L’allarme scozzese

Di Michael McTernan Martedì 23 Settembre 2014 14:50 Stampa
L’allarme scozzese Foto: duncan c

I cittadini scozzesi hanno preferito il Regno Unito alle incognite dell’indipendenza, ma il referendum ha fatto suonare un importante campanello di allarme che non deve essere sottovalutato: in Scozia, come in altre parti dell’Europa, quello che sta emergendo non è il solito vecchio nazionalismo e la sinistra deve giocare d’anticipo per farvi fronte.


La battaglia referendaria scozzese ha rappresentato un profondo e inaspettato “arresto cardiaco” per la politica britannica tradizionale e per il modello politico di Westminster. I principali partiti del Regno Unito si sono bruscamente risvegliati dalle loro posizioni di comodo grazie ai sondaggi, che, a poche settimane dal voto, davano in vantaggio la campagna per il sì all’indipendenza della Scozia, e hanno avviato un’operazione disperata per salvare l’unione. Alla fine sono riusciti a correre ai ripari grazie alla promessa della concessione di significative autonomie e all’entusiasmante e appassionato discorso dell’ex primo ministro Gordon Brown, che è riemerso dal proprio esilio all’ultimo momento come un predicatore della Bibbia di un’era passata, perorando la causa coinvolgente e egalitaria per il mantenimento dell’unità.

Adesso che la questione del referendum è sistemata, sono quattro i punti che il Partito laburista britannico e i partiti socialdemocratici europei devono affrontare.


Non è il vecchio nazionalismo

La campagna guidata da Alex Salmond e dal Partito Nazionalista Scozzese (SNP) non può essere considerata come un’ulteriore testimonianza del risorgere del vecchio cattivo nazionalismo europeo. Certamente si è trattato di una campagna combattuta su diversi fronti, il cui motore più efficace è stato una forma, popolare e di sinistra, di politica rappresentativa che inveisce contro i tagli di elementi del welfare state britannico operati dal governo di David Cameron. Le vecchie rivendicazioni dell’SNP per la concessione di maggiori poteri da Westminster e una forma leggera di nazionalismo si sono fusi con lo spirito dei tempi: caratterizzato dalla frustrazione per standard di vita sempre più bassi e dalla rabbia nei confronti delle élite politiche e del business as usual dopo la grande crisi. Si tratta di temi che hanno un notevole appeal generazionale. Salmond si è anche inserito in dibattiti accesi appartenenti alla sinistra, quali quello relativo al deterrente nucleare sul fiume Clyde e le riforme conservatrici del Sistema sanitario nazionale (NHS). Si è trattato di una strategia politica molto intelligente del leader dell’SNP, che adesso si è messo da parte per far spazio alla sua – molto abile e molto orientata a sinistra – vice, Nicola Strugeon.

La realtà è che la Scozia ha inviato un segnale di allarme molto forte del bisogno di un nuovo accordo, tanto politico quanto economico, nel Regno Unito. Se le promesse fatte per “aggiustare” l’unione e rendere la Gran Bretagna un paese più giusto non saranno mantenute, negli anni a venire non ci si potrà che aspettare una grave frammentazione politica.


Una schiacciante dichiarazione di fiducia nella politica

Il 45% degli elettori ha votato contro l’ordine costituito mentre la maggior parte delle élite politiche, economiche e d’affari del paese denunciavano le conseguenze della separazione nei termini più nefasti: che la Scozia sia quasi arrivata a ignorare i più seri avvertimenti la dice lunga sulla profondità del malessere politico nel Regno Unito. Westminster sarà ora obbligata a cambiare, sviluppando un’agenda di riforme in senso autonomista che definiranno la politica britannica per i prossimi anni: i poteri verranno trasferiti a Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord, e, al di sotto di queste, alle città, alle regioni e alle comunità locali. Il supercentralizzato Stato britannico ha fatto il suo tempo. Il Partito laburista può guadagnare terreno promuovendo un programma radicale che miri a dare più potere agli individui e alle comunità al fine di rinnovare la democrazia. Come ha detto recentemente Jon Cruddas, policy chief di Ed Miliband, «Vedrete la più significativa devolution in cento anni di denaro e potere. Questo sarà un decennio di decentralizzazioni».

Ed Miliband e il Labour, giustamente, alzano la voce sul “potere della gente” e sulla decentralizzazione in favore di famiglie, comunità e realtà locali. La Gran Bretagna sarà senza dubbio una democrazia rappresentativa migliore se il potere sarà trasferito da Westminster alle comunità di interessi – affari, università, governi locali, società civile – che prenderanno le redini per migliorare e dare forma alle loro città o regioni. Ma un chiarimento è necessario: il trasferimento di poteri non è una panacea per tutti i mali economici, politici e sociali della Gran Bretagna: le soluzioni locali, in un mondo globalizzato, sono solo parte di una soluzione.


I limiti del “socialismo in un paese”

Aver visto le maggiori istituzioni finanziarie, del mondo degli affari e delle banche allineate le une accanto alle altre per avvertire delle catastrofiche conseguenze qualora la Scozia si fosse incamminata da sola sotto la bandiera della creazione di una moderna democrazia sociale – più simile a quella dei vicini nordici che dei partner anglosassoni – è servito a evidenziare i limiti del “socialismo in un paese” in un sistema economico globale. Gli Stati hanno bisogno di agire insieme per aiutare a costruire un capitalismo più inclusivo con standard che assicurino “buoni lavori” e “buona crescita”. La Scozia, alla fine, ha deciso di rimanere fedele al Regno Unito.

Il Partito Nazionalista Scozzese voleva indicare nell’UE l’unione migliore di cui la Scozia potesse far parte, l’eurocrisi ha però ridotto la portata di questo strumento; e in particolare la questione della moneta ha, nel corso della campagna, vincolato i fautori del sì.

Il Labour ha adesso l’opportunità di provare che la migliore via verso una società più giusta sia restare a far parte del Regno Unito. Ma questa promessa rischia di rimanere disattesa senza alleanze europee e internazionali volte a far funzionare un capitalismo globale in un’era più competitiva, in cui il disordine tecnologico può causare maggiori diseguaglianze senza una politica progressista che guardi all’esterno. Il Labour deve giocare d’anticipo per costruire alleanze all’interno dell’UE con leader come il nuovo primo ministro svedese Stefan Löfven, il cui nome si è aggiunto di recente a un gruppo sempre più grande di leader socialdemocratici, che include l’italiano Matteo Renzi, il francese Manuel Valls, la danese Helle Thorning-Schmidt, il tedesco Sigmar Gabriel, l’olandese Diederik Samsom e l’irlandese Joan Burton. Questo gruppo deve porsi al centro di un nuovo patto per l’Europa. E deve concentrarsi sul TTIP (il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti) e sul raggiungimento di un accordo con un ampio gruppo di partner su entrambe le sponde dell’Atlantico che garantisca le premesse per una crescita futura, per la creazione di posti di lavoro e per una nuova competitività che tenga conto dei necessari standard sociali.

Questo significa anche perorare con forza la causa britannica in Europa – la mancanza di fede nella classe politica in Scozia dovrebbe servire da monito per quanti sono compiaciuti all’idea di un referendum che decida se la Gran Bretagna debba stare in Europa o debba uscirne.


La grande sfida per la sinistra: governo responsabile vs. governo rappresentativo

La sfida per i socialdemocratici che hanno a che fare con le difficoltà del governare rimanda alla mente quanto affermato dallo scienziato politico Peter Mair nel suo libro “Ruling the Void”: ovvero quanto sia arduo trovare un compromesso tra il fare grandi promesse che rispondano alle richieste dei cittadini e la dura realtà delle responsabilità di governo.

Come Matteo Renzi in Italia, il Partito laburista nel Regno Unito deve trovare un modo per non prendere impegni eccessivi di fronte al crescente populismo. Non si tratta di un compito facile: trovare un modo per essere popolare e fare promesse in un ambiente difficile con molti vincoli interni ed esterni.

Rafforzare la democrazia locale (e delle istituzioni economiche e politiche locali) e trasferire poteri e responsabilità costituiscono degli utili strumenti per coinvolgere i cittadini nella costruzione del proprio futuro e per allentare la pressione sui politici nazionali. Ciò che è chiaro è che nel XXI secolo la natura del potere è cambiata in modo sostanziale: è diffusa ed è su più livelli. Richiede una collaborazione aperta tra cittadini, società civile e Stato, tra settore pubblico e privato, tra istituzioni dedite all’insegnamento e datori di lavoro, tra Stati nazione che agiscano nella cornice di una partnership globale.

La Scozia ha lanciato un allarme alla classe dirigente. Non ci sarà una seconda occasione per prestargli ascolto.

 

 


Foto: duncan c

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