Sessantotto: il fratello grande

Di Marco Almagisti e Paolo Graziano Mercoledì 14 Febbraio 2018 11:25 Stampa

Volontà di protagonismo giovanile, dimensione globale del fenomeno, ruolo dei mass media nella diffusione delle immagini e ragioni della protesta, innovazione concernente i diritti e l’ecologia: quale eredità politica è oggi rintracciabile nei movimenti del Sessantotto? Come possiamo valutare il loro impatto sulla società odierna?

In un libro tanto denso quanto utile pubblicato giusto dieci anni fa, Giovanni Moro si chiedeva se il Sessantotto fosse da ricordare quale sorta di “Grande fratello”, di quanto di peggio gli anni Settanta hanno prodotto (in termini di violenza politica), oppure se potesse essere considerato un “fratello grande”, da cui discendono, per gemmazione, processi eterogenei che hanno ampliato nel tempo gli spazi di cittadinanza e partecipazione.1 Proviamo a riprendere e ad approfondire le sue riflessioni e interroghiamoci sopra quale eredità politica sia oggi rintracciabile nei movimenti di cinquant’anni fa. Quattro sono i lasciti più importanti: la volontà di protagonismo giovanile, la dimensione globale del fenomeno, il ruolo dei mass media nella diffusione delle immagini e ragioni della protesta e l’innovazione concernente i diritti e l’ecologia.

In primo luogo, dobbiamo considerare il protagonismo dei movimenti giovanili: pur non trattandosi di un fenomeno raro nella modernità occidentale (basti pensare all’impatto storico dei fatti del 1848, che nel corso del tempo è divenuto proverbiale), alla fine degli anni Sessanta il movimento conosce un’estensione mondiale che si articola anche sotto forma di innovazione culturale e non solo di protesta politica. È sufficiente richiamare alla memoria l’avvio di un nuovo modo di diffondere cultura pop(olare) e protesta politica (come l’intreccio tra Woodstock e il movimento antimilitarista favo- revole al ritiro degli Stati Uniti dal Vietnam) per sottolineare il nesso tra nuove forme di fruizione culturale e nuove forme di partecipazione politica coltivate dai giovani.

In secondo luogo, il Sessantotto assume molto rapidamente un rilievo globale in virtù dell’esistenza e della diffusione di mass media in grado, per la prima volta, di veicolare immagini e notizie in tempo reale in tutto il mondo.2 Il Sessantotto è legato – prima ancora che ai temi sollevati dal movimento – alle immagini di festa e protesta che raffigurano giovani simbolicamente (ma non solo) in procinto di “rompere le catene” del conformismo e del paternalismo autoritario. Le immagini offrono spunti da una parte all’altra del mondo e stimolano un senso di comunanza che altrimenti difficilmente si sarebbe realizzato (si pensi al finale magistrale del film “Fragole e sangue” che, al canto di “Give peace a chance”, mostra l’epilogo di una protesta che avrebbe potuto essere localizzata in molte parti del mondo). Ed è grazie alla costruzione di un nuovo immaginario che la mobilitazione si diffonde su scala mondiale in tempi estremamente rapidi, anche se con modi e finalità estremamente diversi. A differenza dei moti del 1848, l’ondata di mobilitazione sessantottina non si limita al solo Occidente: il principale bersaglio della protesta è l’autorità costituita, mentre a essere valorizzati sono i momenti di condivisione e di ampliamento della partecipazione, sia in contesti democratici, sia in contesti non democratici. Nei paesi dell’Europa orientale, ad esempio, la mobilitazione si traduce in rivolta contro le dittature comuniste a partito unico e contro l’imperialismo sovietico. Queste mobilitazioni risulteranno decisive per la socializzazione politica di segmenti eterogeni di società che saranno poi decisivi nel crollo del “socialismo reale” nel 1989.3 Infine, secondo alcuni analisti, 4 il Sessantotto costituisce un moto rivoluzionario globale che sfida gli equilibri politici ed economici costruiti nel secondo dopoguerra, ossia durante gli anni del “compromesso socialdemocratico” fra capitale e lavoro che Jean Fourastié definisce les trente glorieuses (1945-75).5 In realtà, sin dalle prime proteste esplose nei campus americani contro la guerra del Vietnam, i movimenti che poi daranno vita al Sessantotto sono promotori di una critica radicale alle democrazie occidentali postbelliche, ma il loro innesco avviene soprattutto tra gli studenti universitari, i quali, in un contesto di crescita economica e di relativa mobilità sociale, contestano quanto nella cultura e nella organizzazione della società risulta ancora, a loro giudizio, contrassegnato da autoritarismo e paternalismo, intrecciando la loro mobilitazione con le proteste di soggetti discriminati a causa del genere o dell’etnia.6 Stein Rokkan ha cercato di contestualizzare le mobilitazioni di fine anni Sessanta, sostenendo che il diffondersi dei movimenti del Sessantotto costituisce uno spartiacque nella storia della politica di massa democratica e nella storia internazionale della sociologia politica.7

Nella lettura di un attento studioso d’ispirazione rokkaniana quale Percy Allum, il Sessantotto e la contestazione originerebbero da una specifica giuntura critica, la quale provocherebbe «una nuova frattura sulla questione ecologica, di cui sarebbero protagonisti i nuovi movimenti sociali (originando una contrapposizione) ambiente contro sviluppo industriale».8

E oggi come possiamo valutare l’impatto sulla nostra società dell’eredità del Sessantotto?

In primo luogo, è vero che le radici di quei movimenti affondano in fermenti (pacifisti, ambientalisti, femministi) presenti già negli anni Quaranta del Novecento, sovente nel grembo degli stessi partiti di massa o, comunque, non in contrapposizione a essi9 e che – a differenza dei movimenti sorti in giunture critiche precedenti – i partiti che scaturiscono dal sedimentarsi delle mobilitazioni post Sessantotto sono circoscrivibili soprattutto alle neoformazioni ambientaliste.10 Tuttavia, anche se raramente producono nuovi partiti, si tratta di movimenti che cambiano le culture politiche già presenti nella società. Secondo analisti come Ronald Inglehart, dagli anni Sessanta sarebbe in corso una “rivoluzione silenziosa” nelle culture politiche occidentali, in seguito all’irruzione sulla ribalta pubblica di una generazione “post materialista” concentrata su aspetti relativi allo stile di vita individuale.11 Molte delle questioni (riguardo al genere, la sessualità, gli stili di vita alternativi) poste dai movimenti sorti in quel periodo sono penetrate gradualmente nei programmi dei principali partiti della sinistra europea,12 provocando – secondo le interpretazioni di alcuni studiosi – un cambiamento tale da causare la nascita di una nuova destra, più radicale e tradizionalista, proprio quale reazione all’affermazione di temi libertari nelle agende politiche dei principali paesi occidentali.13

Su questo aspetto specifico ci pare che debba essere condotto fino in fondo il dibattito nei partiti e nei movimenti di sinistra sulle interpretazioni proposte da autori quali Richard Rorty o Christopher Lasch sulla difficoltà della sinistra a tenere assieme le rivendicazioni originate dall’affermazione di nuovi stili di vita con la funzione storica della sinistra di tutelare il mondo del lavoro e combattere la diseguaglianza economica, di combinare la tutela dei diritti delle minoranze con il consenso della maggioranza,14 e da Robert Putnam sulla necessità di ripensare e promuovere politiche in grado di rafforzare l’inclusione sociale e il senso di comunità civica.15

Nello stesso tempo, ci pare opportuno rivisitare – e entro certi termini rivendicare – il senso dei cambiamenti che sono scaturiti dalla stagione dei movimenti degli anni Sessanta, anche nel nostro paese. Riguardo al quale, la lettura “post materialista” di Inglehart andrebbe quanto meno relativizzata. Infatti, l’impegno per sanare situazioni quali le fogne a cielo aperto nelle borgate romane – opportunamente ricordate da Moro nel suo libro – non ha molto di “post materialista”. Così come la saldatura della mobilitazione studentesca con quella operaia, favorita anche dall’atteggiamento del PCI che è l’unico grande partito della sinistra europea a tentare di costruire un rapporto, sebbene difficile, con i movimenti del Sessantotto.16 Ne è scaturita una stagione intensa di cambiamenti, anche contraddittori, che deve essere ricostruita e considerata con attenzione. Questo è il senso dell’invito a distinguere le differenti eredità del Sessantotto proposto da Giovanni Moro, da cui segue l’esigenza di una lettura che non rimandi solo al ricordo delle manifestazioni dell’estremismo politico (che pure ci furono e non debbono essere dimenticate), ma che ricostruisca la presenza in quegli anni, spesso meno appariscente ma feconda, di molteplici fermenti innovativi nel mondo delle professioni, della scuola e dell’università.

Per tali ragioni lo stesso Moro vede nel Sessantotto «l’inizio di un grande movimento di democratizzazione, pubblica come privata, che negli anni Settanta ha consentito al paese di cominciare a liberarsi di strutture obsolete, di forme di autoritarismo, di provincialismo culturale e molto altro».17 Da quel fratello grande non sono scaturiti nuovi partiti, ma la sua eredità più duratura la troviamo nel movimento delle donne, nelle manifestazioni per la cura dei contesti territoriali aggrediti da scelte ambientali miopi, nelle organizzazioni di cittadini che si battono per diritti misconosciuti o la tutela di beni pubblici minacciati. È un grande capitale sociale che ha faticato a tradursi in risorsa politica. Fino a ora.

 


 

[1] G. Moro, Anni Settanta, Einaudi, Torino 1997.

[2] L. Bonanate, Globalizzazione o democrazia, ovvero alla scoperta di un equivoco, in “Teoria politica”, 3/1996, pp. 3-16; U. Beck, Che cos’è la globalizzazione? Rischi e prospettive della società planetaria, Carocci, Roma 1999.

[3] V. Lomellini, A. Varsori (a cura di), Dal Sessantotto al crollo del Muro: i movimenti di protesta in Europa a cavallo dei due blocchi, FrancoAngeli, Milano 2014.

[4] G. Arrighi, T. H. Hopkins, I. Wallerstein, Antisystemic Movements, Manifestolibri, Roma 1992

[5] J. Fourastié, Les trente glorieuses, Fayard, Parigi 1979.

[6] M. Tolomelli, Il Sessantotto. Una breve storia, Carocci, Roma 2008.

[7] S. Rokkan, The Structuring of Mass Politics in the Smaller European Democracies: A Development Typology, in O. Stammer (a cura di), Party System, Party Organizations and the Politics of New Masses, Freie Universität Berlin, Berlino 1968; S. Rokkan, Cittadini, elezioni e partiti, il Mulino, Bologna 1982.

[8] P. Allum, Democrazia reale. Stato e società civile nell’Europa occidentale, UTET, Torino 1997, p. 90.

[9] M. Tolomelli, L’Italia dei movimenti. Politica e società nella Prima Repubblica, Carocci, Roma 2015.

[10] S. Fabbrini, Politica comparata. Introduzione alle democrazie contemporanee, Laterza, Roma-Bari 2008.

[11] R. Inglehart, La rivoluzione silenziosa, Rizzoli, Milano 1983.

[12] R. J. Dalton, Citizen Politics: Public Opinion and Political Parties in Advanced Industrial Democracies. Sixth Edition, Sage, Londra 2013.

 [13] P. Ignazi, The Silent Counter-Revolution. Hypotheses on the Emergence of Extreme Right Parties in Europe, in “European Journal of Political Research”, 1/1992, pp. 3-34.

[14] R. Rorty, Una sinistra per il prossimo secolo: l’eredità dei movimenti progressisti americani del Novecento, Garzanti, Milano 1999; C. Lasch, La rivolta delle élite. Il tradimento della democrazia, Neri Pozza, Vicenza 2017.

[15] R. Putnam, Capitale sociale e individualismo. Crisi e rinascita della cultura civica in America, il Mulino, Bologna 2004.

[16] A. Hobel, Il PCI di Longo e il ’68 studentesco, in “Studi storici”, 2/2004, pp. 419-59; G. Strippoli, Il partito e il movimento. Comunisti europei alla prova del Sessantotto, Carocci, Roma 2013; M. Almagisti, Una democrazia possibile. Politica e territorio nell’Italia contemporanea, Carocci, Roma 2016.

[17] G. Moro, op. cit., p. 143.