sinistra democratica e il governo Kirchner

Written by Eduardo Sigal Wednesday, 01 September 2004 02:00 Print

Durante la maggior parte del Ventesimo secolo l’Argentina è stata un paese caratterizzato dalla combinazione di indicatori di inclusione e uguaglianza sociale estremamente promettenti, se paragonati con il resto della regione, con una situazione di acuta instabilità politica. Quando nel 1983 furono ripristinate le istituzioni democratiche, dopo la dittatura militare più sanguinosa di tutta la storia del paese, la società argentina aveva già iniziato a cambiare il proprio tratto tipico di uguaglianza e mobilità sociale positiva, con l’avvio di un progressivo processo di deterioramento della qualità della vita delle classi popolari, inserito in un più ampio contesto di sempre più difforme distribuzione del reddito.

 

Democrazia e crisi

Durante la maggior parte del Ventesimo secolo l’Argentina è stata un paese caratterizzato dalla combinazione di indicatori di inclusione e uguaglianza sociale estremamente promettenti, se paragonati con il resto della regione, con una situazione di acuta instabilità politica. Quando nel 1983 furono ripristinate le istituzioni democratiche, dopo la dittatura militare più sanguinosa di tutta la storia del paese, la società argentina aveva già iniziato a cambiare il proprio tratto tipico di uguaglianza e mobilità sociale positiva, con l’avvio di un progressivo processo di deterioramento della qualità della vita delle classi popolari, inserito in un più ampio contesto di sempre più difforme distribuzione del reddito. La relativa prosperità argentina aveva già gradualmente perso le proprie basi: l’organizzazione economica improntata allo sviluppo e basata sul centralismo dello Stato era entrata in fase di crisi terminale a partire dalla metà degli anni Settanta, e il ricorso all’emissione monetaria, con le ricadute inflazionistiche che ne conseguono, sosteneva in modo sempre più fiacco i precari equilibri sociali.

I venti anni di democrazia argentina hanno avuto come sfondo tre poderosi cataclismi economici, ognuno con potenza distruttiva superiore alla precedente: la crisi del debito, all’inizio del periodo, cioè nel 1982-1983, il boom ultrainflazionistico del 1989-1990 e la crisi del modello di conversione uno a uno tra pesos e dollari verificatasi nel 2001-2002. Gli indici di disoccupazione, un tempo quasi insignificanti, sono cresciuti a un punto tale da sfiorare il 20% della popolazione attiva e l’Argentina, con la sua tipica prospera classe media, è divenuta un paese ove oltre la metà della popolazione vive al di sotto della linea statistica della povertà. Nel corso degli anni Novanta, il paese è stato il principale laboratorio dell’applicazione delle riforme economiche del libero mercato, canonizzate fin dalla fine del decennio precedente dagli specialisti degli organismi di credito internazionali con il cosiddetto Washington Consensus. Liberalizzazione, deregolamentazione dei mercati, apertura indiscriminata, privatizzazione delle aziende pubbliche in attivo, abbandono di qualsiasi tipo di politica attiva da parte dello Stato sono state messe in pratica nel paese con uno zelo che ha trasformato il successo riscosso dalle prime fasi del piano in un modello da imitare per tutti i paesi della regione. Il piatto forte del programma era rappresentato dalla conversione della valuta locale in regime di parità con il dollaro (1991), ma dopo la voragine iperinflazionistica che ha annullato la funzione di collante sociale della moneta, la stabilità economico-finanziaria è divenuta ben più che un conseguimento economico: si è convertita, cioè, in una chiave di lettura dell’ordine politico, in una formula politica capace di garantire il traghettamento verso un nuovo ordine economico.

Il paese ha vissuto, a partire dalla caduta del governo De la Rúa, una crisi che ha avuto non solo dimensioni poderose, ma anche molteplici sfaccettature e che non trova precedenti nella storia moderna del paese. Seppur consacrato presidente in quanto leader di una coalizione di centrosinistra, Fernando De la Rúa ha fatto dell’immobilismo conservatore il tratto caratteristico della propria gestione. La chiusura del mercato internazionale dei capitali e un indebitamento ormai ingestibile hanno reso insostenibile la convertibilità e il governo dell’Alianza (Unione Civica Radicale e Frepaso) è caduto, cedendo sotto il peso della mobilitazione dei segmenti più impoveriti della popolazione e dell’indignazione spontanea che fiumi di cittadini hanno espresso per le strade nei confronti del governo. La speranza popolare in una promessa che sbandierava di voler porre rimedio repubblicano agli abusi del potere politico e alla concentrazione di quello economico tipici della gestione Menem cedeva giocoforza il passo a una sfiducia generalizzata nei confronti dell’intera classe politica: «che se ne vadano tutti, che non ne rimanga neanche uno», era il motto delle proteste di strada.

La caduta in picchiata dell’attività economica, la rottura generale dei contratti (inclusa la confisca dei depositi bancari), l’isolamento internazionale, l’indignazione popolare espressa nelle strade delle principali città nonché il naufragio istituzionale di ben cinque presidenti in rapida successione degli ultimi giorni del 2001 lasciavano presagire per il paese un futuro a fosche tinte. Una precaria coalizione forgiata attorno alla struttura del Partido Justicialista della provincia di Buenos Aires appoggiata da un pugno di governatori provinciali, dai ranghi parlamentari giustizialisti e radicali e da ciò che rimaneva del Frepaso (la maggior parte dei cui membri era a suo tempo migrata verso altre compagini politiche) riuscì a mettere in piedi un ordine politico precario tramite il quale pilotare il paese attraverso la grave congiuntura politica che attraversava. Il buon senso di cui ha dato prova la dirigenza politica argentina che in un frangente così difficoltoso ha scelto di mantenersi fedele all’ordine istituzionale, seppure precario, invece di lanciarsi in una qualche avventura irresponsabile, una gestione prudente da parte delle autorità provvisorie e una buona dose di fortuna hanno di fatto salvato il regime democratico argentino. E lo hanno fatto assicurando la realizzazione ordinata, pulita e pacifica di quello che rappresenta uno dei pilastri del suddetto regime democratico: il suffragio popolare.

 

Dall’incendio alla ripresa

La disordinata ritirata dal potere da parte dell’Alianza (disordinata nel vero senso della parola, visto che De la Rúa fu costretto ad abbandonare il palazzo del governo con un elicottero ufficiale) lasciò sulla scena politica un attore non solo protagonista ma anche tale, o quasi, da escludere tutti gli altri: il peronismo, un peronismo eroso dalla vecchia disputa di potere tra l’ex presidente Carlos Menem e l’allora presidente provvisorio, Eduardo Duhalde. A destra e a sinistra del Partido Justicialista, Ricardo Lopez Murphy ed Elisa Carrió raccoglievano un numero rilevante di intenzioni di voto, senza però poter contare su forze politiche consistenti che ne appoggiassero realmente la candidatura. Nel tortuoso processo intrapreso da Duhalde alla ricerca di un candidato che trovasse origine nelle fila giustizialiste e che fosse in grado di affrontare con successo Menem, fa la sua comparsa la figura di Néstor Kirchner, governatore peronista della provincia di Santa Cruz, il quale, nel frattempo, aveva organizzato una forza di centrosinistra ed era disposto a presentarsi alle elezioni al di fuori delle strutture del proprio partito. Tale iniziativa, di natura collegiale e frontista da parte di Kirchner, fu accompagnata da un gruppo inizialmente sparuto di noi dirigenti del Frente Grande, che decidemmo di aderire indipendentemente dalle decisioni del partito, il quale al tempo versava in una crisi davvero profonda. Immediatamente dopo la prima tornata elettorale leggermente favorevole a Menem (24% dei suffragi contro il 22% di Kirchner), i sondaggi elettorali cominciarono ad attestare ciò che già si prevedeva sarebbe accaduto: che il ballottaggio, cioè, si sarebbe trasformato in una sorta di plebiscito anti-Menem e che il governatore di Santa Cruz avrebbe ottenuto oltre il 70% dei voti. Vista la situazione, Menem desistette e rinunciò a partecipare al ballottaggio.

Contrariamente alle stime di molti analisti politici che avevano previsto una fase politica instabile, con un presidente debole e dipendente da coloro che ne avevano assicurato il trionfo elettorale (in particolar modo il Partido Justicialista della provincia di Buenos Aires), Kirchner ha saputo imporre uno stile politico di grande dinamismo e concretezza, contrapponendosi a quello che ha identificato come un vero e proprio nemico, e cioè il «passato sotto Menem», e prefiggendosi come obiettivo la realizzazione di «un paese serio e normale». Ha intrapreso un energico processo di depurazione sia dell’esercito che della polizia federale, ha attaccato frontalmente alcuni fulcri emblematici della corruzione politica quale ad esempio l’Ente sociale pensionati (PAMI), si è fatto promotore di un rinnovamento della Corte suprema di giustizia che passa per il giudizio politico di quella che fu chiamata «la maggioranza automatica menemista», composta da giudici quanto mai sospetti tanto dal punto di vista etico che da quello politico; ha aperto la strada alla revisione dei crimini di Stato perpetrati negli anni Settanta e ha infine avviato un negoziato con gli organismi internazionali di credito per il riscaglionamento del debito basandosi su presupposti concettualmente diversi da quelli applicati negli ultimi anni. Fortemente assimilata all’orientamento politico dei governi del Brasile e del Cile, la gestione Kirchner apre la via a una nuova impostazione delle relazioni esterne del paese, vigorosamente improntate al rafforzamento del Mercosur e al processo d’integrazione sudamericana.

 

Dilemmi di fronte al nuovo scenario

In ragione del vento di novità portato dallo stile e dall’orientamento del nuovo governo, l’Argentina vive una sorta di frattura temporale tra quello che è il programma politico e i soggetti organici che sono tenuti a esplicitarlo. Ciò diviene ancora più evidente se prestiamo attenzione alla pronunciata continuità di cui ha dato prova il sistema dei partiti politici argentini, solo due anni dopo il deflagrare di una crisi che ha condotto all’orlo del collasso generale e irreversibile di un’intera classe politica dirigente così come delle strutture che fino a quel momento avevano presieduto all’organizzazione delle funzioni politiche nel paese. I cambiamenti ci sono stati, questo è certo, soprattutto per quel che concerne il gioco delle forze elettorali a livello nazionale, provinciale e parlamentare, ove si è assistito a un generale rafforzamento del predominio esercitato dal Partido Justicialista e a un’altrettanto diffusa perdita di terreno da parte dell’altra grande forza «tradizionale» della politica argentina, ovvero l’Unión Cívica Radical. Ma mentre le elezioni nazionali avevano evidenziato un panorama fondamentalmente frammentato, con tre candidati peronisti praticamente a pari livello – due di estrazione radicalista e un partito radicale destinato a una performance a dir poco catastrofica – le adunate elettorali provinciali misero in evidenza, in generale, il perdurare del vecchio ordine bipartitico peronista, radicale, seppure sbilanciato a favore dell’attuale partito di governo. I volti «nuovi» della politica, Elisa Carrió alla testa di una coalizione di centrosinistra e López Murphy alla guida di un raggruppamento di centrodestra raccolsero un ragguardevole numero di consensi, senza però riuscire a ottenere la piattaforma politico-istituzionale necessaria a sostenere i propri progetti.

In sintesi, nel paese si è dato l’avvio alla realizzazione di un nuovo programma politico e a un nuovo corso di riflessioni senza che le istituzioni rappresentative e di governo, né tanto meno il sistema partitocratico, abbiano fatto registrare cambiamenti di composizione degni di nota. A comprovare quanto mai drammaticamente questa doppia vita della politica argentina basti pensare all’esempio del Partido Justicialista, che a suo tempo appoggiò, non senza tensioni ma pur sempre con grande energia, le riforme strutturali a favore dell’economia di mercato e che oggi abbraccia invece ufficialmente le posizioni di un presidente che accusa proprio quella fase storica della vita del paese di aver generato la grave situazione di emergenza in cui versano oggigiorno milioni di uomini e donne.

La persistenza del vecchio paesaggio politico alimenta tutta una serie di prevenzioni politiche tra molti di coloro che, come me, non appartengono alla tradizione socioculturale peronista. Il ragionamento è più o meno questo: il peronismo non ha ideologia, ma senso del potere, ed è quindi in grado di passare dalla strenua difesa del neo-liberalismo alla militanza nella socialdemocrazia internazionale a seconda del corso degli eventi. Grazie a questo pragmatismo e alla sua natura populista, il peronismo tende all’egemonia: il suo pathos, così tipico del movimento popolare, fa sì che il peronismo percepisca se stesso non come un partito ma come l’espressione organica della nazione presa nel suo insieme. Ma cosa è accaduto dalla caduta dell’Alianza fino ad oggi? È successo che il clima ideologico è cambiato drasticamente e parallelamente si è sgretolata qualsiasi alternativa organica al predominio peronista. È così che il giustizialismo, tornato al governo della nazione, maggioritario in entrambe le Camere legislative, alla guida amministrativa dei due terzi delle province, tra le quali le più estese e popolose, tende a tornare alle proprie inclinazioni egemoniche. La conclusione logica di tutto questo intreccio di argomentazioni è che una forza di sinistra riformista e repubblicana deve necessariamente andare a costituire un’alternativa esterna a questo mostro con appetiti autoritari che si sente nuovamente all’apice del proprio potere. Sono i fatti stessi a legittimare una lettura simmetricamente semplicista, in questo caso derivata dalla tradizione nazional-popolare del peronismo. Secondo questa interpretazione ci troveremmo di fronte a un recupero del peronismo storico, quello vero, quello che nacque all’ombra dei tre vessilli fondatori: l’indipendenza economica, la sovranità politica e la giustizia sociale. Menem avrebbe dunque rappresentato una deviazione momentanea, un tradimento alla storia del peronismo che non lascia traccia alcuna, ad eccezione della vera e propria tragedia sociale generata nel suo cammino verso il potere. Il peronismo di oggi tornerà quindi a essere l’incarnazione delle necessità di tutto il popolo e il resto delle forze politiche potrà, nella migliore delle ipotesi, accompagnare la ricostruzione nazionale ma non potrà non riconoscere al peronismo il suo ruolo di guida esclusiva del processo in questione.

A favore di queste due interpretazioni, contraddittorie solo in apparenza, gioca di fatto l’enorme peso delle tradizioni politiche nazionali. E sarebbe un atto di superbia positivista o progressista attaccarle definendole una pura e semplice emanazione del passato, anche tenendo in considerazione che già essere un’«emanazione del passato» non è poca cosa per una strategia politica, giacché mette al servizio di chi formula tale strategia tutto il peso dei miti, tutto il valore di quegli schemi cognitivi già acquisiti che ci permettono di orientarci in un mondo tanto complesso e mutevole. Eppure l’antinomia peronismo-antiperonismo non è un «errore» di qualche leader o della società argentina tutta intera, non è un «malinteso», né tanto meno il frutto di una propaganda animata da cattive intenzioni nei confronti del paese: è una storia intensa, è una forma di cultura politica, è il modo in cui varie generazioni di argentini hanno scelto di interpretare il dramma politico nazionale. D’altronde, nel mondo politico le interpretazioni degli avvenimenti non sono voci passive, passibili di essere classificate sulla base della «verità» o dell’«errore» che enunciano, ma sono semmai fattori attivi nella costituzione delle forze politiche attive, «creano» un determinato universo, alimentano determinati comportamenti, predispongono conflitti. Per questo l’interpretazione che parla del «mostro peronista» che si appropria di tutti gli iter decisionali della vita nazionale, ma anche quella che palesa la ricomparsa del peronismo nazional-popolare, protettore e guida della nazione, altro non sono che forme operative dell’azione politica e tali rimangono a dispetto del fatto che le si celino sotto le mentite spoglie di un’«analisi neutrale». Sono forme rispettabili e discutibili in termini strategici e politici, più che adottabili o scartabili in termini «scientifici». Lo stesso potrebbe applicarsi a un’altra possibile lettura, quella operata da una prospettiva di sinistra.

 

Un’altra alternativa per la sinistra

La prima differenza da stabilire rispetto a tutto il ragionamento sviluppato attorno alla formula peronismo-antiperonismo è quella relativa alla situazione argentina odierna. Infatti in entrambe le descrizioni sembra dominare l’immagine (e anche la previsione) di un paese ormai uscito dalla crisi, che ha ormai una sua rotta definita e il cui governo gode dell’appoggio solido e duraturo della stragrande maggioranza della popolazione. Il presente dell’Argentina sembra piuttosto lontano da questa rosea rappresentazione: le radici strutturali della crisi perdurano e la loro eliminazione non richiederà un puro e semplice atto di volontà, ma semmai una forza sociale e politica davvero poderosa disposta a farsi carico di questa grave incombenza. Una forza che oggi non esiste. Sempre secondo il ragionamento sopramenzionato, gli anni Novanta sarebbero stati un episodio secondario della storia del paese, mentre la coalizione populista e conservatrice che lanciò nella medesima impresa politica tanto i poteri economici più concentrati quanto i settori più poveri della società sarebbe stata il frutto di una congiuntura irripetibile. Va detto però che questo modo di spiegare le peripezie politiche del paese degli ultimi anni occulta conflitti e scontri di valore molto radicati nella società argentina e incarna un’idea di omogeneità sociale poco produttiva quando si tratta di pensare e operare in una società che è invece complessa, contraddittoria, attanagliata da una povertà senza precedenti, e contemporaneamente coinvolta in tutte quelle trasformazioni culturali che hanno di fatto cambiato il mondo negli ultimi anni. Tutto tende a indicare che la coalizione populista-liberale ha buone possibilità di riprendersi, perché conserva potenti mezzi economici, di comunicazione, e perché mantiene tuttora solide basi di sostegno in seno alla cultura popolare.

Si potrebbe pensare alla sinistra dei nostri giorni non già come a un insieme politico-culturale omogeneo, né come a una dottrina sempre uguale a se stessa, ma semmai come a un grande movimento organizzato capace di richiamare nella propria orbita culture e tradizioni politiche non solo diverse tra di loro, ma anche caratterizzate da una lunga storia di reciproci scontri. È la sinistra che si dà un programma, la sinistra delle mete concrete e possibili, mete che presuppongono il massimo impegno degli interlocutori sociali. Essere riformista ai nostri giorni per la sinistra non consiste solamente nell’accantonare il pensiero escatologico rivoluzionario, ma piuttosto nel circoscrivere il terreno dello scontro politico e nel raccogliere le forze che saranno necessarie per risolvere tale conflitto, mirando a una maggiore uguaglianza e a un migliore funzionamento della vita repubblicana. L’Argentina ha di fronte un orizzonte complesso e la rotta da seguire deve ancora essere definita. Manca una dinamica statale effettiva e democratica che renda il primato dello Stato di diritto un fatto reale a tutti i livelli della vita sociale; non abbiamo ancora definito una direzione economica socialmente sostenibile, ossia tale da assicurare un posto di lavoro alla quasi totalità dei cittadini e salvaguardie sociali decenti a coloro che non ne hanno; si sono gettate le basi per recuperare appieno la capacità dello Stato di imporre a tutti il prelievo fiscale secondo modalità improntate all’equità e alla gradualità; abbiamo bisogno di rigenerare il vero federalismo, così da poter delegare agli Stati provinciali talune funzioni di prelievo e da assicurare una base minima di eguaglianza tra le diverse regioni. Non ultimo per importanza, incombe l’obbligo di mettere in piedi un’autentica politica di Stato in tutto quel che riguarda le nostre relazioni con il resto del mondo: una politica che consideri il rafforzamento del Mercosur e l’integrazione regionale sudamericana i pilastri per nostro inserimento nel mondo ma anche una garanzia per il consolidamento della democrazia e della giustizia sociale nel paese. La definizione di una politica appropriata rispetto al nuovo scenario creato dall’ascesa di Kirchner alla carica di presidente presuppone l’assoluta centralità del suddetto programma in quanto espressione genuina di un’identità politica. Se il passato, invece di costituire una lezione, diviene un impedimento ad affrontare i doveri a cui ci chiama il presente, allora si è di fronte a un arroccamento sterile e improduttivo, il cui risultato più probabile sarà quello di ritardare la costruzione di una forza politica, di un soggetto capace di esprimere quell’orientamento alternativo che si è delineato in questi ultimi mesi. Si tratta di una forza che non esiste e che non è mai esistita nel paese. L’espressione sinistra democratica o centrosinistra riporta la mente più a una certa cultura sociale, a una costellazione di interessi e di valori che a un soggetto politico reale e operante. L’esperienza del Frente Grande e del Frepaso è stato il punto più alto raggiunto verso la costruzione di un raggruppamento progressista analogo a quelli esistenti in Cile, Uruguay e Brasile.

Visto il disastroso bilancio dell’esperienza di governo dell’Alianza e visto anche il numero di errori commessi in quel periodo dalla dirigenza del Frente, si poteva essere portati a pensare che l’occasione per riaccorpare le forze disperse dalla disfatta non si sarebbe presentata poi tanto presto. Oggi però quest’opportunità torna a intravedersi all’orizzonte.

Per coglierla, la sinistra deve definire in modo corretto il proprio rapporto con il potere. Deve decidere se le proprie idee, la propria organizzazione, il profilo dei propri dirigenti e la propria strategia hanno come filo conduttore la volontà di reggere e guidare il paese o se il suo habitat preferito è l’opposizione, ove è più facile mantenere la purezza dei propri ideali ma da cui è di fatto impossibile decidere il cammino del paese. Se questo dilemma dovesse risolversi a favore della costituzione di una forza con volontà maggioritaria e di governo, non ci si potrà esimere dall’affrontare la problematica delle alleanze, la questione relativa a quelle coalizioni che oggi sembrano, in buona parte del mondo, strumenti per governare società complesse e culturalmente frammentate. L’Argentina ha scarsa esperienza di alleanze politiche durature: i grandi partiti politici del Ventesimo secolo si strutturarono seguendo la matrice dei movimenti, e il sistema partitocratrico propriamente detto fu per lungo tempo nulla più che un attore come altri su di un palcoscenico sovraffollato dai veti corporativi e dai ricatti militari. D’altro canto l’esito dell’esperienza dell’Alianza che si formò nel 1997, andò al governo nel 1999 e si disintegrò completamente nel 2001 non è proprio tale da alimentare un’opinione favorevole ai governi di coalizione. Senza dubbio una delle cause principali del fiasco del governo De la Rúa fu giustamente il fatto di non esser mai riuscito a essere un autentico governo di coalizione: i partiti che sostennero la sua ascesa al governo in pratica passarono in secondo piano appena assunta la presidenza. Le coalizioni di governo sembrano quasi più una disciplina e una pratica da apprendere che un progetto da configurare.

È necessario intendere meglio una vita politica le cui modalità sono cambiate radicalmente. L’effetto delle apparizioni televisive sulle manifestazioni di strada, il ruolo della pubblicità sulla costruzione delle immagini politiche, la centralità dei sondaggi d’opinione hanno aperto la strada a una marcata personalizzazione dell’offerta politica, tanto che alcuni partiti hanno piuttosto il profilo dell’impresa di natura personale. Per molto tempo la sinistra ha demonizzato questa «americanizzazione» delle campagne e della vita politica in generale. Negli anni Novanta il Frente Grande e soprattutto il suo massimo dirigente, Carlos «Chacho» Alvarez, seppero trovare un’adeguata collocazione in seno a questo nuovo scenario e sfruttare con intelligenza le proprie possibilità. È indubbio che l’esperienza del Frente finì per insegnare che quello dello spettacolo televisivo è solo un aspetto, seppure centrale, della costruzione politica. Un paese contraddistinto da uno sviluppo così disuguale come l’Argentina mette in luce tutti i limiti della costruzione politica mediatica: si può anche vincere un’elezione nazionale senza partiti politici e utilizzando come elemento di forza le doti di comunicazione del candidato, però l’esercizio del governo, con la complessità insita nelle relazioni con una scacchiera di governi provinciali socialmente e culturalmente diversi tra di loro da una parte e con il Congresso dall’altra, richiede presenza territoriale e sviluppo strutturale.

A partire dall’avvento di Kirchner abbiamo assistito a un certo avvicinamento della politica alla società, senza peraltro che questo significhi idillio. Si tratta comunque di un enorme vantaggio se si pensa alla realizzazione di una grande forza riformista in Argentina. Nei mesi successivi al crollo si è verificata una furiosa offensiva antipolitica: favorita dal clima di indignazione popolare rivolta alla classe politica nel suo insieme si sviluppò tra uomini della comunicazione, intellettuali e addirittura politici influenti una corrente ideologica che mise sul banco degli accusati tutta una dirigenza politica concreta, puntando il dito sul generale decadimento del carattere rappresentativo della democrazia e contestando ai partiti il loro ruolo di strumenti di democrazia. Il movimento antipolitico è per sua natura destrorso. La negazione del conflitto politico, del negoziato e del dialogo politico implicano una fede nel prevalere della ragione tecnocratica: invece dei voti, il sapere, e generalmente si tratta del sapere di determinati circoli plutocratici. La politica democratica è una conquista dei più deboli, di coloro che non soddisfano le proprie necessità nel contesto del mercato economico. I grandi partiti politici di massa sono stati partoriti dalle classi subalterne al fine di difendere i propri diritti e conquistarsi la cittadinanza a pieno titolo. Se i partiti di oggi non assolvono alle proprie funzioni, allora è necessario crearne altri. Se la forma classica dei partiti di massa è stata superata dal tempo, bisognerà escogitare forme nuove. Come pensare tuttavia alla sinistra senza partiti che le diano voce? Come far spazio a un modello di orientamento politico alternativo, senza capi, senza organizzazioni, senza aderenti?

Per tutte queste ragioni il futuro della sinistra democratica ruota attorno alla sua capacità di costruire un nuovo soggetto politico, un partito o una costellazione di partiti che esprimano la diversità culturale che le è dato rappresentare. Ma questa costruzione è di fatto realizzabile a margine del progetto di trasformazione lanciato dal presidente Kirchner? Per la sinistra democratica non è un’eresia condividere un progetto politico con uomini e donne che si professano peronisti? Vedere la questione in questa luce significherebbe ricadere nella classica ottica manichea che spiega il dramma nazionale con la formula semplicistica del bene e del male. Continuare a credere nell’ineluttabilità dell’abisso che separa i progressisti di tradizione socialista dai progressisti di tradizione nazional-popolare significa solo fomentare il perdurare di muri che invece la storia degli ultimi anni ha irrimediabilmente condannato a cadere. Quando ancora governava l’Alianza un piccolo gruppo di dirigenti del Frente Grande, tra i quali io stesso, hanno dato inizio a un processo di avvicinamento politico all’allora governatore di Santa Cruz, Néstor Kirchner. Avevamo cominciato a cercare tutte le soluzioni possibili per tornare a percorrere il cammino a suo tempo imboccato dal Frepaso e che la coalizione al governo aveva abbandonato irreversibilmente. Non credevamo allora né crediamo adesso che l’assorbimento delle forze di centrosinistra da parte del giustizialismo sia l’opzione più adeguata. Siamo convinti invece della possibilità e della necessità di realizzare una grande forza di sinistra capace di far confluire culture ed esperienze politiche diverse in un’impresa comune che punti alla trasformazione. Quello che nel 2001 pareva un sogno lontano e finanche utopico è divenuto oggi una possibilità concreta, pienamente realizzabile. La confluenza progressista argentina non sarà un atto imposto né il frutto di una qualche magia: siamo convinti che partecipare attivamente all’opera di trasformazione messa in moto dal nuovo governo sia il modo migliore per stringere i tempi verso la nascita e il rafforzamento di un’alternativa progressista in Argentina.

 

La dimensione regionale della sinistra

Come già detto, il governo del presidente Kirchner ha contrassegnato una svolta vigorosa nell’inserimento del paese in una dinamica internazionale. Il recente incontro con il presidente del Brasile Lula e la firma di accordi di grande importanza tra i quali il documento programmatico comune denominato Buenos Aires Consensus costituiscono l’espressione più concentrata di una volontà politica tesa ad approfondire e a rendere irreversibile il processo d’integrazione regionale. Il rafforzamento interno del Mercosur e la sua proiezione verso l’integrazione sudamericana sono il tratto caratteristico di questa impostazione prioritaria della nostra politica estera, ed è su questa base che si cerca di intervenire con accresciuta efficacia in tutta una serie di negoziati commerciali, come quello relativo all’integrazione dell’emisfero (ALCA) o quello con l’Unione europea. La più profonda ragion d’essere di questo orientamento è il dilemma inerente al tipo di globalizzazione di cui abbiamo bisogno e allo sforzo da produrre per edificare istanze politiche capaci di imbrigliare una dinamica del flusso di capitali che altrimenti tenderebbe per sua vocazione naturale ad allargare il divario tra paesi e regioni.

È necessario che la sinistra abbandoni posizioni difensive o conservatrici rispetto al processo di globalizzazione. L’idea di chiudere la nazione, di arroccarsi in difesa del passato di fronte all’imponente trasformazione culturale che stiamo vivendo non fa certo parte del codice genetico della sinistra, ma neppure sarebbe consigliabile sposare una visione idealizzata di tale trasformazione, basata su una fede ingenua nel progresso lineare e cieca ai nuovi e complessi problemi che ci si parano innanzi. Il problema potrebbe essere riassunto così: come far sì che la politica, che una politica democratica, si metta in condizione di governare la globalizzazione e di assicurare che il mondo non sia solo e in così larga misura «un grande mercato globale» ma piuttosto, anzi, soprattutto, il luogo in cui si esplicita una cittadinanza globale in piena regola?

Un paese come l’Argentina, che registra un livello di sviluppo intermedio e disuguale, geograficamente lontano dai principali centri del potere del mondo, che oltretutto sta uscendo proprio adesso da una crisi dagli effetti devastanti non ha grandi alternative all’integrazione regionale, se non quella di rassegnarsi a contare sempre di meno. D’altro canto il regionalismo, nella sua accezione politica e non solamente economica, è una tendenza cruciale nel mondo odierno. È chiaro che si tratta di un processo per niente semplice né lineare, perché oltre tre secoli di affermazione dello Stato nazionale come soggetto esclusivo della politica e collante culturale basilare per il processo di formazione della cittadinanza non possono, né devono, essere cancellati da un decreto. Gli Stati nazionali, con le loro costituzioni democratiche, continuano a essere i garanti fondamentali della tutela dei diritti umani, sociali e culturali. È certo che senza tutte le istanze organizzative regionali e, in prospettiva, mondiali, gli Stati si autocondannano ad avere una competenza senza regole quanto all’attrazione dei flussi di capitali, il che potrebbe portare con sé il degrado sociale e ambientale delle condizioni di vita dei suoi abitanti.

La sinistra ha qualcosa da dire a riguardo? È possibile che l’audacia e il dinamismo necessari a dare impulso ai processi di integrazione regionale e ad assicurare al suo interno il prevalere della politica democratica sul mercantilismo esclusivo di tale processo possano diventare il segno distintivo della sinistra dei nostri giorni? Affinché questo si realizzi, va riconosciuta la necessità di un ambito di discussione sistematico e organico tra le forze progressiste dei nostri paesi: uno scenario in seno al quale sia possibile analizzare in profondità gli ostacoli, in cui si unifichino le posizioni e si articoli un messaggio comune verso le nostre rispettive società. La definizione del programma d’integrazione non può rimanere solo nelle mani delle forze economiche, la politica può e deve intervenire. E la sinistra può rappresentare in ambito regionale una fonte di energia per alimentare i processi di riforma in cui si è impegnata. Un processo di trasformazione limitato a un solo paese è cosa impensabile, e oggi più che mai il marchio dell’internazionalismo deve rappresentare un principio guida per la politica della sinistra.