Il voto di giugno ci ha consegnato un quadro molto problematico dello stato dell’Unione europea. Un quadro nel quale è complicato individuare un’unica chiave di lettura per l’intero continente. Colpisce la percentuale molto bassa di votanti, così come il dominio di logiche nazionali. E nell’insieme si ha l’impressione che il processo di integrazione europea sia scontando una difficoltà evidente, che renderà particolarmente impegnativo il compito del prossimo parlamento di Strasburgo: essere il luogo nel quale il processo di integrazione si realizza attraverso l’azione di soggetti politici continentali, rendere più leggibile il sistema politico europeo non più come semplice sommatoria di realtà nazionali ma come contesto rappresentativo dell’insieme dell’opinione pubblica europea.
Quale significato attribuire ai risultati delle elezioni europee del 2004 all’interno della recente storia elettorale italiana? Per rispondere a questa domanda è necessario tenere conto di tre aspetti della dinamica elettorale che insieme concorrono a formare il risultato, ovvero: le regole del sistema elettorale e il carattere della competizione, l’offerta politica e il modo di comunicarla e, infine, la risposta degli elettori.
È innanzitutto necessario rimarcare che le differenze nelle modalità concreta di strutturazione dell’evento elettorale in ogni Stato europeo non solo influenzano gli esiti delle singole elezioni nazionali, rendendoli comparabili solo in modo sui generis, ma sono una ulteriore riprova di quanta poca unitarietà e omogeneità vi sia nell’espressione, quantomai enfatica, di «elezioni per il parlamento europeo».
Fino alla caduta del Muro di Berlino la relazione transatlantica era stata fuori discussione. La guerra (fredda) comune contro un comune nemico era il più solido dei legami fra le due sponde dell’Oceano. L’Europa, e in Europa la Germania, erano il cuore e il teatro della guerra. Era quindi tanto essenziale quanto ovvio per l’Europa mantenersi fermamente vicina agli Stati Uniti, così come lo era per gli Stati Uniti concentrare attenzione e risorse sugli alleati europei.
In quasi tutta la seconda metà del Ventesimo secolo per l’Europa non è stato di importanza fondamentale quale fosse il partito politico che occupava la Casa Bianca. Quella dei rapporti con l’Europa è stata sempre un’area di politica estera caratterizzata da un atteggiamento bipartisan. Oggi non è più così. Il futuro delle relazioni transatlantiche e della politica statunitense nei confronti dell’Europa dipende in notevole misura da chi si insedierà alla Casa Bianca a gennaio.
Le relazioni tra Europa e Stati Uniti hanno vissuto di recente una stagione di gravi turbolenze. La crisi irachena ha segnato l’apice di una vera e propria crisi il cui momento peggiore è oggi senza dubbio superato, ma le cui ferite non si sono completamente rimarginate. Anche le nostre relazioni economiche (dal fiasco di Cancùn ai vari contenziosi commerciali) in questi ultimi anni sono andate progressivamente degradandosi dopo il lancio della «Nuova agenda transatlantica» nel 1995.
La scuola italiana – rimasta per decenni uguale a se stessa, almeno dal punto di vista degli ordinamenti – sta attraversando un periodo di grandi trasformazioni. Al di là della propaganda, e degli stanchi luoghi comuni di un’opinione pubblica non abituata a discutere del mutamento sociale con serenità, si tratta di trasformazioni in buona misura inevitabili, e dovute alla nuova configurazione del contesto in cui opera la scuola. In parte queste trasformazioni, così come le loro cause, sono comuni a tutti i paesi europei; ma il caso italiano è diverso per una serie di ragioni, che vanno dalla maggiore rigidità originaria del sistema scolastico, alla maggiore dispersione (non si ripeterà mai abbastanza che il 30% dei nostri giovani lascia gli studi senza aver conseguito una qualifica), alla maggiore iniquità sociale (da un secolo circa il rapporto tra titoli di studio dei genitori e titoli di studio dei figli è rimasto pressoché invariato).
Ritengo molto importante, a distanza oramai di più di tre anni dall’insediamento del governo Berlusconi, che in diverse forme riparta anche a sinistra il dibattito sul futuro della scuola. Anche la più radicale opposizione alla legge Moratti non può infatti esimere più nessuno dal cominciare a dire di quale scuola abbia bisogno il paese.
Il ministro Letizia Moratti, intervenendo al secondo congresso di Forza Italia svoltosi ad Assago alla fine di maggio, ha imputato ai precedenti governi la responsabilità del degrado della scuola italiana e dei ritardi accumulati rispetto ai partner europei e mondiali più sviluppati. Al di là dell’ovvia considerazione secondo cui, in questa chiamata di correità sono evidentemente coinvolti, non solo i due o tre ministri che l’hanno immediatamente preceduta, ma anche i governi che per molti lustri hanno presumibilmente beneficiato del voto e dell’apprezzamento di molti degli attuali esponenti della Casa delle Libertà, c’è un altro punto che non può essere taciuto.
La prima sostanziale alternativa che hanno davanti a sé l’economia e la società della conoscenza è quella di pensarsi come un mondo in cui viene valorizzato il sapere di pochi, rassegnandosi alla precarizzazione o alla dequalificazione del lavoro dei più, con un’idea di trasmissione del sapere che si limiti a rivisitare la vecchia segmentazione della formazione dell’età tayloristica. Oppure quella di pensarsi come capaci di valorizzare il sapere che c’è nel lavoro di tutti, promuovendo quindi un approccio alla formazione che valorizzi le diverse intelligenze dei bambini, degli adolescenti, dei giovani, degli adulti. Stiamo, non solo per motivi di equità sociale, sulla seconda sponda.
Si prova un qualche imbarazzo a intervenire nella discussione su scuola, università e ricerca accettando le modalità del dibattito in corso. Se una cosa dobbiamo a queste tematiche, infatti, è di affrontarle in modo serio e rigoroso, con la stessa serietà e rigore che richiede la ricerca scientifica. I docenti e i ricercatori della Facoltà di Filosofia dell’Università di Roma «La Sapienza», già in un documento del febbraio 2002, coglievano in modo significativo i tratti della crisi che negli anni successivi è andata aggravandosi.
La legge delega del ministro Moratti «per la definizione di norme generali sull’istruzione e di livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e di formazione professionale», approvata dal parlamento il 12 marzo 2003, disegna un progetto di scuola caratterizzato da luci e ombre, da potenzialità e limiti sia interni che esterni. In questa prospettiva qui mi soffermerò unicamente a presentare e valutare quella che ritengo essere l’unica vera novità della riforma, ovvero l’introduzione del cosiddetto secondo canale. Concluderò evidenziando la necessità di andare oltre la scuola delle «3 i» per una visione del sistema educativo più ampia e globale.
Due sono le metropoli della democrazia moderna e contemporanea, se si vuole della «prima» e della «seconda modernità»: l’Europa, specie occidentale, e l’America del Nord, soprattutto con gli Stati Uniti. Orbene, se in questo avvio di Terzo millennio (ma l’osservazione può prendere già le mosse dall’ultimo quindicennio del secolo scorso) si parla ormai con insistenza di crisi della democrazia, due sfide culturali e strutturali vanno fondamentalmente messe nel conto per valutare il presente e soprattutto l’avvenire di tale tipo di reggimento politico.
Durante i mesi che hanno preceduto e accompagnato la guerra in Iraq, e ancor più nel turbolento «dopoguerra» che si è sviluppato a partire dalla caduta del dispotico regime di Saddam Hussein, il dibattito intorno alla possibilità di esportare la democrazia è stato particolarmente acceso. Un fronte assai composito di intellettuali ha sostenuto che fosse implausibile l’idea di imporre manu militari la democrazia a un popolo che non ne aveva mai potuto godere. Che difficilmente istituzioni democratiche paracadutate dall’alto avrebbero potuto radicarsi in assenza di una pregressa cultura democratica.
C’è una crisi della democrazia o, meglio, delle democrazie? È singolare che quest’interrogativo torni a circolare proprio oggi, quando impressionante – in tutti i continenti – risulta l’estensione o l’allargamento della democrazia a regimi precedentemente non democratici. E quando dappertutto si proclama l’universalità dei principi democratici tanto da invo carne l’esportabilità, anche con i mezzi della guerra. Ma l’interrogativo si riferisce, naturalmente, alle democrazie consolidate del primo e del secondo mondo, e riguarda specificamente la qualità della loro vita democratica interna, ossia la distanza che corre tra i principi e le realizzazioni pratiche.
La sinistra italiana non può eludere il tema del ruolo da dare alle organizzazioni di interesse all’interno del quadro istituzionale. Può affrontarlo negandolo (ma deve farlo in modo esplicito), se propende per una via liberale e universalistica che si esprima in un libero gioco di rapporti di forza e senza commistione di ruoli e interferenze tra potere decisionale e interessi coinvolti nelle decisioni; una via il cui fine ultimo sia il perseguimento di una società aperta e l’arretramento delle tendenze corporative.
Al di là della frettolosa frenata che ha subito, il tentativo di accelerazione in chiave elettorale dell’attuazione della delega fiscale, in particolare per la parte riguardante l’imposta sui redditi personali, va presa sul serio sia perché conferma l’irresponsabilità dell’attuale governo nella gestione della finanza pubblica sia perché punta a realizzare una torsione dell’assetto redistributivo del paese dalle conseguenze potenzialmente devastanti.
Senza grande clamore, la par condicio politica sulle radio e televisioni locali è cambiata. Eccome. Le disposizioni che l’Autorità per le comunicazioni si trova a fare osservare in occasione delle consultazioni europee e amministrative del 2004 non sono le stesse applicate nelle precedenti campagne elettorali. La legge n. 313 del 2003 ha, infatti, modificato la legge n. 28 del 2000, introducendo un diverso regime in materia di comunicazione politica e di parità di accesso ai mezzi di informazione per le trasmissioni di quelle emittenti che esercitano la radiodiffusione in ambito locale.
Le vicissitudini della Costituzione europea confermano che il sistema di voto del Consiglio è uno dei temi più scottanti di cui si possa discutere a livello comunitario. Non più tardi di alcuni anni fa, i capi di Stato e di governo e i ministri degli esteri dei quindici si erano confrontati in dibattiti estenuanti per arrivare alla criticatissima riponderazione dei voti di Nizza. A dicembre dello scorso anno, il braccio di ferro sulla doppia maggioranza ha portato il dibattito in Consiglio europeo a una situazione di stallo. E ancora oggi, mentre queste pagine vanno in stampa, il sistema di voto rimane uno dei principali nodi della Conferenza intergovernativa che dovrebbe approvare il «Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa».
Le attuali condizioni del sistema delle relazioni internazionali, e in particolare di quelle tra le due rive dell’Atlantico, rendono necessario approfondire le motivazioni che sembrano ispirare la politica degli Stati Uniti d’America sotto l’Amministrazione di George W.Bush. E, si badi, quest’esigenza sussiste indipendentemente dalla vicenda dell’Iraq, dal momento che il problema della nuova politica americana continuerà a porsi quale che sia l’esito del prolungato dopoguerra e anche della stessa guerra al terrorismo.
La figura di Enrico Berlinguer continua a essere oggetto di memoria viva, di polemica pubblicistica, di controversie politiche, mentre un’autentica riflessione storiografica stenta a prendere forma. La conseguenza è che le coordinate della discussione che si svolge oggi attorno al suo ruolo e alla sua eredità si presentano il più delle volte in una piatta continuità con i termini del dibattito politico dell’epoca. Così Berlinguer ha tuttora un suo partito di detrattori, che lo indica come un comunista mai davvero emancipatosi dalla lealtà verso l’«impero del male» sovietico e come un moralista fondamentalmente estraneo e ostile alla modernità italiana, e un suo partito di difensori, che lo vede come il leader che disincagliò il comunismo italiano dalle secche del comunismo internazionale e come uno dei pochi, se non il solo uomo politico italiano del suo tempo in possesso di una nozione della politica fondata su motivazioni etiche.
Ripensare Berlinguer, evitando una facile utilizzazione del suo ricordo per una polemica, in un senso o nell’altro, sulle vicende politiche dell’oggi. Tra le cose assodate, per tutti, è che Berlinguer fu un leader di straordinaria statura: etica e intellettuale. Con la tempra di un padre della Repubblica. In questo senso sono bellissime le parole con cui Mario Tronti conclude il suo libro «Il Principe disarmato»: «È difficile parlare di Berlinguer, senza nostalgia. Sì, lo so, c’è il pericolo di idealizzare il personaggio, di immaginare l’isola che non c’è, di vedere solo luci senza ombre. Ma è un peccato veniale che ci deve essere concesso.
Se c’è qualcosa che è veramente cambiato a New York e su cui nessuno pone mai l’accento, si tratta delle hall dei grandi alberghi. Guardate cosa è divenuto il Plaza. Prima si poteva entrare e comprare il giornale e passare un po’ di tempo a leggere fumando una sigaretta, guardando il panorama umano maschile e femminile che passava dinanzi a voi e che veniva da ogni parte del globo terracqueo e soprattutto dalla provincia nordamericana. Uno spettacolo che potevate godervi senza che nessuno vi disturbasse. Questo era fantastico nelle serate d’inverno, quando non trovavate taxi e potevate passare un po’ di tempo al riparo dalle intemperie e poi godere dei servizi – i taxi, appunto – della concergie.
Probabilmente la migliore delle definizioni è quella che ci rimanda alla figura di un prestigioso e grande intellettuale europeo riformista, nel senso più alto e profondo del termine. Un uomo di cultura cosmopolita, conosciuto in tutto il mondo e, al tempo stesso, profondamente francese. Il quale vive nella capitale di una nazione la cui sinistra palesa ancora, per immarcescibili ragioni storiche, non poche difficoltà e resistenze a riconoscere la piena dignità della visione politica cui si ispira la rivista che ci ospita e del cui comitato editoriale Rosanvallon rappresenta un autorevole membro.