Dall’omicidio di Giovanna Reggiani, avvenuto il 30 ottobre nella zona di Tor di Quinto a Roma, sono passati soltanto alcuni giorni. La crisi politica scatenata in seno alla maggioranza dal varo del decreto legge 181/20071 da parte del consiglio dei ministri straordinario del 31 ottobre sembra destinata a rientrare. La tensione nei rapporti con la Romania2 è anch’essa in calo, dopo la «missione di pace» del ministro Bersani a Bucarest, avvenuta il 6 novembre, e la visita di ricucitura del premier romeno Tariceanu a Roma, il giorno successivo. Anche la temuta ondata di aggressioni razziste contro cittadini romeni e Rom, dopo i fatti gravissimi di Tor Bella Monaca (2 novembre) e di Monterotondo (5 novembre), non si è per ora materializzata. Nel frattempo, il piano di espulsioni è stato avviato, in forma assai più selettiva e circoscritta di quanto chiedessero una larga fetta di opinione pubblica e l’opposizione.
Durante oltre tre decenni, il dibattito sull’immigrazione in Italia è stato caratterizzato dall’alternarsi di fasi concitate e parossistiche, durante le quali l’emergenza sembrava travolgere tutto, alternate a periodi più calmi durante i quali veniva svolta un’attività pedagogica sugli effetti complessivamente positivi del fenomeno. Il timore dell’invasione legato a sbarchi o ad altri flussi irregolari, il timore della criminalità o dello snaturamento culturale si affacciano prepotentemente in vari periodi, in presenza di patologie spesso effettivamente presenti, ma che non danno conto del fenomeno migratorio nel suo insieme.
Può essere utile giudicare e comprendere l’Islam italiano ponendolo nel contesto più ampio dell’Islam europeo. L’Islam in Europa, infatti, si sta organizzando in una rete trasversale che mira in prospettiva a una internazionalizzazione europea dell’Islam con la federazione delle organizzazioni dei singoli paesi. Questa prospettiva di fondo implica, in primo luogo, che i musulmani che vivono in Italia abbiano tutto il diritto di essere considerati «musulmani europei», sia che si tratti di italiani convertiti all’Islam sia che si tratti di musulmani doc emigrati in Italia. L’essere musulmani europei provoca però una serie di difficoltà.
La politica universitaria italiana mostra ormai chiaramente il suo limite essenziale: la strutturale mancanza di attori responsabili e capaci di agire nell’interesse pubblico. Si pensi, ad esempio, al proliferare irrazionale dei corsi di studio post riforma degli ordinamenti didattici; all’attuazione della stessa riforma, che è stata applicata in modo totalmente autoreferenziale (spesso il contenuto dei corsi di studio altro non è che un rifacimento del vecchio ordinamento sotto altre spoglie); al modo attraverso il quale le università spendono i propri soldi (certo, i finanziamenti sono limitati, ma a fortori dovrebbero essere spesi razionalmente). Pensiamo, poi, ad un centro del sistema che – con il suo aggrovigliato intrecciarsi di relazioni tra ministro, ministero, Consiglio universitario nazionale, Conferenza dei rettori e Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario – non riesce a produrre linee strategiche coerenti e convincenti.
Le diverse voci che intervengono nel dibattito incessabile sul sistema universitario italiano sono concordi su una premessa: l’università, così com’è, non funziona. Ma a chi scrive è capitato più volte di ascoltare una sentenza ben più drastica, formulata da parte di dirigenti politici, sindacalisti o persone legate al mondo imprenditoriale: l’università italiana – si dice – così com’è non serve a niente. Non stupisce quindi che, da tale punto di vista, ogni intervento, ogni risorsa, ogni riforma vengano mentalmente rubricati tra le voci degli sprechi di denaro e di energie. Una conclusione così ultimativa è il frutto – crediamo – di una presupposizione non dimostrata, che porta ad assumere comportamenti sbagliati e dannosi. La presupposizione incriminata è quella per cui un sistema universitario è utile, serve al paese, se le sue energie sono spendibili strumentalmente.
Le elezioni presidenziali del 2008 presentano molteplici peculiarità. Sono le prime, dal 1952, in cui non si presentano un presidente o un vicepresidente in carica. Avvengono in un momento di profonda sfiducia dell’opinione pubblica verso la politica e le istituzioni, che prende di mira tanto la presidenza quanto il Congresso. Permettono finalmente di testare le profonde trasformazioni demografiche dell’ultimo decennio, i cui riverberi elettorali sono stati in qualche misura contenuti e congelati dall’11 settembre e da quel che ne è seguito. Quasi sicuramente, infine, romperanno la consuetudine che dal 1960 a oggi vuole che il presidente eletto non sia un membro del Congresso e provenga dalla regione della Sunbelt, la cintura di Stati meridionali che va dalla California alla costa sudoccidentale.
La politica americana tende a procedere per cicli. Un solo partito, con la propria filosofia politica, prevaleper vari decenni per poi essere soppiantato dall’altro. Il partito di governo non necessariamente controlla tutte le cariche principali: durante il ciclo di prevalenza democratica, che è durato dal 1932 al 1968, c’è stato un presidente repubblicano, Dwight Eisenhower, dal 1952 al 1960, ma i democratici avevano la maggioranza al Congresso e in gran parte degli organi legislativi dei vari Stati. Erano loro che definivano l’agenda politica del paese.
La politica estera sta avendo un ruolo centrale nelle elezioni primarie americane. E lo avrà sicuramente anche nelle presidenziali del prossimo autunno. I dati indicano che molti americani guarderanno soprattutto ai programmi di politica estera quando dovranno scegliere il prossimo presidente. Il loro voto potrebbe peraltro rivelarsi decisivo, perché si tratta in gran parte di elettori incerti, quelli che non di rado fanno la differenza.
È ricorrente la considerazione che individua in una moderna politica delle infrastrutture l’occasione più efficace per affrontare il tema della modernizzazione del nostro paese in una politica di inserimento organico nella realtà europea. Si può affermare che, grazie alle questioni poste dall’Europa, il nostro paese ha dovuto affrontare più sistematicamente che nel passato il tema delle infrastrutture, facendolo uscire dalle condizioni di settorialità e di dipendenza che pure lo avevano caratterizzato attraverso scelte di politica economica anch’esse settoriali e parziali.
Per parlare della rete portuale italiana è necessario partire dal concetto di porto, bene pubblico o, più precisamente, bene demaniale. Infatti, per molto tempo nell’ordinamento nazionale è mancata una definizione del concetto di porto. Questi era compreso, senza ulteriori specificazioni, nell’elenco di beni demaniali di cui all’articolo 822 del Codice Civile e in quello dei beni del demanio marittimo di cui all’articolo 28, lettera a) del Codice della Navigazione, unitamente ad altri beni «naturali» (ad esempio il lido, la spiaggia, le rade, le lagune) e artificiali (i canali utilizzabili ad uso pubblico marittimo).
Quella tra il territorio milanese e le infrastrutture è sicuramente una relazione molto complessa: Milano è una città in cui la crescita non si è concentrata sullo sviluppo di un unico mercato di riferimento; al contrario, il capoluogo lombardo può vantare un tessuto economico diversificato e caratterizzato dalla presenza di imprese in grado di rappresentare l’eccellenza in molti, differenti, settori.
Nell’annunciare la allora prossima uscita della traduzione italiana del libro di John J. Mearsheimer e Stephen M. Walt, il «Corriere della sera» del 2 settembre scorso pubblicava un trafiletto a firma p. bat. (Pierluigi Battista?) pesantemente polemico nei confronti della casa editrice che ha tradotto in italiano «The Israel Lobby and U.S. Foreign Policy», un libro derivato da un precedente studio che negli Stati Uniti aveva sollevato accese discussioni. L’argomento principale utilizzato per bollare come antisemita un lavoro scientifico serio ed equilibrato è quello, assai diffuso, della piena identificazione tra ebraismo e sionismo, spinta, però, a livelli polemici inaccettabili.
Cosa è restato della strategia dell’Occidente dopo la vittoria nella guerra fredda e la disavventura americana in Iraq che tanto condiziona anche il dibattito sulla politica estera tra i candidati alla successione di Bush? Esiste oggi un’agenda dell’Occidente per governare la globalità? Dalla fine della guerra fredda all’Iraq questa agenda era stata dominata da una priorità fondamentale: il tentativo di allargamento della comunità e del modello di sviluppo politico ed economico occidentali.
Se Stalin è stato il principale artefice della «costituzione materiale»1 del comunismo sovietico dalla metà degli anni Venti alla metà degli anni Cinquanta del secolo passato, Togliatti ha avuto lo stesso ruolo nella vicenda del comunismo italiano almeno fino al 1968. Il rapporto che si stabilì fra loro è dunque essenziale per comprendere appieno tanto la storia del PCI, quanto la personalità di colui che ne è stato l’autore principale.
Quando Garibaldi era ancora in vita il suo mito si era già esteso dall’Europa alle Americhe collocandolo, in maniera forse sorprendente per molti italiani e francesi dell’epoca, accanto a quello dei massimi eroi dell’indipendenza e della libertas americana: George Washington e Simon Bolivar. Molti fattori favorirono la progressiva elaborazione delle diverse forme, ideologiche e politiche, del mito garibaldino e dei suoi usi nella specificità storica del continente americano.