Il valore innovativo dell'investimento in sanità

Written by Ignazio R. Marino Wednesday, 01 March 2006 02:00 Print

Innovare in sanità, oggi, significa rafforzare l’impianto sociale e ciò avviene anche senza ricorrere a scoperte tecnologiche sofisticate. Il vero impatto sulla salute della popolazione del terzo millennio e, di conseguenza, sull’economia e sulla forza di un paese, passa attraverso misure più semplici di quanto possiamo pensare. Per salvare vite umane e migliorare la qualità di vita dei cittadini serve innanzitutto promuovere la prevenzione, assicurare servizi di base capillari, regolamentare durata e modalità dei ricoveri, informare e comunicare con i cittadini. Operazioni semplici dal punto di vista tecnico, perfino scontate, ma non per questo di facile o immediata adozione, anzi sempre più spesso accantonate in favore di scelte apparentemente più fruttuose. Di fronte a una scienza medica che propone soluzioni altamente specializzate, talvolta anticipando la richiesta della comunità dei pazienti, almeno di quelli più abbienti, pare banale insistere sull’opportunità di investire per esempio in campagne di salute pubblica che non promettono risultati immediati ma assicurano un impatto più ampio e duraturo.

Innovare in sanità, oggi, significa rafforzare l’impianto sociale e ciò avviene anche senza ricorrere a scoperte tecnologiche sofisticate. Il vero impatto sulla salute della popolazione del terzo millennio e, di conseguenza, sull’economia e sulla forza di un paese, passa attraverso misure più semplici di quanto possiamo pensare. Per salvare vite umane e migliorare la qualità di vita dei cittadini serve innanzitutto promuovere la prevenzione, assicurare servizi di base capillari, regolamentare durata e modalità dei ricoveri, informare e comunicare con i cittadini. Operazioni semplici dal punto di vista tecnico, perfino scontate, ma non per questo di facile o immediata adozione, anzi sempre più spesso accantonate in favore di scelte apparentemente più fruttuose. Di fronte a una scienza medica che propone soluzioni altamente specializzate, talvolta anticipando la richiesta della comunità dei pazienti, almeno di quelli più abbienti, pare banale insistere sull’opportunità di investire per esempio in campagne di salute pubblica che non promettono risultati immediati ma assicurano un impatto più ampio e duraturo.

Non stupisce il fatto che la gestione sanitaria ad ogni livello, sia esso quello di politiche centrali o di organizzazione locale, pretenda affidabili proiezioni di rendimento. È naturale che governo e istituzioni si interroghino sulle cause e sulle ricadute del progressivo aumento della spesa pubblica sanitaria. In base ai dati OCSE, dalla fine degli anni Novanta, i costi sanitari sono aumentati a un ritmo superiore rispetto alla crescita economica, rendendo inevitabilmente più cauta la scelta degli investimenti da promuovere sotto la stretta dell’incombente debito pubblico. Nel 2003 le nazioni OCSE hanno consumato in media l’8,8% del PIL in spese mediche, con un incremento del 7,1% rispetto al 1990. Le singole quote variano da paese a paese, partendo dal picco del 15% degli Stati Uniti fino al minimo del 6% della Corea. L’Italia si piazza a metà classifica con l’8,4%, comunque indietro rispetto a gran parte dei paesi europei. Sotto di noi compaiono soltanto Turchia, Repubblica Slovacca, Polonia, Messico, Corea, Finlandia, Austria, Lussemburgo, Irlanda e Regno Unito. Scarsa, da noi, anche la spesa sanitaria pro capite che nel 2003 ha raggiunto i 2.258 dollari contro il valore medio OCSE di 2.307 dollari. Risultiamo carenti anche per numero di infermieri (5,4 per mille abitanti contro la media OCSE di 8,2) mentre abbiamo un eccessivo numero di medici (4,1 per mille abitanti contro la media OCSE di 2,9) e spendiamo troppo per i farmaci, una voce che copre quasi un quarto (22,1%) dei costi sanitari complessivi.

Cambiano anche le priorità assegnate dai singoli governi. Sempre nel 2003, per esempio, la prevenzione ha assorbito in media solo il 3% della spesa sanitaria del blocco OCSE; una quota davvero insufficiente, ma vale la pena sottolineare che il fanalino di coda in questo settore spetta all’Italia che non è riuscita a investire nemmeno l’1% del PIL in programmi di salute pubblica.1 Più che un peccato, un gravissimo errore, come ben spiega lo studio svolto da un istituto di ricerca americano e pubblicato col titolo «The Value of Investment in Health: Better Care, Better Lives».2 L’analisi dimostra, dati alla mano, che ogni dollaro aggiuntivo investito in sanità dal 1980, nell’arco di vent’anni, ha fruttato benefici quantificabili monetariamente fra i 2,40 e i 3 dollari. Il documento racchiude un importante messaggio: non si tratta di giustificare la crescente spesa sanitaria tout court, ma di concepirla come un investimento che garantisce un ritorno concreto.

Lo studio conferma che grazie agli investimenti riversati nel settore salute, dal 1980 al 2000 gli Stati Uniti hanno dimezzato il tasso di mortalità per attacco cardiaco, abbassato del 20% quello per cancro al seno, aumentato di tre anni l’aspettativa di vita alla nascita, ridotto di un quarto il tasso di invalidità fra gli anziani e ottimizzato la durata dei ricoveri ospedalieri, diminuiti del 56% – solo per citare alcuni macro-fenomeni. Gli analisti hanno osservato la sanità americana concentrandosi su quattro patologie che sono fra le principali cause di morte e disabilità, non solo negli Stati Uniti: infarto cardiaco, diabete di tipo 2, ictus, cancro alla mammella. Per il periodo 1980-2000 si è analizzato ciò che è stato speso, scoperto e promosso nel paese per ognuna delle quattro condizioni. Le conclusioni sono state che l’impatto degli investimenti sulla salute della popolazione americana nei venti anni passati supera di gran lunga l’entità dei costi a essi relativi. Il denaro pubblico non è stato semplicemente speso, ma ha attivato meccanismi rivelatisi al tempo stesso economicamente virtuosi e clinicamente efficaci e il cui valore viene misurato in termini di benefici sanitari (ad esempio anni di vita guadagnati), di benefici sanitari monetarizzati (assegnando un valore economico a ogni anno di vita guadagnato o a ogni decesso scampato) e di benefici indiretti (ad esempio produttività). Parliamo di investimenti, dunque, e non di spesa, un salto concettuale prima ancora che politico. Se i miglioramenti sopraelencati non fossero subentrati, solo nel 2000 gli Stati Uniti avrebbero sì risparmiato 634 milioni di dollari in spese sanitarie, ma avrebbero pagato un prezzo molto alto in termini di vite umane e funzionalità dei servizi. Più specificatamente, si sarebbero registrati 470.000 decessi in più, 2,3 milioni di persone sarebbero entrate a far parte della categoria degli invalidi e ci sarebbero stati 206 milioni di giorni di degenze improprie.

Appare evidente anche dallo studio americano che gli investimenti, quelli che funzionano sul lungo periodo provocando un sensibile miglioramento della salute pubblica e una netta ricaduta sulla vita socioeconomica di un paese, oggi consistono principalmente in operazioni di bassa o media tecnologia e in campagne di informazione e prevenzione che mirano a promuovere stili di vita sani, piuttosto che in sofisticate terapie altamente tecnologiche.

Questa osservazione racchiude potenzialità positive ma al tempo stesso di difficile applicazione: se da un lato promuove il concetto introdotto fin dall’inizio, ossia il fatto che oggi in sanità innovare significa soprattutto investire in programmi di salute pubblica, dall’altro emerge il peso della responsabilità ultima di chi opera scelte politiche, di chi gestisce la spesa pubblica e definisce le priorità di azione. Molto dipende dal tipo di sistema sanitario in cui si operano le scelte politiche.

In sostegno di una politica sanitaria più responsabile e lungimirante e, proprio per questo, consapevole dell’andamento dei propri investimenti, interviene da tempo l’Organizzazione mondiale della sanità e il suo programma «Investire per la salute» (Investment for Health o IFH) che mira a rivalutare il ruolo dei determinanti sociali ed economici, spingendo affinché chi si occupa di salute pubblica, in politica come in ricerca, riveda metodi e finalità. Eppure questo approccio, sviluppato sull’onda della Carta di Ottawa del 1986, stenta a trova re applicazione diretta.

Recenti sproni a non considerare la spesa sanitaria come consumo di denaro ma come investimento necessario e conveniente giungono anche dai mondi dell’industria e della finanza che forniscono punti di vista interessanti, ponendo le basi per sinergie intersettoriali. Un articolo pubblicato dal National Bureau of Economic Research e commentato su «Business Week»3 alla fine dello scorso anno, analizza l’impatto del peso alla nascita sullo sviluppo dell’individuo in età adulta e le sue ricadute sul mercato del lavoro. La conclusione è che le spese sanitarie in sostegno della prima infanzia dovrebbero essere considerate veri e propri investimenti per il futuro di ogni paese. Un tale approccio è stato accolto dall’Unione che, all’interno del suo programma di governo 2006-2011, sottolinea la necessità di ampliare il sistema degli indicatori economici includendo anche parametri fondamentali come, ad esempio, l’Indice di sviluppo umano (HID), che accosta ai dati ricavati della crescita economica del paese quelli del livello delle prestazioni sanitarie e dell’istruzione. I benefici derivanti dalla salute diventano fattori di importanza macro- economica anche per chi guarda alla sanità come a un’industria in un mercato in competizione. In effetti, nel mondo occidentale la sanità impiega il 15% della forza lavoro4 e, solo in Europa, nel periodo compreso fra il 1990 e il 1996, il settore ha registrato un livello di produttività dell’ 1,3%, superiore a quello della sfera bancaria e assicurativa. Con quella che è stata definita una «svolta epocale»5 anche Confindustria, in Italia, sposa la teoria che investire in sanità è un’ottima strategia economica e sottolinea la rilevanza del comparto sanità nel nostro paese, con la sua capacità di dare occupazione «diretta, qualificata e stabile» a 1,4 milioni di addetti che sfiorano i 2,5 milioni considerando l’indotto e finendo per costituire il 10% della forza lavoro occupata.6

È sempre più chiaro quindi che gli interessi che si muovono attorno agli investimenti in sanità sono molteplici e che le finalità devono essere attentamente vagliate, ma da più direzioni giungono sollecitazioni che, pur promuovendo opportunità di crescita anche economica, mettono in discussione certe rigidità della gestione sanitaria di impronta puramente liberista. I principali campi di azione risultano essere la creazione di politiche pubbliche che promuovano salute, il rafforzamento della partecipazione dei cittadini alla formulazione e applicazione di tali misure, la costruzione di contesti di supporto anche al di fuori delle strutture sanitarie propriamente dette, lo sviluppo di programmi educativi e una più generale azione per orientare i servizi sanitari sulla promozione della salute oltre che sulla cura e riabilitazione.

Appare fondamentale collegare con responsabilità e lungimiranza i bisogni reali dei cittadini a investimenti mirati, protratti nel tempo e coordinati anche a livello extra-nazionale (penso alla dimensione europea, ad esempio), all’interno di un sistema intersettoriale che garantisca equilibrio fra i diversi attori. Il tema della responsabilità ricorre sempre più spesso perché è un requisito che non coinvolge soltanto chi programma e amministra salute, promuovendo politiche di prevenzione, per esempio, ma ogni singolo cittadino che quelle politiche deve fare proprie.

Proprio dalle pagine di «Italianieuropei», lo scorso ottobre, erano partite delle «proposte programmatiche per una trasformazione sostenibile della sanità negli anni futuri»,7 basate sull’equità, sulla semplificazione dell’organizzazione e sull’umanizzazione del rapporto fra cittadino e sistema sanitario. Le proposte, elaborate allora in macroaree di intervento, hanno trovato ampio spazio all’interno del programma elettorale dell’Unione che, in sanità, mira innanzitutto a:

  • porre i medici di famiglia al centro del sistema salute;
  • ridimensionare le liste di attesa;
  • promuovere la territorializzazione dei servizi;
  • istituire un fondo dedicato agli anziani non autosufficienti;
  • attuare interventi strutturali e tecnologici nel Mezzogiorno;
  • istituire un fondo dedicato alla ricerca biomedica e farmaceutica;
  • affermare il diritto alla dichiarazione di volontà anticipata o testamento biologico;
  • investire nella tecnologia informatica.

Si tratta di ambiti ugualmente urgenti che non esauriscono la lista di priorità ma pongono le basi per una politica di investimenti in sanità procrastinata da troppo tempo.

Il ruolo fondamentale attribuito al medico di medicina generale presuppone una sua riqualificazione professionale che passa attraverso investimenti in formazione ma anche nella fornitura di personale e strumenti dedicati, per promuovere il ruolo centrale del medico di famiglia lungo tutto l’arco della vita del cittadino, dalla nascita alla terza età, insistendo su azioni di prevenzione e informazione. A tale scopo, è auspicabile l’istituzione di corsi di specializzazione mirati in medicina generale, l’organizzazione di studi medici associati e la disponibilità, presso ogni ambulatorio, di attrezzature e risorse (infermieri, tecnici) in grado di eseguire esami diagnostici di base e servizi di prima assistenza, in modo da alleggerire i pronto soccorso, dove spesso si rivolgono pazienti con patologie non gravi che potrebbero essere seguiti in modo efficace e rapido dal medico di famiglia. Un simile intervento, sul lungo periodo, assicurerebbe ricadute sulla razionalizzazione dei ricoveri, soprattutto di emergenza ma anche sulla promozione di stili di vita sani e sull’umanizzazione del rapporto medico-paziente. Attualmente l’Italia investe il 5% dei fondi destinati alla sanità in programmi di prevenzione, una quota che andrebbe almeno raddoppiata. Occorre però modificare innanzitutto la cultura, partendo da campagne di educazione nelle quali un ruolo cruciale può e deve essere svolto proprio dai medici di medicina generale. Sul versante educativo, un impatto duraturo potrebbe essere raggiunto organizzando in maniera sistematica nei programmi scolastici dei corsi di «educazione alla salute» affidati anche in questo caso a medici di medicina generale adeguatamente preparati.

Il problema delle liste d’attesa è inevitabilmente legato alla carenza di tecnici (soprattutto radiologi e anestesisti) all’interno della pur sovrappopolata categoria dei medici italiani. È un problema che va ricondotto anche al cattivo funzionamento delle strutture che, nella maggior parte dei casi, sono attive solo poche ore al giorno quando invece, dal punto di vista strettamente tecnico, potrebbero essere utilizzate a ritmo continuo, giorno e notte, sabati e domeniche. Al di là degli aspetti organizzativi, la questione delle liste d’attesa sta creando un divario nel trattamento dei pazienti: la differenza tra il poter fare una TAC nel giro di sette giorni o dopo tre mesi significa anche la differenza tra diagnosi precoce e tardiva, a volte addirittura tra la vita e la morte. Sempre più spesso i pazienti si rivolgono a strutture private solo per necessità e chi non può permettersi di sostenere le spese non ha altra scelta che affidarsi alla speranza. Le liste d’attesa stanno creando in Italia una vera e propria discriminazione tra i pazienti ricchi e meno abbienti, contravvenendo a quel patto di solidarietà che è scritto nei principi del nostro sistema sanitario nazionale e che abbiamo il dove re di sforzarci di rispettare.

Oltre a una necessaria pianificazione delle risorse a partire dalle scuole di specializzazione, occorre attivare i servizi cruciali (la diagnostica, le sale operatorie) a tempo pieno, prevedendo contemporaneamente misure ad hoc per la semplificazione dell’accesso alle strutture. Un’opzione possibile passa attraverso la centralizzazione di alcuni servizi, ad esempio all’istituzione di centri unici di prenotazione regionali, sulla scia di esperienze di successo già avviate in alcune aree del paese e il collegamento in rete di tutti i servizi di diagnostica e gli ospedali all’interno di una stessa regione.

La centralità della persona e in particolare dei soggetti più deboli, in precarie condizioni economiche, in stato di disagio o di emarginazione, gli ammalati cronici e quelli non autosufficienti o con handicap deve diventare un punto fermo nell’organizzazione della sanità pubblica. Ciò è realizzabile con l’aiuto dei medici di famiglia ma soprattutto attraverso una territorializzazione dei servizi, coprendo ogni dimensione, dalla prevenzione, alla cura, alla riabilitazione e ricorrendo a valide forme alternative o integrative dell’ospedalizzazione come l’assistenza domiciliare, le residenze sanitarie, la costituzione di reparti di lunga degenza e di riabilitazione degli ammalati cronici non autosufficienti. La territorializzazione dei servizi è certamente la strada da intraprendere per assicurare ai cittadini un’assistenza più attenta e sensibile alle loro esigenze, in grado di fornire risposte integrate che attingano dallo straordinario patrimonio degli enti locali e del terzo settore.

L’assistenza agli anziani, in particolare quelli non autosufficienti, merita un’attenzione particolare nell’ambito dell’organizzazione dei servizi sul territorio. È un tema che reclama da tempo l’integrazione dei servizi sociosanitari con una rete di supporto organizzata in grado di sostenere le famiglie che oggi si sentono abbandonate, impoverite, spesso inadeguate. La creazione di un fondo speciale è la prima misura da adottare per rispondere a uno dei principali cambiamenti in atto nella società italiana. Con l’invecchiamento della popolazione aumentano le possibilità che molte persone vivano con malattie croniche per molti anni in condizioni di non autosufficienza. L’obiettivo è invece quello di vivere più a lungo nelle migliori condizioni di vita possibile, per questo è necessario mettere in campo delle politiche che mirino a prevenire, rallentare e limitare le condizioni di non autosufficienza, pianificando il relativo finanziamento degli interventi. L’Osservatorio della Terza età (Ageing Society) segnala ogni anno 18 milioni di ricoveri cosiddetti impropri, che potrebbero essere evitati fornendo agli anziani un’assistenza non ospedaliera e facendo risparmiare allo Stato fino a 5,7 miliardi di euro, utilizzabili per riequilibrare il deficit del settore.8 L’aspetto economico passa decisamente in secondo piano di fronte ai dati inquietanti raccolti a livello internazionale, a proposito della depressione nell’anziano e delle gravi carenze della rete dei servizi socio-assistenziali. Un esempio per tutti: nel 2005 in Olanda sono state valutate 400 richieste di eutanasia. Tra queste, il 30% era motivato da fatica di vivere espressa per lo più da ultra-ottantenni che, in 8 casi su 10, non soffrivano di una patologia grave ma lamentavano situazioni di abbandono.9 Lo studio conferma dunque un disagio profondo della popolazione anziana, anche in assenza di malattie croniche, e la necessità di considerare quello della terza età come un tema a sé stante nell’ambito delle politiche sanitarie e di welfare.

Si conferma anche la necessità di interventi straordinari per la sanità nel Mezzogiorno. La riforma federalista, nata dalla volontà di riorganizzare il rapporto tra centro e periferie, ha avuto come conseguenza negativa l’aumento delle disparità tra il Nord e il Sud del paese. Pur sostenendo il valore della gestione decentrata della sanità, la difesa del principio dell’equità e dell’uguaglianza di accesso alle cure deve essere ricondotta al centro della politica sanitaria italiana. Nel 2004 un milione di persone si sono spostate dalle regioni meridionali verso il Nord per sottoporsi a visite specialistiche o interventi chirurgici, anche banali: un vero e proprio esodo. La valutazione di un sistema sanitario non può prescindere dai suoi risultati in termini clinici e di tutela della salute. Per questo i dati sulla mortalità sono una fonte di informazione utile per valutare il sistema. Ad esempio: considerando, a livello regionale, l’età media in cui muoiono le donne per tumore al seno, una patologia per cui in tutta Italia dovrebbe essere attivo un programma di screening obbligatorio, emergono tutt’oggi discrepanze allarmanti. In Valle d’Aosta si sopravvive in media fino ai 77 anni, mentre in Basilicata non si raggiungono i 65. Ciò dimostra una grave inefficienza nell’attuare le politiche di prevenzione ma non solo; ci sono anche ritardi strutturali che rendono urgenti interventi mirati a risollevare la sanità nelle regioni meridionali, con finanziamenti specifici e programmi seri di riqualificazione dei centri e del personale. Un tentativo recente, il Disegno di legge presentato dal presidente dei Democratici di Sinistra Massimo D’Alema e dall’onorevole Livia Turco, prevedeva aiuti aggiuntivi per la sanità nel Mezzogiorno, sia attraverso risorse dirette, sia vincolando il 40% di alcuni fondi INAIL attualmente inutilizzati, quindi già disponibili per investimenti in strutture, apparecchiature e formazione al Sud. Il Disegno di legge è stato ignorato dalla maggioranza di governo della passata legislatura e il Sud continua a soffrire a causa di gravi ritardi strutturali e tecnologici. Resta ferma la volontà del centrosinistra di destinare risorse ad hoc, vincolate alla promozione e al sostegno di progetti regionali, la cui valutazione verrà mantenuta a livello centrale.

Quando si parla di ricerca l’Italia compare in fondo alle classifiche: per capacità di innovazione tecnologica è al sedicesimo posto fra i diciannove paesi industrializzati, è una delle nazioni che investe meno nel settore e il suo rapporto fra ricercatori e popolazione (3 ogni mille abitanti) è uno dei più bassi in Europa. Gli investimenti ammontano ad un misero 1,17% del PIL a fronte del 4,27% della Svezia, il 2,50% della Germania, il 2,19% della Francia. Paradossalmente però i professionisti italiani abbondano all’interno di strutture estere, dove trovano spazi, risorse, disponibilità, maggiore autonomia e sicurezza: condizioni necessarie per lavorare e produrre. È fin troppo banale ricordare che investire nella ricerca è una strategia irrinunciabile per qualsiasi società moderna e una scommessa sicura. Servono azioni forti e concrete che permettano ai ricercatori italiani di crescere e sviluppare i propri progetti all’interno di strutture nazionali. Con i giusti interventi, abbandonando la cieca politica dei tagli e dei risparmi e sostenendo i talenti italiani, attraverso trasparenti criteri meritocratici possiamo attivare un processo virtuoso di crescita del paese e di sviluppo dell’innovazione. Per questo, per fare parte dei paesi che svolgono un ruolo di primo piano nel panorama internazionale, è necessaria una ferma volontà politica, una pianificazione di largo respiro e una profonda opera di concertazione che armonizzi le istanze di università, istituzioni, industria, sponsor, anche privati e società civile.

Governare la sanità di un paese non significa solo occuparsi dell’amministrazione ma anche pensare alle problematiche più delicate che riguardano i cittadini e i pazienti. L’Italia è in grave ritardo sul versante della regolamentazione sulla fine della vita e sull’interruzione delle terapie per i malati terminali. Alla fine del 2003 il Comitato nazionale di bioetica (CNB) aveva definito le linee guida per un disegno di legge sul cosiddetto testamento biologico, un atto formale scritto che soddisfa l’esigenza di espandere il principio di autodeterminazione del cittadino nei confronti dei trattamenti sanitari in situazioni in cui non sia più in grado di esprimere il proprio consenso o dissenso informato: una dichiarazione che sollevi familiari e operatori sanitari dalla responsabilità di scelte angoscianti e difficili. Niente a che vedere con l’eutanasia, piuttosto con il rifiuto dell’accanimento terapeutico. La proposta del CNB è rimasta un’indicazione inascoltata, un disegno di legge presentato in Commissione sanità al Senato è rimasto chiuso in un cassetto e, di fatto, oggi il testamento biologico (o direttive anticipate di volontà) è uno strumento non utilizzabile e poco conosciuto dalla popolazione del nostro paese. La sua introduzione, accompagnata da una corretta opera di informazione dei cittadini e di formazione degli operatori sanitari, costituirebbe un importante passo avanti verso l’umanizzazione della medicina in situazioni di assistenza terminale; un atto di grande civiltà e di enorme impatto che richiede investimenti economici irrisori.

Infine, la tecnologia informatica applicata alla sanità pubblica, un ambito nel quale una politica di investimenti mirati assicurerebbe ricadute importantissime in termini di costi, efficacia ed efficienza. Penso all’introduzione e alla diffusione omogenea sul territorio di certi semplici strumenti di ICT (Information and Communication Technology), supporti tecnologici di facile utilizzo, di provato successo nell’organizzazione del lavoro sanitario e dell’assistenza al paziente, testati da tempo soprattutto all’estero ma fino ad ora adottati solo da pochi istituti italiani. Se ne è discusso al convegno organizzato alla fine del 2005 a Roma da Adnkronos Salute e CICOM (Consorzio per l’Interoperabilità e la Cooperazione Medica), concludendo che la condivisione dei dati clinici dei pazienti per medici, infermieri, ospedali, aziende sanitarie locali in base a standard univoci e riconosciuti internazionalmente costituirebbe una rivoluzione di metodo, ma anche un risparmio finanziario molto consistente sul lungo periodo, se applicato con capillarità.10 Si parla infatti di 2-3 miliardi di euro come di un possibile risparmio realisticamente ottenibile grazie all’informatizzazione di almeno il 40-50% degli ospedali italiani, un processo che è in drammatico ritardo rispetto alla maggior parte dei paesi industrializzati e che costerebbe inizialmente un miliardo di euro. Tale sarebbe la cifra necessaria per far partire il sistema e mettere i dati in rete entro un anno, anche se si tratta di un progetto che necessita di un lungo rodaggio (circa cinque anni per rendere il sistema una realtà). Ad oggi, in base ai dati distribuiti da Adnkronos e CICOM, risulta informatizzato solo il 5% degli ospedali nazionali ma nella maggior parte dei casi si tratta di una messa in rete parziale, con sistemi informativi non condivisi fra i diversi reparti (ad esempio ufficio ricoveri e dimissioni, laboratorio analisi, radiologia, farmacia, ecc.). Solo pochissime strutture poi hanno un sistema completo, dotato per esempio anche di strumenti come la cartella clinica elettronica o la possibilità di consulti via telemedicina.

Il governo della passata legislatura che aveva fatto dell’informatizzazione anche sanitaria uno dei pilastri del suo programma non ha mantenuto le promesse. Il ministero per l’innovazione e la tecnologia ha sostenuto che lo stato di informatizzazione dei servizi sanitari locali in Italia è in media con il resto d’Europa, con l’80% degli studi medici dotati di un PC messo in rete e il 25% in grado di trasferire i dati dei pazienti per via elettronica. In realtà, il dato che conta è la carenza di integrazione fra organizzazioni che ad oggi è ferma al 2%. Come stupirsi di ciò, quando l’Italia compare in fondo alla classifica europea per investimenti in informatica sanitaria con il suo 0,5% delle risorse destinate a questo settore (la media europea è di quattro volte superiore). A poco servono operazioni isolate che rischiano di sprecare fondi, di acuire il divario fra eccellenza e arretratezza e ostacolare l’essenziale comunicazione fra operatori. Appare largamente insufficiente agevolare la diffusione della tecnologia informatica a livello individuale, ossia al di fuori di una più generale politica di investimenti integrati. Non è certamente un compito facile giungere in tempi brevi a un’informatizzazione omogenea e collegata in rete sul territorio nazionale. Occorre calcolare investimenti mirati non solo all’acquisto e all’installazione della rete informatica, ma anche alla formazione del personale, alla manutenzione e ai tempi e ai rischi legati alla sempre delicata transizione fra un tipo di gestione e l’altra. D’altro canto, è certamente possibile procedere per gradi, iniziando da operazioni prioritarie e di provato, positivo rapporto costo-beneficio. Penso a uno strumento di utilizzo quotidiano e di vitale rilevanza per la sicura gestione giornaliera dell’ammalato: il sistema di prescrizione computerizzata (CPOE, Computerized Physician Order Entry). Si tratta di un tipo di programma che permette al medico e all’infermiere di inserire istruzioni per la terapia del paziente in maniera sicura, tramite password, via computer, avendo a disposizione in tempo reale i dati dell’ammalato al momento del ricovero: gli esami di laboratorio, i referti della radiologia, parametri indispensabili per valutare la situazione e prendere decisioni anche a distanza, con esattezza e tempestività. E per procedere opportunamente senza dover ricorrere ad appunti confusi, spesso illeggibili, annotati su carta, e quindi disponibili solo al letto del paziente. Questo strumento, sul mercato in molteplici varianti, è in grado di interfacciarsi con i vari sistemi informativi potenzialmente già utilizzati in altri reparti della stessa struttura che decide di introdurre questo nuovo software. Anche se in maniera non omogenea, come osservato sopra, i servizi di ricovero, radiologia, farmacia e il laboratorio analisi dei nostri ospedali sono talvolta già dotati di supporto informatico, ma difficilmente esso risulta condiviso attraverso la rete.

Nonostante l’incredibile ausilio della tecnologia informatica, resta il bisogno di arricchire l’assistenza al paziente con risorse umane mirate. Una di queste, ancora poco nota e tanto meno diffusa nel nostro paese, è quella del farmacologo clinico, un farmacista con una formazione specifica per affiancare i medici nelle attività di reparto. Ad essere protetto, anche in questo caso, è non solo il benessere del paziente ma il budget dell’azienda ospedaliera. È dimostrato infatti che la presenza di una simile figura professionale contribuisce ad assicurare un miglior servizio a costi inferiori, grazie alla razionalizzazione dell’uso dei medicinali, alla riduzione della durata delle degenze e al drastico calo del numero di reazioni da effetti collaterali da farmaci. Gli studi hanno dimostrato una diminuzione del 78% degli incidenti dovuti a un errato utilizzo dei farmaci nei reparti dove il farmacologo clinico partecipa al giro visite. Il risparmio sui farmaci è stato calcolato fino al 41%, grazie a cambiamenti di dosaggio, utilizzo di prodotti generici, appropriatezza nella frequenza di somministrazione, corretta prescrizione dei medicinali dopo il ricovero. Infine, il miglioramento della terapia farmacologica ha dato come risultato anche una diminuzione del periodo di degenza. Concludendo, si riducono le spese, si creano opportunità lavorative e si protegge la salute dell’ammalato. Le due operazioni – l’informatizzazione delle prescrizioni e l’introduzione della figura del farmacologo clinico – non sono alternative ma complementari, sia per la salvaguardia della salute del paziente che per la virtuosa amministrazione del budget di spesa.11

Le proposte elencate sopra e gli esempi concreti descritti per l’introduzione di tecnologia informatica e di nuove figure professionali testimoniano l’urgenza di adottare un diverso approccio di politica sanitaria: abbandonare l’ossessione di tagliare le voci di costo e investire invece con coraggio. Il che non significa arrestare la lotta agli sprechi e all’inefficienza, ma nemmeno limitarsi al risparmio fine a se stesso, ignorando il ritorno sul lungo periodo di investimenti guidati da criterio e seria pianificazione. Il sottofinanziamento del sistema sanitario nazionale non può e non deve restare un dato di fatto imposto ai cittadini per i quali la sottostima dei livelli generali di assistenza e l’aumento della pressione fiscale regionale diventano un circolo vizioso pericolosissimo. In generale, occorre recuperare e incentivare una vera «politica sanitaria», alternativa alla «politica finanziaria della sanità» inaugurata dal centrodestra durante l’ultima legislatura.12

È indispensabile destinare più risorse al sistema sanitario, con la volontà di investire in misure che abbiano un reale impatto sul lungo periodo sulla nostra salute. Più in generale, serve che il progetto tratteggiato dall’Unione nel programma di governo 2006-2011, ossia quello di concepire la sanità come un investimento e non come voce di spesa da sottoporre a tagli e ridimensionamenti, venga promosso e mantenuto con vigore e spirito di responsabilità, per il bene dei cittadini e per la crescita sociale ed economica del paese.13

 

 

Note

1 Dati OCSE 2005.

2 MEDTAP International, The Value of Investment in Health Care: Better Care, Better Lives, MEDTAP, Bethesda 2003.

3 M. Mandel, Why Some Medical Spending Should Count as Investment, in «Business Week», 15 dicembre 2005.

4 Cfr. www.hospitalmanagement.net .

5 C. Fassari, La svolta di Confindustria, in «Il Bisturi», 16/2005.

6 A. Bombassei, La salute è un diritto e un buon investimento, in «Il Sole 24 Ore», 30 novembre 2005.

7 I.R. Marino (a cura di), I cittadini al centro della sanità, in «Italianieuropei» 4/2005, pp. 99-113.

8 I.R. Marino, Emergenza terza età, le armi spuntate degli States, in «Il Sole 24 Ore Sanità», 14-20 febbraio 2006, pp. 18-19.

9 A. Codignola, Pro e contro la dolce morte, cfr. www.aiote.org.

10 S. Simoni, Risparmiare fino a 3 miliardi attraverso la rete, in «Il Bisturi», 16/ 2005.

11 H. Dormann, Readmissions and Adverse Drug Reactions in Internal Medicine: The Economic Impact, in «J Intern Med», giugno 2004, pp. 653-63; P. Bedouch et al., Diffusion of Pharmacist Interventions Within the Framework of Clinical Pharmacy Activity in the Clinical Ward, in «Therapie», settembre-ottobre 2005, pp. 515-22.

12 Per il bene dell’Italia. Programma di Governo 2006-2011, cfr. https://www.unioneweb.it/wp-content/uploads/documents/programma_def_unione.pdf

13 Si ringraziano la Dott.ssa Claudia Cirillo per il prezioso aiuto ricevuto nelle fasi di ricerca e stesura del testo e la Dott.ssa Alessandra Cattoi per i suggerimenti e la revisione editoriale dell'articolo.