L’Europa che verrà

Di Donatella Di Cesare Martedì 15 Gennaio 2019 12:03 Stampa

Quando si parla di Europa si usa ormai il condizionale per dire quel che avrebbe potuto essere, e non è stato. Oggi si deve ammettere che, come suggerisce il Manifesto di Thomas Piketty, l’Europa è in una inquietante impasse: da un canto movimenti politici ambigui, il cui programma sembra coagularsi solo nell’odio contro gli stranieri, d’altro canto quel liberismo “duro e puro” che pretende di imporre ovunque il dogma di un’austerità implacabile, producendo una competizione generalizzata tra tutti. A cominciare proprio dagli Stati europei.

Si è dissolto il sogno europeo? È andata per sempre in frantumi quell’idea di Europa, culturale, politica, etica (ben più ampia dell’ossessione finanziaria), che ha mobilitato le coscienze e mutato la forma di vita dei suoi cittadini negli ultimi decenni del Novecento e all’esordio del nuovo millennio? Sempre più burocraticamente lontana da quel sogno, l’Europa è diventata addirittura un nome detestabile e detestato. Non il vessillo della fraternità, l’emblema della solidarietà, bensì il bersaglio della collera indistinta.

Come interpretare questa fase? Quali indicazioni offrire? Forse si dovrebbe parlare di “interregno”, attingendo a una categoria gramsciana, per questa inedita situazione in cui il vecchio ordine nazionale è al collasso, mentre non emerge ancora una nuova unione postnazionale. Oggi l’Europa si è ridotta a un coacervo di nazioni, un’assemblea scomposta di proprietari che, a colpi di trattati sempre più effimeri e compromessi vacillanti, si contendono lo spazio per difendere ciascuno la propria pretesa identità. Nessun senso del comune, nessun pensiero della comunità. Non c’è quasi iniziativa politica che non sia stata stravolta. A chi imputare questo stravolgimento? Non solo agli eventi dell’ultimo decennio, alla grande crisi economico-finanziaria, non solo alla burocrazia di Bruxelles, e ai governi che si sono succeduti, ma anche ai cittadini, lontani, passivi, indifferenti. Tutto ciò ha contribuito a far naufragare ogni progetto di ampio respiro.

Mentre si auspicava una nuova forma politica “postnazionale”, in cui qualche filosofo – come Habermas – si era spinto a scorgere il primo passo verso una Costituzione cosmopolitica, si è invece rafforzato lo Stato-nazione, il guardiano che garantirebbe sicurezza e protezione dalle minacce esterne, a cominciare dai migranti. Mentre si immaginava una cittadinanza europea basata solo sulla residenza, aperta perciò agli stranieri, in grado di inventare lo statuto inedito del “cittadino europeo”, privo di una nazionalità interna all’Europa, tutto è finito in un insensato raddoppiamento dell’appartenenza. E poi i confini: all’apertura progressiva dello spazio Schengen, che dal 1985 avrebbe dovuto agevolare la libera circolazione, ha fatto seguito l’immunizzazione ossessiva delle frontiere.

Al contrario di quel che credono i sovranisti, il limite dell’Europa non è stato quello di aver messo in questione la sovranità dei singoli Stati-nazione, bensì di non essere riuscita a scardinare dal fondo questo vecchio Moloch spettrale ed esangue, lo Stato-nazione, tanto più avvinghiato perciò al suo potere, tanto più determinato a dettare legge. L’Europa è rimasta ostaggio delle nazioni che, entro un’istituzione svuotata, persino deturpata, rivaleggiano in un perenne e vano contenzioso. Nessun tentativo, dunque, di inventare e praticare nuove forme politiche di comunanza e coabitazione. La cosiddetta “crisi dei migranti” è la prova più eclatante di questo fallimento. Se il diniego dell’accoglienza è imputabile alle singole nazioni, l’Europa non è stata in grado di aprirsi all’ospitalità. E di questo rifiuto risponderà davanti alla Storia. Patria dei diritti umani, ha ancora una volta violato quei diritti, e immemore del passato recente ha lasciato che, a pochi decenni da Auschwitz, riaffiorassero gli spettri del sangue e del suolo, tradendo così se stessa.

I pronostici non si sono realizzati. L’Europa prometteva di diventare non solo il luogo comune e condiviso di una riscoperta della politica, ma anche il laboratorio dove sperimentare nuove forme di una cittadinanza, sganciata dalla filiazione e dalla nascita, per sbarazzarsi del mito tossico della nazione. Semplicemente non è stata tutto ciò. L’elenco di quel che avrebbe potuto essere, e non è stata, sarebbe molto lungo.

Disattesa la promessa, stravolto il progetto. Che fare, dunque, dell’Europa? Sembra scoccata l’ora dei sovranisti che, a quanto pare, sono presenti non solo a destra, ma anche a sinistra. Sono i nostalgici dell’identità e dei suoi miti, i cultori della vecchia sovranità, i reazionari convinti che l’unica protezione dei popoli sia circoscritta ai confini chiusi dello Stato-nazione. Restare padroni di sé, in un egoismo sovrano innalzato a principio di governo politico. Ma la politica non dovrebbe forse essere l’ambito del comune e della comunità? E non è invece lacerata e disintegrata dal sovranismo?

Prima di sviluppare la questione, occorre chiarire bene un aspetto politico della situazione di “interregno”. I sovranisti si presentano in veste di politici molto realistici. Ma a ben guardare inseguono una chimera. Non si tornerà agli Stati-nazione d’un tempo, capaci di avere rapporti più o meno stretti fra loro. La storia lo insegna: non c’è un ritorno al passato. Inutile, dunque, far finta che, dissolta la cornice europea, tutto si rimetta in ordine.

Proprio perché non è possibile tornare al sistema tradizionale degli Stati-nazione isolati, la crisi è più profonda di quel che non si immagini, e i rischi connessi alla mancata unione postnazionale sono ben più gravi. Alcuni effetti patologici del collasso, della disintegrazione, sono già evidenti in molte regioni. Basti rinviare alla paralisi del sistema politico interno nel contesto italiano, in quello francese, ma anche, per motivi in parte diversi, in quello spagnolo e in quello inglese. Le ricadute, poi, sull’Unione europea sono sotto gli occhi di tutti. Palese è soprattutto questo: che non è formale la frattura con il progetto sancito dai Trattati di Roma dopo la seconda guerra mondiale. Al contrario, in questione è ormai proprio la continuità.

L’effetto dirompente è anzitutto quello del nazionalismo. Nulla di nuovo, si vorrebbe dire. Non è forse sempre esistita una vena nazionalistica che, almeno nascostamente, sotto traccia, non ha mai smesso di scorrere nella cavità abissale, nelle viscere dell’Europa? Se questo è innegabile, è pur vero che riaffiorando alla superficie, il nazionalismo assume aspetti inediti. Già solo perché non si limita a essere reattivo, ma è invece attivo; non si accontenta di conservare i privilegi consolidati, ma è esplicitamente antieuropeo. Il nuovo na-zionalismo, di stampo sovranista, cerca di mobilitare i “propri cittadini” contro l’Europa denunciata come matrigna. In breve: l’unione monetaria, intesa come ordine economico improntato alla competizione, se ha provocato la guerra di tutti contro tutti, favorendo il potere dei più forti, ha d’altra parte scatenato un nuovo diffuso nazionalismo.

Si lega a questo un altro effetto patologico. Negli ultimi mesi si è parlato molto di risentimento, odio, rabbia. Hanno avuto la meglio idee regressive, parole d’ordine crude, spietate, argomenti grossolani, semplificazioni fuorvianti e pericolose. I partiti di estrema destra sono riusciti a instillare questo veleno goccia per goccia nel linguag-gio quotidiano, additando il nemico nell’Europa e facendo dell’immigrato il capro espiatorio di tutto il malessere. È mancata una contronarrazione. Anzi c’è stata una capitolazione anzitempo, un dare ragione, un fare l’occhiolino, una maldestra e ipocrita complicità. Come si può infatti pretendere da un canto di combattere la xenofobia e il criptorazzismo, dall’altro perseguire una politica che abbandona gli immigrati alla loro sorte nei campi libici, che dà la caccia ai cosiddetti “clandestini”, che nega persino la cittadinanza per ius culturae ai figli della seconda generazione? Non solo l’immagine negativa dell’immigrato non è stata contestata, rovesciata, ma non pochi di questi temi hanno fatto breccia nel sovranismo di sinistra, non necessariamente distinto da quello di destra, certo convergente. A proposito di questo secondo effetto si può allora parlare di brutalizzazione della società europea con esiti devastanti sia sulle istituzioni sovranazionali sia su quelle nazionali. Rompendo una sorta di tabù, una cautela dettata dal timore di essere fondata, qualcuno già si chiede se non si sia già entrati in una fase pretotalitaria. Se ogni interpretazione è azzardata, la domanda resta.

La globalizzazione ha lasciato dietro di sé schiere di vinti e rafforzato gruppi ristretti di vincitori. Anziché attenuarsi, le diseguaglianze si sono raddoppiate distribuendosi in modo diseguale: classe, genere, etnia, generazione, ubicazione geopolitica. Gestita secondo i dogmi neoliberali la crisi, assurta a economia del debito, ha acuito le disparità che non riguardano solo reddito e benessere, ma anche forma-zione, opportunità, riconoscimento sociale. In Europa non solo è stato smantellato quello Stato sociale che avrebbe dovuto costituirne il cardine imprescindibile, il pendant della moneta unica, ma le divergenze – anche tra paesi – sono state quasi istituzionalizzate. È così che, secondo un paradigma nazionale, per molti versi nazio-nalistico, in cui i conflitti appaiono più facilmente risolvibili, si è sviluppato, anche nelle socialdemocrazie, lo Stato provvidenziale o Stato-Provvidenza, al cui interno quelle classi, che dovrebbero essere in lotta, si considerano membri di un equipaggio imbarcato sulla stessa galera.

Si capisce allora perché la frontiera, semisacralizzata ed esibita in modo quasi plateale, è divenuta barriera fra cittadini e migranti. Il che non ha impedito il dispositivo dell’immigra-zione che da un canto attrae, dall’altro respinge: le barriere si sollevano per far entrare la “mano-dopera straniera” richiesta, si chiudono per as-secondare le misure repressive dirette alla “lotta contro l’immigrazione clandestina”. L’inclusione è allo stesso tempo esclusione. E il migrante è sempre voluto, ma non benvenuto – richiesto come lavoratore, ma indesiderato come straniero. Senza assumersi alcuna responsabilità per le vite delle persone, la governance dei “flussi” filtra, sceglie, seleziona. Il potere si esercita su corpi docili, ammessi temporaneamente, e poi espulsi. Il dispositivo di immigrazione appare allora una forma del più ampio dispositivo di flessibilità imposto dal mercato. In tal senso è inutile, anzi nociva, ogni narrazione economicistica e utilitaristica dell’emigrazione che, oltre a non convincere, giustifica e legittima questo dispositivo.

L’Europa va difesa, non però nel segno della conservazione, bensì in quello della trasformazione. Non solo perché mutate sono le condizioni geoeconomiche e geopolitiche, ma perché quel progetto deve essere rilanciato in nome della giustizia sociale, della solidarietà, dell’ospitalità. Il nuovo “patto” tra i cittadini e l’Europa non può prescindere dai migranti e non può perciò non essere inclusivo.

Si pone a questo punto la questione della sinistra, via d’uscita dall’impasse tra l’austerità del liberismo e la mobilitazione politico-ideologica dell’odio. Di quest’ultima non sono stati captati in tempo i segnali. Ha avuto così inizio l’ascesa dei movimenti populistici che hanno guadagnato voti facendo leva su animosità e livore. Ci sono buoni motivi per ritenere che andranno sgretolandosi per superbia e presunzione, per mancanza di preparazione e di professionalità politica, per quei chimerici programmi con cui lasciano fantasticare gli ingenui che sia possibile negare la globalizzazione nella sua complessità.

Essere di sinistra oggi vuol dire opporsi con fermezza alle semplificazioni fuorvianti. Mantenere la bussola: non inseguire quelle politiche di sicurezza che sono culturalmente di destra e rafforzano la destra, ma neppure lasciarsi dirottare dal sovranismo. L’impasse in cui si dibatte l’Europa emerge con chiarezza nella si-nistra, la squarcia tra una sinistra neoliberale e una sinistra sovranista. Anche a proposito di quest’ultima sarebbe lecito parlare – come qual-cuno comincia a fare – di tradimento.

La sinistra sovranista è quella che, inseguendo pericolose nostalgie identitarie, proclama i cit-tadini arbitri indiscussi, sovrani assoluti, è quella che, ostile alla mobilità del capitale, finisce per essere ostile anche alla circolazione di esseri umani e idee, nella certezza che il welfare sia possibile solo entro i confini chiusi dello Stato-nazione. Questa sinistra, che chiede apertamente l’abbandono dei migranti alla loro sorte, che si fa beffe delle organizzazioni umanitarie, che sposa il mito dell’autoctonia, il campanilismo della proprietà, il revanscismo piccolo-borghese, asseconda la grammatica immunitaria dell’odio: da una parte “noi”, dall’altra i “non-noi”, oscuri e mostruosi, ripugnanti e detestabili, colpevoli del nostro malessere. Questa sinistra, che spalanca le porte alla destra, non è sinistra, ma solo una deriva patriottica, un misero controcanto della destra reazionaria, che si declina non di rado in un sovranismo xenofobo. Sulla coscienza ha in parte la guerra in corso tra poveri e migranti. Tradimento: perché rinuncia alla vocazione della sinistra, quella dell’Internazionale. Come se proprio la globalizzazione non richiede di pensare una giustizia sociale che non si arresta alle frontiere. Proprio perché ci sono vincitori e vinti, non si può difendere nazionalisticamente solo un gruppo di vinti. Tanto più oggi, per via della globalizzazione, non è immaginabile una giustizia sociale confinata allo Stato-nazione. Non si può aggirare il tema della “responsabilità globale”: non vedere gli effetti delle proprie azioni non rende innocenti. Come non è lecito usufruire a cuor leggero di beni a basso prezzo che sono costati lo sfruttamento disumano, se non la vita altrui, così non si possono chiudere gli occhi sulla vendita d’armi e sui traffici compiuti più o meno sottobanco dalla propria nazione. L’interdipendenza della società planetaria richiede semmai un sovrappiù di responsabilità. La brutalizzazione della società europea nasce dalla rabbia. Si potrebbe in tal senso parlare di sovranismo della rabbia. Emozione eminentemente politica, connessa da sempre con la giustizia, la rabbia può essere risvegliata, fomentata, oppure può essere innalzata a progetto, può essere violenta e bruciare ciecamente ogni suo potenziale di rivolta, oppure può essere trattenuta in una tensione che sa oggi come preparare il domani. Per questo non basta tacitare l’amarezza; occorre anche risvegliare la speranza. La giusta rabbia del popolo oggi non trova più direzione. Gira a vuoto; esplode per l’egoistica sovranità ferita, si dissipa senza essere opposizione. Non passa da emozione intima a progetto politico. È sovranismo e non comunismo della rabbia. La frattura tra rabbia e visione politica rappresenta la crisi della sinistra, chiamata di nuovo a educare questa emozione per poter aspirare a una visione comune. Non si può ricostruire senza democratizzare. Il che è indispensabile se si guarda all’impasse dell’Europa, al naufragio della forma politica postnazionale. Piuttosto che elucubrare su formule giuridiche e metagiuridiche, come purtroppo si è fatto per troppo tempo – anche per responsabilità dei filosofi – occorre invece lavorare sulle condizioni politiche. Almeno due grandi questioni si aprono qui: quella della democrazia e quella della costituzione del démos europeo. Il disagio della democrazia è sotto gli occhi di tutti. Sempre più svuotata, ha finito per ridursi a strumento di governo, in un libero contrattare dove i più deboli non mai prevalgono. Così la democrazia è diventata sempre più formale, sempre meno politica, da un canto gioco di dispositivo statale, dall’altro resoconto ininterrotto volto a sublimare il corpo del popolo nella totalità dell’opinione pubblica. Il che è in linea con una politica intesa come governance amministrativa e ridotta a gestione poliziesca. Al disagio della democrazia, che ha suscitato rancore e risentimento, ha contribuito la crisi della sinistra. Perché se la destra, conservatrice o liberale, ridimensiona la politica, la sinistra crede nel ruolo della politica nel suo senso più ampio e profondo. La globalizzazzione ha aperto un nuovo capitolo mostrando l’inadeguatezza delle democrazie nazionali incapaci di affrontare le questioni che trascendono ormai i singoli Stati. Le comunità politiche non costituiscono più mondi discreti, perché sono attraversate da dinamiche diverse e da istanze sovranazionali. Il predominio dell’economia sulla politica ha sancito l’inizio della tecnocrazia a cui fa da contraltare il populismo. Si pone allora il problema di una scelta decisiva che investe la democrazia, ma che si apre anche a un nuovo spazio politico transnazionale. Una leadership europeista non può non agire qui. C’è chi ancora lamenta l’assenza di un démos europeo, deplora la mancanza di un’identità culturale, se non addirittura etnica. Ma la cultura non è proprietà identitaria. E inoltre démos ed éthnos non vanno confusi. L’equazione deleteria tra popolo ed etnia non fa tuttavia parte né del concetto di democrazia né di quello di cittadinanza politica. Non si capisce infatti perché una comunità debba essere retta da una discendenza genetica piuttosto che dalla partecipazione dei cittadini che esercitano i loro diritti. In tal senso la vera sfida della democrazia europea è quella della coabitazione. Il démos europeo può costituirsi in quei movimenti democratici che vanno ovunque dispiegandosi dal basso, purché la democratizzazione sia intesa come un processo aperto, non ripiegato su di sé. Altrimenti i rischi di regressione non sarebbero pochi. Terra di confine, l’Europa, quella semipenisola asiatica, indicava anticamente una direzione. E orizzonte resta, orizzonte di una comunità dissociata dalla nazione, dalla nascita, dalla filiazione, memore dei crimini perpetrati in nome del sangue, delle guerre sferrate in nome del suolo, consapevole dell’esilio, aperta all’ospitalità, capace di dar luogo a forme politiche dove l’immune lascia la precedenza al comune.