Perché vincono i partiti islamisti

Di Renzo Guolo Lunedì 16 Gennaio 2012 13:07 Stampa

A distanza di mesi dalla cosiddetta “primavera araba” e risultati elettorali alla mano è lecito chiedersi quali siano le ragioni del trionfo dei partiti islamisti. Il consenso popolare di cui godono è ampio e sembra crescere rapidamente; dove porterà questo nuovo ciclo politico?


Perché a capitalizzare nelle urne la primavera araba sono, paradossalmente ma non troppo, i partiti islamisti, che pure non sono stati in prima fila nel suo soffio iniziale? Le ragioni sono molteplici, e non riguardano soltanto la relativa debolezza delle cosiddette minoranze intense (in questo caso le componenti più attiviste), in particolare giovanili e istruite, nelle società investite dall’esplosione delle rivolte.

Innanzitutto, l’elettorato ha premiato l’opposizione più duratura. Così al-Nahda in Tunisia e Libertà e Giustizia in Egitto, formazione espressione dei Fratelli musulmani, hanno largamente beneficiato di questo riconoscimento, a scapito delle formazioni nate dal magmatico movimento sceso in piazza contro gli autocrati.

In secondo luogo perché, costretti a lunghi anni di clandestinità, i partiti islamisti, o i loro militanti, hanno riempito il vuoto dovuto alla loro forzata – o occultata – assenza dalla scena politica con l’azione nel sociale. Troppo deboli per rovesciare regimi che si reggevano sull’uso coercitivo della forza, ma troppo forti per essere sradicati dalla società; gli stessi regimi autocratici hanno concesso loro di agire nel campo educativo e nell’assistenza, dove hanno dato vita a una sorta di “welfare religioso”, finanziato da donazioni caritatevoli interne ed esterne, che ha funzionato come ammortizzatore della diffusa povertà. Un dislocamento nel sociale affatto impolitico, che ha accresciuto il consenso tra i settori più bisognosi della popolazione. Caso tipico è quello dei Fratelli musulmani in Egitto. In terzo luogo, la natura interclassista di quei partiti che nel concetto di “giustizia” – declinato anche in chiave sociale come strumento di attenuazione delle disuguaglianze intrinseche in un ordine che ha origine nell’imperscrutabile, e indiscutibile, volontà divina – ripongono uno dei loro punti forti. I partiti islamisti controllano le principali associazioni professionali, a partire dagli ordini degli avvocati, ingegneri e medici, ma il radicamento nella borghesia religiosa non impedisce certo la diffusione del loro messaggio tra i ceti popolari. Il codice simbolico che permette una simile penetrazione, funzionale per estendere il consenso alla grande massa degli elettori, in buona parte analfabeti o poco istruiti, è quello religioso; fattore di grande rilevanza in un contesto in cui l’Islam ha una diffusa evidenza sociale, mentre le dottrine dei competitori sono ritenute, dal senso comune, un prodotto fallimentare o stentano a decollare: il nazionalismo laico ha perso legittimità dopo la guerra dei sei giorni nel 1967, divenendo da allora l’ideologia delle minoranze assediate al potere; il liberalismo democratico è ancora patrimonio di pochi. In quarto luogo, negli ultimi anni i partiti islamisti, in particolare quelli neotradizionalisti di filiera Fratelli musulmani, si sono mostrati assai pragmatici, attenuando le loro rigidità ideologiche. Se i loro progenitori condannavano la democrazia in quanto metteva sullo stesso piano la sovranità popolare e quella divina, essi usano la democrazia, o meglio la liberalizzazione dei processi elettorali, nel tentativo di costruire, mediante il consenso, se non uno Stato islamico, uno Stato religiosamente ispirato. L’abbandono della pregiudiziale “Stato islamico o nulla!”, così come l’interesse di parte dei loro gruppi dirigenti verso l’esperienza dell’AKP turco, ha reso più spendibile la loro offerta politica fuori dal consueto bacino islamista. Così come l’annunciata disponibilità a governare in coalizione con forze di matrice diversa.

Infine, il consenso verso quei partiti permette di prendere le distanze dal progetto neocaliffale di al Qaida – ritenuto impraticabile e generatore di tensioni distruttive per il mondo della Mezzaluna – senza per questo dover abbandonare la vulgata islamista. Il tutto in uno scenario in cui tali partiti si rifanno a una sorta di “via nazionale” all’Islam, progetto che li rende meno temibili agli occhi sia dell’Occidente, preoccupato per gli effetti che una nuova “internazionale islamista” di governo potrebbe generare negli equilibri politici internazionali, sia dei ceti che nell’avvento dell’Islam politico temono la fine di ogni prospettiva di modernizzazione.

Quello che si apre con gli sviluppi elettorali della primavera araba è, dunque, un ciclo politico – si vedrà se di lunga durata o meno – il cui esito dipende da vari fattori:

a) la reazione di quelle parti della società, minoritarie ma non certo marginali per peso politico ed economico, che hanno affidato e vorrebbero continuare ad affidare ai militari il ruolo di custodi della modernità e di un rapporto non conflittuale con l’Occidente. Settori che potrebbero guardare con favore a un ruolo “turco” delle stellette come diga contro l’islamizzazione della società e il potenziale isolamento internazionale dei loro paesi. Un ruolo “turco” più nella versione interventista che ha condotto in passato al braccio di ferro dei militari turchi con il Refah di Erbakan che in quella attuale della convivenza forzata con l’AKP di Erdogan;

b) la tensione nell’architettura istituzionale di quegli stessi paesi, nei quali il potere non è un’esclusiva dei Parlamenti: si veda il caso dell’Egitto, che è una Repubblica presidenziale; o del Marocco, nel quale il re continua ad avere ampie prerogative costituzionali, nonostante le riforme adottate;

c) la concorrenza nel mercato politico islamista, nel quale si muovono anche forze che hanno abbandonato, o accantonato, teoria e pratica del jihad armato, ma puntano ancora a una coercitiva islamizzazione dall’alto della società e sono intenzionate a condurre una battaglia senza compromessi sul terreno dei valori islamici. È il caso delle correnti salafite radicali, che in un passato ancora assai recente accusavano i neotradizionalisti di “revisionismo islamico” perché accettavano di partecipare a competizioni elettorali e ora hanno scelto, con successo, la strada delle urne, come il partito al-Nur egiziano;

d) la stessa scelta, o la necessità, di governare in coalizione con forze politiche di matrice diversa. Passaggio che da un lato renderebbe più difficili derive ideologiche, ma dall’altro esporrebbe quei partiti all’insidiosa concorrenza salafita che, invocando il “gergo dell’autenticità”, può mettere in difficoltà i neotradizionalisti, sensibili alle accuse di “tradimento dei valori”;

e) l’evolversi di fattori esterni, come gravi crisi regionali nell’area del Nord Africa o in Medioriente, che potrebbero indurre quei partiti a schierarsi secondo logiche non gradite all’Occidente, mutando un clima internazionale relativamente “benevolo” nei loro confronti dopo gli avvenimenti nordafricani. Scelta che potrebbe portare al ritiro della delega da parte dei settori della società che hanno dato un’adesione non ideologica al programma dei partiti in questione.

Dunque, un ciclo politico pieno di incognite ma che, in ogni caso, disegna un panorama assai diverso da quello che precedeva il caldo inverno dello scontento arabo. Uno scenario in cui, ai fini della stabilità, diventa difficile prescindere dalla forza dei partiti islamisti.

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