Un'operazione culturale che condanna il Mezzogiorno

Di Vito Peragine Lunedì 14 Gennaio 2013 15:06 Stampa

Il modo in cui la questione del differente sviluppo delle aree del Nord e del Sud del paese è stata declinata negli ultimi anni è frutto di
un radicale mutamento culturale nell’approccio al problema, che si è alimentato di argomentazioni fallaci e parziali: il Sud è una voragine che assorbe spesa pubblica e sottrae risorse al Nord; il Nord, da solo, è l’unica speranza di ripresa per l’Italia intera; il Mezzogiorno è responsabile della propria debolezza. Sulle premesse di questo mutamento di paradigma è necessario interrogarsi.

La questione territoriale, da lungo tempo al centro del dibattito politico e specialistico nel nostro paese, negli ultimi quindici anni ha subito una duplice torsione: da questione meridionale a questione settentrionale, da ambito d’azione delle politiche di sviluppo a tema inerente i flussi finanziari tra Regioni e territori. Si è trattato di una importante operazione culturale, sulle cui premesse logiche e fattuali occorre oggi interrogarsi.

Il primo pilastro di questa operazione è basato su un indicatore di contabilità pubblica, denominato “residuo fiscale” e definito come la differenza tra il contributo fornito dagli abitanti di un’area territoriale al finanziamento dell’azione pubblica (principalmente attraverso il pagamento delle imposte) e i benefici che gli stessi ricevono da tale azione (principalmente sotto forma di servizi pubblici). Questo indicatore è utilizzato per individuare il contributo di ciascuna area al complessivo bilancio pubblico e soprattutto per evidenziare l’ampiezza dei trasferimenti interregionali implicitamente operati dal sistema fiscale. Le stime effettuate concordano nell’assegnare residui fiscali negativi a tutte le Regioni meridionali, che risultano pertanto essere sempre beneficiarie nette, e residui positivi a quasi tutte le Regioni del Nord, che quindi risultano essere sempre contribuenti nette.1 L’esistenza di residui fiscali regionali è stata presentata (non dagli autori degli studi, in verità molto attenti a sottolineare il carattere puramente descrittivo dei loro risultati) come “problema territoriale”, in quanto prova di una iniqua sottrazione di risorse al Nord a beneficio del Sud. Da questione declinata in termini di sviluppo delle diverse aree, il problema territoriale diventa così un affare di contabilità pubblica.

Nello specifico, di una distribuzione iniqua delle risorse pubbliche. In realtà, però, la redistribuzione territoriale sarebbe iniqua qualora fosse indice di una spesa pro capite più alta al Sud e più bassa al Nord e di un prelievo tributario più basso nelle Regioni meridionali. Tutti i dati disponibili mostrano invece una realtà alquanto diversa. La spesa pro capite delle Regioni meridionali è infatti sistematicamente inferiore rispetto a quella delle Regioni del Nord: la spesa complessiva del Settore pubblico allargato (SPA) è risultata tra gli anni 1996 e 2010 assai squilibrata a sfavore del Mezzogiorno (solo il 31% a fronte di un peso demografico pari a circa il 36%) e fortemente antidistributiva. In termini monetari, nello stesso periodo ogni cittadino del Centro-Nord si è avvalso mediamente, a prezzi costanti 2000, di circa 9217 euro pro capite rispetto ai 7583 euro del cittadino del Mezzogiorno. Nelle due aree l’andamento della spesa totale pro capite appare simmetrico in tutto l’arco temporale considerato, con un tasso di crescita omogeneo e un divario medio di 1634 euro pro capite tra Centro-Nord e Mezzogiorno.2 D’altro canto, la pressione tributaria (riferita a imposte erariali, IRAP e addizionali regionali) risulta in non poche Regioni del Sud allo stesso livello e talvolta superiore a quella delle Regioni del Nord: in altre parole, al Sud rispetto al Nord si spende meno e si tassa ugualmente.

Piuttosto che effetto patologico e sintomo di una questione territoriale irrisolta, i residui fi scali sono in larga parte il riflesso di una redistribuzione personale operata da un sistema pubblico che tassa in base alla capacità contributiva (in ossequio all’articolo 3 della Costituzione) e fornisce (o dovrebbe fornire) servizi in base al bisogno.3 Dunque, esattamente come redistribuisce reddito dai residenti più ricchi a quelli più poveri all’interno di una certa Regione, così redistribuisce risorse fra residenti di Regioni diverse. E tuttavia, nella retorica basata sui residui fiscali, le politiche che mirano a rendere progressivo il sistema tributario (articolo 3 della Costituzione) e a rendere effettivo il godimento dei diritti di cittadinanza relativi alla salute, all’istruzione, all’assistenza sociale ecc. (articoli 32, 34 e 38 della Costituzione), diventano fonte di ingiustizia territoriale. Quasi ci fosse un principio di giustizia tra territori distinto e prevalente rispetto ai principi di giustizia distributiva tra individui. L’equivoco su questo punto deriva dalla confusione generata da un male inteso principio della territorialità delle imposte, secondo cui i territori più ricchi avrebbero diritto a disporre di maggiori risorse da spendere. Tale principio è tuttavia tipico delle confederazioni di Stati ma estraneo al sistema fiscale, anche federale, di uno Stato unitario, all’interno del quale ciò che è importante è che tutti i cittadini, ricchi e poveri, siano trattati nello stesso modo dalle leggi in vigore: stesse tasse ed eguali servizi.

L’inadeguatezza del residuo fiscale quale bussola per una valutazione della questione territoriale emerge con ancora maggiore chiarezza se si va al di là della contabilità pubblica e si considerano gli effetti economici della redistribuzione operata dal sistema fiscale: le Regioni meridionali costituiscono un mercato di venti milioni di persone in cui giungono flussi di prodotti provenienti per circa il 40% dal Nord-Ovest e per circa il 30% dal Nord-Est: c’è una forte interdipendenza tra le due aree. Si è calcolato che i 45 miliardi di euro annualmente trasferiti dal Nord al Sud finanziano importazioni nette pari a 62 miliardi di euro dall’interno e 13 miliardi dall’estero.4 Dunque, anche sotto questo profilo, limitarsi all’aritmetica contabile dei residui e interpretare gli stessi in termini di iniquità territoriale è del tutto fuorviante. E tuttavia, tale interpretazione, insieme a una presunta equazione fra residui fiscali negativi e inefficienza degli amministratori locali, ha alimentato il mito del Sud come voragine di spesa pubblica e ha portato a una indebita lettura della riorganizzazione federale del sistema fiscale come occasione per una redistribuzione territoriale delle risorse. Questa lettura ha portato ad attribuire alla riforma federale, oltre all’obiettivo, condivisibile, di una maggiore efficienza della spesa pubblica, anche quello, non giustificato, di una riduzione del grado di redistribuzione tra le Regioni. Le riflessioni svolte intorno alla natura della distribuzione delle risorse tra territori suggeriscono invece, per il futuro, di tenere ben distinti i due temi e di procedere eventualmente con il riassetto territoriale della finanza pubblica in un quadro di neutralità distributiva.

Il secondo pilastro dell’operazione culturale realizzata ai danni del Mezzogiorno si basa su una lettura parziale delle diseguaglianze territoriali e su una declinazione in chiave conservatrice dell’ideale meritocratico. Lettura coerente peraltro con una impostazione più ampia che ha caratterizzato la cultura di destra in questi ultimi due decenni. Sul terreno delle politiche territoriali, l’approccio prevalente nell’ambito della cultura e del governo di centrodestra, come ad esempio emerge dal Piano nazionale delle riforme (PNR) 2011, ipotizza l’esistenza di due sistemi economici distinti: quello del Nord, che già funziona e che va potenziato, e quello del Sud, completamente da ridefinire. È la retorica del Sud come palla al piede e del Nord come unica speranza per la ripresa economica dell’Italia; è l’idea di un’Italia che riparte se riparte il Nord, idea nutrita e alimentata da una continua contrapposizione tra questione settentrionale e questione meridionale. In realtà la storia economica del nostro paese dimostra come le interrelazioni economiche tra le due aree siano così estese da condizionare i risultati di ciascun territorio. E in effetti dalla contrapposizione tra questione meridionale e questione settentrionale è risultato un parallelo declino, che pur mantenendo sostanzialmente invariate le distanze tra Sud e Nord ha visto l’intero paese scendere nelle graduatorie mondiali della crescita e della competitività.

Vi è un argomento insidioso, subdolo, utilizzato per difendere questa impostazione e che va affrontato in modo esplicito. Si tratta di una declinazione conservatrice dell’ideale meritocratico, in base alla quale per crescere, ma anche per essere “equi”, occorre premiare e investire su chi è oggi più capace e più produttivo: puntare sui territori che oggi sono più produttivi, ma anche sugli studenti più capaci, sulle università che oggi fanno più ricerca. In questo approccio il riconoscimento del merito finisce però per essere una fotografi a dell’oggi, una cristallizzazione dei rapporti di forza esistenti, con l’aggravante che il più debole (territorio o individuo che sia) diventa responsabile della sua debolezza.5

Se il merito è semplicemente misurato dalla produttività individuale, o meglio dal valore che il mercato attribuisce al lavoro individuale, allora riconoscere il merito significa solo conservare l’esistente, e puntare sul merito significa di fatto allargare i divari già presenti. Ma è un errore confondere il risultato ottenuto con il merito: perché il risultato finale, di un individuo, di una università, di un territorio, è il prodotto complesso di impegno, capacità e condizioni, fattori di contesto. Riconoscere il merito deve significare riconoscere le responsabilità di individui e territori ma allo stesso tempo riconoscere i diversi punti di partenza, i diversi fattori di contesto. Deve significare riconoscere, ad esempio, la diversità di impegno necessario a sostenere una attività di ricerca e a organizzare una istituzione di ricerca in contesti territoriali dotati di disponibilità economica e quindi di potenzialità di finanziamento privato alla ricerca molto diverse. E politiche di riconoscimento del merito devono partire dalla compensazione delle differenze nelle condizioni di partenza. In questa prospettiva il merito non è contrapposto all’uguaglianza; al contrario, il merito è contrapposto alle rendite di posizione e richiede politiche egualitarie e compensative di tipo selettivo.

Questa chiave di lettura tiene dentro anche la questione meridionale e permette di leggere in maniera critica alcuni più recenti approcci essa. Perché se è vero che il riconoscimento e l’attivazione della responsabilità dei territori sono condizioni necessarie per la loro crescita economica, è vero anche che non è sufficiente concentrarsi sul capitale sociale e sulla inadeguatezza della classe dirigente (problemi che esistono e vanno affrontati, sia chiaro), dimenticando o rimuovendo il tema dei fattori oggettivi di contesto, che richiedono interventi compensativi nazionali. In questo senso, le letture che propongono di imputare il “ritardo” del Mezzogiorno esclusivamente alla “cultura” dei meridionali, e che quindi ritengono possa essere sufficiente attivare il “capitale sociale” per innescare processi di sviluppo economico, rischiano di trascurare colpevolmente, di rimuovere (dallo schema interpretativo ma non dalla realtà), l’incidenza di altri fattori strutturali che gravano sulla capacità di sviluppo. 6 E in effetti l’esperienza degli ultimi quindici anni mostra come la prospettiva di una crescita endogena del Mezzogiorno, basata sulla semplice attivazione delle risorse già disponibili sul territorio ma inutilizzate per ragioni culturali, sia sostanzialmente inadeguata. Al contrario, le differenti condizioni territoriali nelle due ripartizioni del paese richiedono tipologie e intensità di intervento diverse per le diverse aree, con il comune obiettivo di migliorare le condizioni del sistema produttivo dell’intero paese. Occorre incidere mediante politiche ordinarie sul terreno delle inefficienze della pubblica amministrazione, delle carenze nel sistema infrastrutturale e logistico, del sistema del credito, del sistema scolastico e della ricerca, del sistema di welfare. Al fine di valorizzare le esperienze produttive anche di eccellenza che esistono nei vari territori. Ma si tratta di andare oltre le condizioni di contesto e riattivare una politica industriale che punti alla accumulazione di capitale produttivo, attraverso l’attrazione di investimenti esterni e la creazione di attività in mercati ad alto tasso di innovazione.

In breve, si tratta di riconoscere esplicitamente e poi di attenuare i vincoli alla crescita economica e la loro distribuzione territoriale diseguale: sul piano delle infrastrutture, della sicurezza, del capitale umano e del capitale produttivo. Perché se si attribuisce il divario esistente esclusivamente a fattori endogeni di responsabilità territoriale e non si riconosce l’esistenza dei fattori esogeni di contesto che frenano lo sviluppo, non solo ogni strategia di crescita sarà monca e meno efficace, ma, in linea con la meritocrazia conservatrice, il deficit di sviluppo continuerà a essere imputato sempre e soltanto a un insuperabile deficit morale e culturale del Mezzogiorno.

 


 

[1] Si vedano A. Staderini, E. Vadalà, Bilancio pubblico e flussi redistributivi interregionali: ricostruzione e analisi dei residui fiscali nelle regioni italiane, in Banca d’Italia (a cura di), Mezzogiorno e politiche regionali, Roma 2009, disponibile su www.bancaditalia. it/pubblicazioni/seminari_convegni/mezzogiorno/2_volume_mezzogiorno.pdf. Altre stime dei residui fi scali sono contenute in M. F. Ambrosanio, M. Bordignon, F. Cerniglia, Constitutional Reforms, Fiscal Decentralization and Regional Fiscal Flows in Italy, DISCE Working Paper n. 84, dicembre 2008, disponibile su istituti.unicatt. it/economia_fi nanza_84.pdf; G. Arachi, C. Ferrario, A. Zanardi, Regional Redistribution and Risk Sharing in Italy. The Role of Different Tiers of Government, in “Regional Studies”, 1/2010, pp. 55-69; G. Pisauro, Federalismo fiscale, questione settentrionale e questione meridionale, in “Italianieuropei”, 1/2009, pp. 73-82. Le metodologie di stima dei diversi lavori e i periodi di riferimento sono in parte eterogenei, tuttavia le conclusioni dei diversi studi risultano relativamente simili.

[2] Sulla distribuzione della spesa pubblica in Italia si vedano i rapporti annuali del Dipartimento per le Politiche di sviluppo e coesione, in particolare l’ultimo: DPS, Rapporto annuale 2011, disponibile su www.dps.tesoro.it/rapporto_annuale_2011.asp.

[3] Si vedano A. Staderini, E. Vadalà, op. cit. e A. Giannola, C. Petraglia, D. Scalera, Residui fiscali regionali e riforma federalista. Quanto residuerà delle politiche regionali e redistributive?, in “Rivista economica del Mezzogiorno”, 1-2/2011, pp. 29-56.

[4] Si veda R. De Bonis, Z. Rotondi, P. Savona (a cura di), Sviluppo, rischio e conti con l’esterno delle regioni italiane, Laterza, Roma-Bari 2010.

[5] Sulla meritocrazia si veda la satira feroce di Michael Young: M. Young, L’avventodella meritocrazia, Edizioni di comunità, Milano 1962. Per una discussione critica recente, anche in relazione ad altre teorie dell’equità distributiva, si veda M. Fleurbaey, Fairness, Responsibility, and Welfare, Oxford University Press, Oxford 2008. Per un’analisi anche quantitativa delle interpretazioni e delle implicazioni della meritocrazia in diversi ambiti dell’attività economica si veda K. Arrow, S. Bowles, S. Durlauf (a cura di), Meritocracy and Economic Inequality, Princeton University Press, Princeton 2000.

[6] In questo senso si veda la critica al “localismo virtuoso” contenuta in F. Cassano, Tre modi di vedere il Sud, il Mulino, Bologna 2009.

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