Second World Congress on Marxism. Keynote speech

Di Massimo D’Alema Martedì 08 Maggio 2018 15:17 Stampa
Second World Congress on Marxism. Keynote speech Foto: fhwrdh

Intervento di Massimo D’Alema al “Second World Congress on Marxism”, 5-6 maggio 2018, Peking University, Beijing.


Nel 1992, nel clima culturale che si era determinato nel mondo occidentale dopo la caduta del Muro di Berlino e il crollo dell’Unione Sovietica e del sistema dei paesi socialisti dell’Est europeo, Francis Fukuyama pubblicò un libro: “La fine della storia” che sembrò aprire un’epoca nuova e indicare una tendenza non reversibile.

In esso si teorizzava che, con la fine del comunismo, il mondo si sarebbe unificato sotto l’egemonia del capitalismo e della democrazia liberale. Il dominio del mercato avrebbe non solo posto fine al conflitto sociale – a quel conflitto tra servo e padrone teorizzato da Marx come il motore della storia -, ma avrebbe creato le condizioni del migliore dei mondi possibili. L’economia di mercato e il capitalismo avrebbero corrisposto ai bisogni fondamentali e garantito una allocazione razionale delle risorse; mentre lo sviluppo economico e tecnologico avrebbero progressivamente omologato le differenti culture e i particolarismi nazionali unificando il mondo sulla base del modello culturale del capitalismo occidentale.

Questi sono stati i capisaldi dell’egemonia liberista che aveva le sue origini, già negli anni ’80, nella cosiddetta rivoluzione neoconservatrice rappresentata da Ronald Reagan e Margaret Thatcher.

La globalizzazione economica si è sviluppata impetuosamente sotto il segno di questa visione sostanzialmente acritica e apologetica del capitalismo. Bisogna riconoscere che anche la sinistra ha subito l’influenza di questa cultura e che essa si è manifestata in modo particolare nella elaborazione della cosiddetta Terza via.

In realtà il mondo di oggi si presenta assai diverso da come era stato immaginato dai profeti del neoliberismo. La grande crisi finanziaria ed economia del 2007 e 2008 ha messo a nudo le debolezze e le contraddizioni di una globalizzazione senza regole. Il mondo non si presenta né pacificato né omologato; al contrario proprio il timore della progressiva cancellazione delle diverse identità nazionali, etniche e religiose ha scatenato drammatici conflitti e ridato vigore a nazionalismi che sembravano appartenere ad un passato ormai remoto. Sul piano economico e commerciale accade che, paradossalmente, proprio i paesi più sviluppati a cominciare dagli Stati Uniti d’America reagiscano alla competizione globale attraverso chiusure nazionalistiche e ripiegamenti di tipo protezionista. Come se l’Occidente avesse apprezzato la globalizzazione sino a quando questa ha consentito di decentrare la produzione nei paesi a più basso costo del lavoro e di diffondere i prodotti delle industrie occidentali in ogni parte del mondo, senza rendersi conto che la globalizzazione avrebbe portato ad innalzare la capacità competitiva delle economie emergenti e avrebbe esposto anche l’Occidente al rischio della concorrenza.

Il problema è che appare evidente che lo sviluppo di un capitalismo senza regole e dominato esclusivamente dalla logica del profitto e dai meccanismi di mercato genera contraddizioni insostenibili, produce instabilità e rischi di guerra proprio come una cultura critica del capitalismo, che ha in Marx il suo più importante punto di riferimento, aveva da tempo messo in luce.

Come ha scritto il grande storico inglese Eric Hobsbawm «Il mercato non ha risposte alle principali sfide che il XXI secolo ha di fronte a sé»: una crescita economica illimitata e globale, sempre più hi-tech che produce ricchezza, ma comprime i diritti del lavoro e minaccia le risorse del pianeta.

All’origine della crisi del 2008 e delle difficoltà di oggi vi è esattamente quel processo di accumulazione e di concentrazione del capitale su scala mondiale che Marx aveva intuito già nel XIX secolo. Questo processo porta ad una crescente e insostenibile diseguaglianza sociale. Come ha scritto Jacques Attali «Tutto comincia con la liberalizzazione dell’economia e con la rinuncia ad ogni regola. Ciò provoca un aumento dei profitti e della loro incidenza nel reddito di singoli paesi. In particolare a crescere sono i profitti del settore finanziario: mentre nel 1960 questi rappresentavano il 14% dei profitti delle imprese americane, nel 2008 raggiungono il 39%. Gran parte della ricchezza creata in questi anni viene accaparrata da un ristretto gruppo di super ricchi mentre la sostanziale stagnazione dei salari determina un aumento vertiginoso delle diseguaglianze sociali». A livello globale una quota della popolazione leggermente inferiore all’1% dei cittadini del mondo detiene il 44% della ricchezza mondiale. Dall’altra parte vi è un 70% della popolazione che possiede il 3% della ricchezza. È evidente che questa crescita delle diseguaglianze è particolarmente concepita in quella parte del mondo – particolarmente l’Europa – dove in tutto il dopoguerra fino agli anni ’80 per l’effetto di politiche keynesiane e di impronta socialdemocratica si è assistito a una riduzione progressiva delle diseguaglianze e a un aumento della retribuzione reale del lavoro, sia nella forma di un aumento dei salari, sia nella forma di prestazioni sociali nel campo della sanità, dell’istruzione e dell’assistenza che hanno migliorato la qualità della vita dei lavoratori e dei cittadini. Parallelamente le economie occidentali hanno vissuto una crescita sostenuta sorretta da investimenti e innovazione che ha favorito un aumento degli standard di vita per molti e intensa mobilità sociale. Nell’epoca della globalizzazione e della deregulation neoliberista questo sistema entra in crisi. Si passa da un modello sociale basato sulla redistribuzione della ricchezza tra i diversi fattori della produzione (impresa, lavoro, innovazione) ad un modello dominato dalla speculazione finanziaria. Si spezza quindi il rapporto virtuoso tra crescita economica e redistribuzione dei redditi, anche ai fini di una crescita dei consumi. È proprio questo fatto che ha contribuito in modo significativo a creare le condizioni della grande crisi del 2007-2008. Il fatto cioè che il trasferimento di ricchezza dal lavoro alla speculazione finanziaria ha pesato sulla domanda mettendo i lavoratori americani ed europei nelle condizioni di non potere più consumare come prima. Per sostenere la domanda si è promossa una politica del credito a bassi tassi di interesse incoraggiando, in particolare negli Stati Uniti, un crescente indebitamento delle famiglie. Ed è proprio questo meccanismo che ha portato alla creazione di quella bolla finanziaria che a un certo punto è esplosa coinvolgendo non solo le banche ma anche l’economia reale. Sta qui l’origine di quella che in termini marxiani potremmo definire “una crisi da sovrapproduzione”, generata cioè da una caduta della domanda alla cui origine c’è l’insostenibile diseguaglianza prodotta dal capitalismo finanziario contemporaneo.

È noto che il tema della finanza, del credito e della circolazione del denaro non è centrale nell’opera di Marx. Tuttavia negli ultimi anni della sua vita egli fu interessato a comprendere il funzionamento della City, a Londra, e la sua attenzione si concentrò sui temi della finanza. Di ciò vi è ampia traccia nel terzo libro – rimasto incompiuto – del Capitale.

Marx riconosce il ruolo del credito, ma introduce la distinzione tra capitale finanziario e “capitale fittizio”. Quest’ultimo sarebbe rappresentato da quella particolare forma di capitale finanziario il cui valore è interamente derivato dalla capitalizzazione del reddito anticipato senza alcuna contropartita in attività produttive vere e proprie. Marx ci descrive così una società catturata dal “feticismo del denaro”; presa cioè dalla vertigine di volere accumulare soldi senza l’intermediazione della produzione materiale e del lavoro umano. Fino al punto di affermare che lo sviluppo del capitalismo finanziario può portare ad una condizione in cui «l’uomo cessa di essere schiavo dell’uomo per divenire schiavo della cosa-denaro».

Certo non si può pensare che, con due secoli di anticipo, Marx ci potesse descrivere il mondo della finanza speculativa, dei derivati e dei mutui subprime. Ma non si può negare che l’intuizione marxiana sia illuminante per interpretare la realtà della globalizzazione, della libera circolazione dei capitali e della deregulation finanziaria. Una realtà in cui una forma moderna di “capitale fittizio” si è estesa a dismisura.

Diversi economisti ritengono superata la distinzione di Marx in quanto essa poggerebbe sulla definizione del denaro esclusivamente come mezzo di pagamento e di scambio per ottenere beni e servizi reali. Si ritiene che, pure svolgendo il denaro la funzione di equivalente universale di scambio, esso rappresenti nello stesso tempo “una promessa di valore”. Tuttavia anche chi ritiene superata la definizione di Marx concorda sul giudizio che la finanza speculativa ha finito per volgersi contro lo sviluppo delle forze produttive e contro l’economia reale generando un conflitto crescente che va oltre quello tra imprenditore e operaio e contrappone la finanza globale a “gli individui realmente attivi nel processo della produzione dall’imprenditore al dirigente all’ultimo lavoratore giornaliero”.

Questo concetto è ripreso da Antonio Gramsci in una nota dei “Quaderni del carcere” dove si osserva che la ricerca di un guadagno elevato e garantito da parte degli investitori finanziari porta ad uno schiacciamento del lavoro e dei salari. Aggiungerei che la finanziarizzazione danneggia non solo i lavoratori ma più in generale l’attività produttiva. Pensiamo agli effetti della estrema mobilità dei capitali alla ricerca del massimo profitto che impone alla imprese la logica del guadagno a breve termine rendendo difficile programmare uno sviluppo di medio e lungo periodo. Non a caso la crescita della massa monetaria non genera una crescita degli investimenti, in particolare di quelli di portata strategica che sono, normalmente, a redditività differita.

La finanza diventa così non uno strumento al servizio dello sviluppo delle forze produttive, ma una “padrona dell’economia” che impone uno sviluppo precario e distorto. Da ciò deriva la necessità di una guida politica che sappia regolare e garantire una crescita ordinata.Lo stesso Gramsci in una illuminante riflessione – contenuta sempre nei “Quaderni” – mette l’accento sulla crescente contraddizione tra «il carattere cosmopolita dell’economia (oggi diremmo globale) e il carattere ristrettamente nazionale della politica». Gramsci colloca questa osservazione nel quadro della sua analisi delle trasformazioni del capitalismo – in particolare quello americano – dopo la grande crisi del 1929/30. Egli muove da una visione assai diversa da quella prevalente in quel tempo nella Internazionale comunista. La tesi ortodossa pretendeva che la crisi fosse l’annuncio del crollo del capitalismo. Gramsci osserva invece le trasformazioni che la crisi ha accelerato e in particolare l’affermarsi del modello di produzione fordista. Da questa analisi egli fa derivare le nuove sfide politiche e culturali che il movimento operaio e rivoluzionario deve affrontare.La riflessione di Gramsci ci porta quindi oltre ogni visione ideologica e deterministica del marxismo. Egli mette l’accento sulla politica, sulla lotta per l’egemonia e cioè per mettersi in grado di esercitare una funzione di direzione sul piano culturale e pratico. Egli sottolinea il ruolo dello Stato e in particolare guarda ambiziosamente alla necessità di dare all’azione politica una dimensione e una capacità di indirizzo che vada oltre i confini dello stato nazionale.

Quali sono oggi le sfide che una politica progressista deve affrontare se intende correggere le storture prodotte dal capitalismo finanziario globale e dalla logica di un mercato senza regole?

L’esigenza di imprimere una svolta “progressista” al corso dell’economia globale è più che mai urgente. Non possiamo pensare che il mondo, dopo la crisi di dieci anni fa, torni all’ottimismo degli anni ’90. Non è così: grandi masse umane guardano con timore alla globalizzazione; conquista consenso una reazione nazionalista e regressiva. È dunque concreto il rischio che dalla crisi della globalizzazione neoliberista si esca “a destra”, come mostra l’America di Donald Trump, aprendo una nuova era pericolosa carica di tensioni e di conflitti che potrebbe portarci ad una nuova Guerra fredda.

Compito delle forze progressiste è lavorare per una alternativa convincente. L’idea è quella di una globalizzazione regolata e non selvaggia in grado di promuovere uno sviluppo “armonioso” – per usare una espressione cara alla cultura cinese - , nel senso dell’armonia tra le persone e nel rapporto tra uomo e natura.

Voglio concentrare l’attenzione, in questa parte conclusiva del mio intervento, su tre aspetti che mi sembrano fondamentali. Anzitutto non può esservi armonia senza una riduzione delle diseguaglianze che sono cresciute in modo intollerabile. Per Marx lo stato moderno è caratterizzato dalla contraddizione insanabile tra uguaglianza giuridica (astratta, formale) e disuguaglianza concreta sul piano dei rapporti di produzione, sul piano sociale ed economico. Da ciò il suo radicale rifiuto della tradizione liberale e democratica, fino alla concezione utopistica del superamento dello Stato come condizione di una effettiva uguaglianza tra gli uomini. Questa visione marxiana è stata in parte travisata e cristallizzata nella ortodossia marxista-leninista che ha costituito l’ideologia del socialismo reale nell’Unione sovietica e nell’Europa orientale. Con gli esiti fallimentari che conosciamo. Tutta l’esperienza teorica e pratica del socialismo e della sinistra nell’Occidente europeo ha rifiutato la contrapposizione tra uguaglianza formale e uguaglianza sostanziale cercando invece di andare oltre la tradizione liberale attraverso una integrazione fra diritti formali e promozione attiva della integrazione sociale e della riduzione delle diseguaglianze. È evidente tuttavia che pure muovendo in una direzione diversa – e cioè cercando di combinare socialismo e democrazia – la sinistra europea ha comunque preso le mosse dalla critica marxiana dei limiti della uguaglianza formale.

Oggi, di fronte agli sviluppi del capitalismo contemporaneo questa critica mantiene tutto il suo significato e, per molti aspetti, ci appare più che mai attuale. Basta pensare all’enorme potere dei grandi gruppi finanziari internazionali o dei grandi monopoli che controllano il mondo digitale e a come questo potere condizioni e manipoli l’opinione dei cittadini limitando o distorcendo di fatto l’esercizio dei poteri democratici. Si comprende come il tema della diseguaglianze vada oltre l’iniqua distribuzione della ricchezza e investa quello della distribuzione delle conoscenze e del potere. Non a caso Joe Stieglitz nel suo “Il prezzo della diseguaglianza”, parlando degli Stati Uniti d’America, mette l’accento proprio sul funzionamento della democrazia. «Bisogna tornare – egli scrive – ad una democrazia fondata sul principio “una persona un voto” e non su quello: un dollaro un voto. Bisogna impedire che il potere economico e finanziario possa manipolare e controllare l’informazione e distorcere la democrazia».

Ciò mostra che non basta rilanciare politiche nazionali di redistribuzione di risorse e opportunità, investimenti nella tutela della salute e dell’istruzione e tutela del lavoro invertendo il corso del mainstream di questi anni come pure è fondamentale e necessario. Occorre anche una regolazione internazionale capace di limitare la forza incontrollata dei grandi poteri economici transnazionali. Se volessimo utilizzare una parola antica dovremmo dire che c’è bisogno di un nuovo internazionalismo, un tratto distintivo del movimento operaio fin dalle sue origini che, tuttavia, si è paradossalmente spento proprio quando il capitalismo si è fatto internazionale trovandoci impreparati e impotenti.

Oggi nessuna sfida può essere vinta senza ristabilire un primato della politica sull’economia rovesciando il dogma neoliberista. Spetta alla politica, infatti, dare le risposte che il mercato non è in grado di dare. Se ciò vale per quanto riguarda la necessità di conciliare sviluppo ed equità sociale, ancora di più è necessario imbrigliare le forze del mercato se vogliamo che la crescita industriale ed economica non pregiudichi definitivamente l’ambiente naturale e con ciò la sopravvivenza stessa della specie umana.

Marx non era un ambientalista, tuttavia egli ebbe chiaro – come anche gli economisti classici – che le risorse del pianeta sono scarse. Egli denunciò la logica del profitto non solo come produttrice di sfruttamento ma anche per il fatto che essa genera inquinamento e danni ambientali. Infine non a caso immaginò, nel comunismo, una economia circolare capace di risparmiare risorse e materie prime. 

A questo fine occorre indirizzare l’innovazione e la ricerca scientifica. Il cambiamento che si sta avviando assume i caratteri di una vera e propria rivoluzione scientifica e tecnologica. L’applicazione combinata di intelligenza artificiale e robotica può portare ad una riduzione drastica del tempo del lavoro necessario per la produzione dei beni. 

Conviene rileggere quel celebre “Frammento sulle macchine” che è contenuto nei “Lineamenti per la critica dell’economia politica” (noti come “Grundrisse”) scritti in preparazione del Capitale. Si tratta di un testo eccezionale e profetico, dove Marx preconizza l’automazione della produzione, il superamento del lavoro materiale come base della ricchezza e la centralità del “general intellect”, cioè di quel sapere sociale che è frutto della ricerca scientifica e dell’ingegno umano e di cui il capitalismo si appropria. Ora è evidente che se l’immensa crescita della produttività finisce per arricchire pochi, mentre la riduzione del tempo di lavoro diviene ragione per altri milioni di disoccupati, per nuove esclusioni ed emarginazioni, allora l’effetto dell’innovazione può essere quello di un salto drammatico di qualità nell’ingiustizia sociale. Al contrario la rivoluzione scientifica e tecnologica può essere la leva per migliorare la vita di miliardi di esseri umani, per ridurre e ridistribuire il tempo di lavoro e accrescere la libertà delle persone.

Ciò dipende dalla forza di un’azione politica che muova da un pensiero critico sul capitalismo e le sue contraddizioni. Un simile pensiero critico non può prescindere da Carlo Marx. Certo la sua opera non può essere considerata come un corpo dottrinario organico, come una sorta di manuale in cui cercare tutte le risposte per il presente e per il futuro. Marx deve essere considerato per ciò che concretamente ha rappresentato: un pensatore e un militante politico straordinario che è vissuto due secoli fa, la cui ricerca si sviluppò in modo creativo ed anche contraddittorio, nel corso di oltre quarant’anni ed anche sotto l’influenza delle esperienze intellettuali e politiche di cui egli fu protagonista. Marx deve dunque essere liberato da ogni visione scolastica e dogmatica e riletto, spesso, senza la mediazione di molti “marxisti” che non gli hanno fatto onore. Solo a questa condizione noi possiamo recuperare tutta la ricchezza del suo pensiero e ritrovarvi gli strumenti e le categorie che restano attuali per alimentare una visione critica della società. Ma soprattutto in Marx ritroviamo il rigore di un metodo e la forza di una passione che deve spingerci a non arrenderci allo “stato di cose presenti” e a lottare incessantemente per trasformare la realtà e costruire il futuro.

 

 


Foto: fhwrdh

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