“L’orizzonte del lavoro”. Dialogo tra Maurizio Landini e Massimo D’Alema

Martedì 28 Gennaio 2020 09:59 Stampa

Massimo D’Alema La ricostruzione sociale nei paesi democratici dopo la seconda guerra mondiale, in Italia come in molte altre realtà, si è fon­data largamente sul contributo dato dal mondo del lavoro e sull’azione delle organizzazioni che lo rappresentavano. Alla base dei sistemi demo­cratici europei vi era un patto sociale che aveva nel lavoro un elemento centrale. Non a caso la Costituzione italiana afferma che la Repubblica è fondata sul lavoro, esplicitando un nesso indissolubile tra lavoro e demo­crazia che veniva riconosciuto e rispettato non solo dalle forze politiche di sinistra, ma da tutti i partiti dell’arco costituzionale. Lo stretto legame tra lavoro e democrazia, peraltro, era incarnato da un movimento sinda­cale che aveva i tratti di una forza generale. Il sindacato rappresentava sì gli interessi dei lavoratori ma era anche un soggetto di primo piano della vita politica del paese.

Oggi la situazione è molto cambiata. La centralità del lavoro è venuta meno, ed è entrato in crisi non soltanto il rapporto tra sinistra e mondo del lavoro, ma, in termini più generali, anche quello tra lavoro e politica. Che cosa è successo? Cosa è accaduto nella lunga fase seguita alla caduta del muro di Berlino, quando con la globalizzazione e la trasformazione del lavoro questo nesso si è spezzato e il mondo del lavoro si è trovato a essere una forza divisa, non più in grado di esercitare una egemonia?

Maurizio Landini Il compromesso sociale che si è realizzato in Italia e in Europa era un compromesso tra lavoro e impresa in cui varie culture democratiche, non solo quelle di sinistra, riconoscevano nel lavoro, che era “lavoro con diritti”, la modalità attraverso la quale le persone potevano realizzarsi e partecipare come cittadini alla vita democratica del paese. La condivisione dei principi di questo com­promesso sociale consentiva che anche sul piano politico, oltre che su quello sindacale, fosse considerato possibile, normale, anzi giusto che la politica imponesse dei vincoli al mercato. Su questo principio, del resto, si fondava lo Stato sociale. Credo che nella negazione del pote­re dello Stato di imporre vincoli al mercato si possa rintracciare uno dei principali punti di rottura del sistema fondato sulla centralità del lavoro e che il momento in cui questa frattura si è prodotta possa essere individuato nell’inizio degli anni Ottanta. Il 1980 mi sembra un momento di passaggio importante anche sul piano simbolico, nel quale si intrecciano vicende nazionali, come la sconfitta del movi­mento operaio alla Fiat, con, ad esempio, la decisione di Reagan di rimpiazzare i controllori di volo civili in sciopero con quelli militari. Solo pochi mesi prima era diventata primo ministro del Regno Uni­to Margaret Thatcher, portatrice dell’idea che la società non esiste e che esistono solo gli individui.

Penso che in quegli anni ci sia stato un ritardo, sia sul fronte poli­tico che su quello sindacale, nel capire la trasformazione profonda che stava avvenendo: i casi ricordati, come molti altri analoghi, non erano episodi locali, ma parte di una più generale reazione agli ef­fetti che il compromesso sociale del dopoguerra stava determinando in termini di crescita, di cambiamento della struttura produttiva ed economica, in merito al ruolo del lavoro nella società. Allora abbia­mo sbagliato a non capire che quello era il modo in cui il capitali­smo, in particolare quello di stampo anglosassone, che poi avrebbe prevalso, si stava riorganizzando. L’inizio degli anni Ottanta ha visto realizzarsi un cambiamento nelle condizioni di lavoro e dei diritti dei lavoratori che ha segnato da un lato l’avvio di una “restaurazione” del capitale, dall’altro una trasformazione dal capitalismo industriale al capitalismo finanziario che si è rivelata chiaramente in seguito al processo di globalizzazione. Sia la sinistra sia le organizzazioni sindacali hanno capito con ritardo quello che stava succedendo, e mentre il capitale si finanziarizzava e si globalizzava, entrambe continuavano a utilizzare chiavi interpretative e strumenti d’azione validi per una di­mensione locale. Sicuramente non furono globalizzati i diritti; si aprì anzi una competizione al ribasso tra quei lavoratori che, lottando, avevano conquistato diritti e gli altri, che non ne avevano affatto. Il processo di precarizzazione del lavoro è iniziato allora, quando l’idea della competizione del lavoro è diventata una delle condizioni es­senziali, un elemento costitutivo di quel nuovo modello di sviluppo. Contemporaneamente si affermava anche l’idea che tutto ciò che è pubblico e che rappresenta un vincolo sociale all’azione economica sia negativo in sé. Ha prevalso la concezione che sia giusto lasciare il mercato libero da ogni condizionamento. È così, con l’affermarsi del modello culturale neoliberista incarnato in questi principi, che il lavoro ha perso il suo ruolo egemonico.

M. D’A. Individuato il punto di rottura, sia sotto il profilo cronologico sia nelle caratteristiche della trasformazione avvenuta – ci troviamo di fronte a un cambiamento della struttura del capitalismo e al fatto che il capitalismo globale riduce il lavoro a una variabile dipendente, a mera merce, per giunta svalutata – occorre interrogarsi sui tratti dell’azio­ne politica successiva. Di fronte a questi cambiamenti la sinistra, negli anni Novanta, ha provato a individuare gli elementi di opportunità che emergevano, per cogliere i quali occorreva cambiare il modello di Stato sociale e puntare sul welfare delle opportunità. Vi erano certamente dei limiti in questo approccio, ma anche alcuni elementi innovativi. Non credo sia sbagliato dire che questa grande trasformazione abbia portato anche delle possibilità di miglioramento che però, per essere colte, ri­chiedevano più formazione, più flessibilità e un sistema di protezione diverso. Queste opportunità sono state effettivamente colte, ma solo da una minoranza. Si è in realtà determinata una frattura orizzontale nel­la società e nel mondo del lavoro tra chi si è posto sulla cresta dell’onda della globalizzazione e chi, per diverse ragioni, rischiava e rischia tuttora di venirne schiacciato. C’è un’ampia parte della società che vive questa grande trasformazione con crescente timore, con quel senso di precarietà che è applicabile non solo alla sfera lavorativa: è una precarietà di vita.

Mentre nel periodo d’oro del dopoguerra in qualche modo il lavoro era una certezza che garantiva stabilità, consentiva di realizzarsi come per­sona e di costruirsi una famiglia, oggi l’incertezza del lavoro determina una precarizzazione della vita, genera paura e una domanda di prote­zione a cui tanto la politica quanto il sindacato non sono più in grado di rispondere. L’idea del welfare delle opportunità, se aveva dei tratti positivi, aveva però il grande limite di parlare solo alle élite, senza tenere in conto le esigenze della parte più ampia e debole della società. E non è un caso che quelle élite continuino ancora oggi a votare per la sinistra, che si è però ristretta in esse, raccogliendo consensi nelle aree urbane più grandi e nelle fasce più alte del mondo del lavoro. Credo che la frattura abbia cominciato a prodursi nel momento in cui la sinistra ha sposato una visione acritica della globalizzazione.

M. L. Oltre agli effetti drammatici della precarizzazione del lavoro sui progetti di vita, alla svalorizzazione del lavoro che ciò ha prodot­to e al processo di polarizzazione sociale che si è innescato, c’è un altro aspetto che da un punto di vista sociale e politico mi sembra rilevante. Si sono infatti rotti quei legami sociali e di solidarietà alla base dell’idea che solo insieme si potessero affrontare i problemi. Alla solidarietà si è sostituita l’ostilità verso chi, come te, ha bisogno di lavorare per vivere ma, in un mercato del lavoro ferocemente compe­titivo, è diventato tuo diretto concorrente. Da ciò deriva non solo la paura degli immigrati, ma anche l’ostilità tra lavoratori italiani con contratti diversi: chi è assunto a partita IVA, ad esempio, considera il lavoratore dipendente un privilegiato mentre quest’ultimo, che non si sente privilegiato perché arriva a stento alla fine del mese, avverte il lavoratore a partita IVA come una minaccia che può portargli via il lavoro. Come si esce, sia dal punto di vista sindacale sia da quello po­litico, dalla subalternità a questo modello ferocemente competitivo? Oggi mi sembra siano maturi i tempi per affrontare questa sfida. An­che chi teorizzava la giustezza di un sistema di libertà assoluta denun­cia le contraddizioni che quel modello ha generato e che rischiano di far saltare l’intero sistema. Penso si sia aperto uno spazio d’azione.

M. D’A. La rivolta antiliberista e antiglobalista, del resto, viene in gran parte da destra, da quegli stessi centri che avevano esaltato la vittoria del capitalismo globale.

M. L. Purtroppo, però, questa reazione, invece di andare nel senso di una maggiore democrazia, di invocare una maggiore centralità dei diritti delle persone, del lavoro e della sua qualità, pensa di lasciare il modello economico sostanzialmente inalterato, imponendo però una torsione autoritaria, addirittura riducendo gli spazi di demo­crazia. Manca completamente una riflessione sul tema dell’emanci­pazione del lavoro e dell’aumento degli spazi di democrazia, anche economica. Questo credo sia uno dei punti su cui occorre soffermar­si quando si dice di voler ripartire dal lavoro. Perché penso che oggi questa riflessione sia più urgente che mai? Perché siamo di fronte a interrogativi che toccano in termini generali il senso di ciò che facciamo e il modo in cui lo facciamo: interrogativi che riguardano il futuro del mondo. Se non cambiamo il modello di produzione, i prodotti, gli stili di vita, rischiamo di mettere in pericolo il futuro del pianeta. Una richiesta di trasformazione così rilevante e così ra­dicale del paradigma di produzione non mi sembra si sia mai posta in passato.

Altro tema di riflessione, che a questo si affianca, è quello che riguarda la libertà nel lavoro e i modelli organizzativi che determinano il funzio­namento dei luoghi di lavoro: una questione che non è solo di natura sindacale ma che diventa un elemento di strategia politica. Se ci soffer­miamo a riflettere sulle tre grandi questioni che riguardano oggi il mon­do del lavoro – impatto della tecnologia digitale, questione ambientale e climatica, differenze di genere – appare evidente che occorre porsi in modo nuovo, anche dal punto di vista politico, non solo sindacale, il problema della libertà nel lavoro e quindi della realizzazione delle perso­ne nel lavoro, fino a mettere in discussione il diritto di proprietà che chi gestisce un’impresa ha sull’attività lavorativa. Se non si pone questa come questione centrale nella ricostruzione della rappresentanza del lavoro e di un progetto di cambiamento temo ci sia il rischio di ricadere nell’errore che ci ha portato, anche quando la sinistra era al governo, a pensare che il modello di organizzazione e di funzionamento dell’impresa e quindi della società fosse quello in azione e che non fossero possibili alternative. Al massimo si poteva pensare di ridurre il danno.

M. D’A. Concordo nel dire che il punto centrale oggi riguardi, come di­ceva già decenni fa Enrico Berlinguer, ciò che si produce, come si produ­ce, e quindi anche l’organizzazione della vita, la struttura dei consumi ecc. Bisogna però evitare di pensare che l’urgenza di questo cambiamento sia avvertita unanimemente. Chi crede che questo cambiamento sia ne­cessario tutto sommato trova già, nel campo progressista, se non le risposte certamente una diffusa consapevolezza dell’urgenza della sfida. C’è però un mondo che invece è legato a bisogni molto più primordiali, a cui poco importa se le fabbriche inquinano. Più importante è se le fabbriche chiudono e se questo li priva del salario. È un mondo che chiede prote­zione, e lo fa in modo rancoroso. Un mondo che quando sente parlare di ambiente, di uguaglianza di genere, di solidarietà verso i migranti, pensa che siano questioni per intellettuali rompiscatole. Crede invece che il suo problema sia quello di avere la certezza del reddito. Questa parte del mondo del lavoro si limita a difendere quel poco che le rimane, senza interrogarsi in modo ampio sul senso delle sue azioni e della sua attività e sul contributo che può dare alla costruzione di un futuro diverso. Per questo o non va a votare o vota per una destra che propone soluzioni semplici quanto illusorie: chiudere i confini, introdurre dazi. Una rispo­sta illusoria e brutale, dal forte contenuto autoritario, che però appare in grado di offrire quella protezione che da parte nostra non abbiamo saputo garantire.

M. L. Una protezione che in realtà è venuta meno in conseguen­za dei tanti provvedimenti che in tutta Europa, a partire dagli anni Novanta, un pezzo alla volta, hanno smantellato la rete di garanzie fornita dallo Stato sociale. Credo che, senza invocare il ritorno alle regole e ai diritti degli anni Settanta, si debba ricostruire un sistema di protezione e di diritti che le persone percepiscano a loro tutela. È questo l’unico modo di ricostruire i legami sociali che si sono inter­rotti. La solidarietà del passato era costruita sulla certezza di avere degli strumenti collettivi che consentivano di affrontare problemi reali: il problema della casa, dell’asilo, della mensa, del lavoro.

Il punto è immaginare come quei traguardi, frutto dell’azione di chi li aveva rivendicati ma strumenti di tutela collettiva, possano essere raggiunti oggi, in un contesto di grandi cambiamenti e di estrema polarizzazione sia dentro il mondo del lavoro, tra lavoratori più ga­rantiti e altri che si sentono maggiormente sfruttati, sia nella realtà delle imprese, interessate anch’esse da un processo di polarizzazione. Nel nostro paese, in particolare, i cosiddetti distretti industriali sono saltati tutti, insieme alla loro rete di legami con il territorio. Se c’è qualcuno che pensa che chiudendosi a riccio nel territorio per di­fendersi da un nemico esterno si risolvano i problemi, io credo, al contrario, che pur nella dimensione globale la costruzione di reti che partono dal territorio sia decisiva. Per stare dentro il quadro globale i legami sociali ed economici che stanno nel territorio sono un punto di forza. Certo, oggi la situazione è particolarmente complessa per­ché sono aumentate anche le differenze territoriali, e mi riferisco non solo a quella classica tra Nord e Sud, che comunque si è accresciuta. Ad essa si aggiungono le differenze tra quel Nord e quel Sud che si ritrovano in ogni parte del paese. Le diseguaglianze territoriali si sono amplificate.

Per ritornare poi alla questione più squisitamente politica, bisogna interrogarsi su come far diventare coscienza generale quella consa­pevolezza che tu dici essere solo in alcune categorie che guardano anche a sinistra. Per farlo ritengo che l’unica via sia quella di parti­re dai bisogni di chi sta male. Perché la persona che sta male, se si sente sola, senza nessuno che le dia delle risposte, non ha motivo di guardare a sinistra. Al contrario, per una parte di chi oggi è precario sono stati proprio i governi che si richiamavano alla sinistra ad aver avviato quel processo di flessibilizzazione del lavoro che ha portato all’esplosione della precarietà. La parola sinistra per molte persone non richiama speranza e opportunità di cambiamento come per tanti di noi: rischia di essere una parte del problema che sta vivendo.

Come fa oggi a ritornare la speranza di un cambiamento? Secondo me ciò può avvenire solo se proviamo a misurarci con i fondamen­tali, sapendo che non ci sono risposte precostituite. Chi si pone l’o­biettivo di governare – un obiettivo necessario perché i cambiamenti si fanno solo governando – deve farsi portatore di una proposta al­ternativa vera; non basta essere semplicemente un po’ più bravi degli altri, capaci di ridurre un po’ il danno ma senza essere in grado di cambiare i processi che hanno generato questa situazione.

M. D’A. Il tema centrale è proprio quello di dare una risposta a un bisogno di protezione, che significa bisogno di poter contare su una deter­minata cornice di diritti in cui ciascuno possa collocare la propria aspet­tativa di futuro in un quadro di ragionevoli certezze. Noi nel passato ci siamo battuti per questo, per i diritti dei lavoratori, per la stabilità dei contratti, per la creazione di un sistema nel quale ognuno potesse costruire la sua vita con relativa serenità, progettare il futuro dei figli. Ora questa necessità è avvertita anche da una parte del sistema delle imprese, soprat­tutto da quelle imprese che per reggere la competizione internazionale devono puntare sulla qualità del lavoro e che quindi avvertono il rischio di confrontarsi con un mondo del lavoro privo di diritti e protezioni. Il welfare aziendale è sostanzialmente una risposta delle imprese ai bisogni dei loro lavoratori attraverso servizi che lo Stato non è più in grado di offrire. Così si costruisce un patto che consente di avere un mondo del lavoro che vive senza angoscia la sua condizione. A muovere le imprese non sono solo la generosità o ragioni di responsabilità sociale; è il biso­gno di garantirsi lavoro qualificato e fidelizzato. Questo è bene per una comunità, ma introduce un ulteriore elemento di frammentazione nel mondo del lavoro.

Per dare una risposta serve che entri in gioco la politica, che venga ri­messo in discussione il rapporto tra Stato e mercato come si è andato de­terminando nel corso degli ultimi decenni. Per certi versi oggi è proprio la destra a rimettere in discussione questo equilibrio, e lo fa riscoprendo lo strumento classico del nazionalismo, in cui la forza dello Stato si pone al servizio del sistema economico nazionale per mettere in campo, nella competizione globale, anche la forza politico-militare degli Stati. È, ad esempio, quello che sta facendo Trump con la politica dei dazi: un’azione carica di rischi, che amplifica i conflitti. Anche i cinesi danno una loro risposta, anch’essa in chiave autoritaria, che però muove da una conside­razione di cui bisogna tenere conto e che per loro è un principio impre­scindibile, ossia il primato della politica sull’economia: è la politica che deve rimanere al comando, perché altrimenti si generano contraddizioni non governabili.

L’accelerato sviluppo industriale cinese, che ha prodotto un’enorme ric­chezza, ha generato anche diseguaglianze sociali e territoriali, diffusa corruzione, producendo un distacco tra partito e cittadini e un impatto ambientale insostenibile. Preso atto di questi squilibri, la politica ha imposto un cambiamento che nessuna logica di mercato avrebbe deter­minato: è stato cambiato il mix produttivo investendo in ricerca e inno­vazione, sono state fatte delle delocalizzazioni, sono stati creati grandi fondi di investimento per riconvertire le zone industriali, alzati i salari per aumentare il consumo interno; si è cambiato un modello che rischia­va di essere insostenibile, elevando al contempo la qualità del lavoro e creando prodotti più competitivi. È in virtù di questa maggiore competi­tività del sistema cinese che nascono le tensioni commerciali con gli Stati Uniti. Fino a quando la Cina si è limitata a essere la fabbrica del mondo l’economia statunitense e quelle cinese sono rimaste complementari. È quando i cinesi hanno cominciato a investire sull’intelligenza artificiale, sulla robotica, sul 5G, in alcuni settori superando anche gli Stati Uniti, che è scattata la reazione americana. Il vero conflitto è sull’egemonia tecnologica.

Anche dal punto di vista sociale la dinamica cinese è interessante, per­ché pure lì si sono determinate grandi diseguaglianze, che si sviluppano però nel quadro di una crescita complessiva della società, in cui tutti sperimentano un miglioramento delle condizioni di vita attuali e delle prospettive per il futuro. Questo è un elemento di coesione sociale. Da noi la crescita delle diseguaglianze avviene invece in modo lacerante. L’Oc­cidente, che ha tratto i maggiori benefici dal processo di globalizzazione, ha visto arricchirsi solo una piccolissima minoranza priva totalmente di responsabilità sociale. Il simbolo di ciò sono le grandi aziende tecnologi­che americane. Amazon, ad esempio, paga meno tasse di un medio im­prenditore italiano. Questo però è un problema tutto interno alle società occidentali e riguarda direttamente la politica di questi paesi, che non è più in grado di redistribuire la ricchezza ma asseconda un sistema in cui pochissimi si arricchiscono a danno della collettività.

Si pone anche su questo fronte il tema del ritorno in campo di un’azione politica in grado di porre dei vincoli sociali al mercato, di orientare l’economia verso finalità di progresso, primariamente in campo sociale e ambientale. Ciò significa però agire su almeno due livelli: un livello necessariamente transnazionale e uno nazionale.

In ambito internazionale bisognerebbe dare il via a grandi battaglie per promuovere l’introduzione, ad esempio, di una sorta di Tax authority internazionale per la tassazione delle transazioni finanziarie. Oggi la ricchezza finanziaria – che è globale mentre i sistemi fiscali sono na­zionali – sfugge alla tassazione. Questo fa saltare il patto sociale. In un mondo in cui la grande ricchezza si sottrae pressoché totalmente alla fiscalità viene meno la capacità redistributiva. Ci vorrebbe un movi­mento in grado di porre questa questione al centro di una campagna mondiale. Anche i vincoli ambientali non funzionano a livello esclu­sivamente nazionale. La CO2 non conosce confini. Siamo di fronte a sfide estremamente complesse, che per fortuna dal punto di vista teorico-culturale hanno trovato delle risposte che però non vengono tradotte in azione politica concreta. Anche nella teorizzazione dei processi econo­mici si può notare che l’ondata neoliberista, che è stata dominante nella cultura, si è spenta dieci anni fa. A partire dalla crisi del 2007-08 non è più il neoliberismo estremista il tratto dominante nella cultura, dove invece spiccano Stiglitz, Krugman, Mazzucato, Piketty, interpreti di un pensiero economico critico che però non viene rispecchiato nella politica. Il tema ambientale comincia ora a diventare obiettivo di grandi movi­menti di massa, soprattutto di giovani. C’è una nuova generazione che accusa quella vecchia di non occuparsi della questione perché non ci sarà quando gli effetti più devastanti si manifesteranno. È un’accusa di cini­smo non priva di una sua verità.

C’è poi un livello nazionale di lotta alla precarietà e alla diseguaglianza. Non è vero che dentro i confini nazionali non si possa fare nulla. Fino­ra si è fatto, ma agendo in termini pro ciclici. Il dominio del pensiero unico ha fatto sì che la burocrazia europea imponesse agli Stati di “fare i compiti a casa”. L’uso di questa espressione è significativo perché elimina totalmente la discrezionalità della politica. Bisogna ora invertire la ten­denza e avviare a livello europeo un cambiamento di prospettiva, facen­do di alcuni obiettivi con un positivo impatto sociale – ad esempio la cre­scita dell’occupazione – dei traguardi inderogabili come finora si è fatto per i vincoli di bilancio pubblico. La costruzione europea, da Maastricht in poi, è venuta avanti sotto l’egemonia neoliberista e monetarista, sotto l’ordoliberismo tedesco. Ma le regole non sono neutrali, hanno un chiaro segno egemonico. Mettere in discussione questo impianto è compito della sinistra. Bisognerebbe uscire anche dall’idea di un sindacato posto solo sulla difensiva, di una politica subalterna all’impianto neoliberista e cominciare a lavorare su una sorta di nuova carta dei diritti del lavoro, che effettivamente sappia aderire alla complessità e alla varietà del mon­do del lavoro attuale; un grande obiettivo anche simbolico: un nuovo statuto, che possa essere terreno di un grande dibattito sociale.

M. L. Dal punto di vista sindacale una priorità è certamente quella di dare vita a un nuovo Statuto dei diritti, una nuova carta dei diritti che affermi che i diritti del lavoro non possono essere legati al tipo di contratto, ma si applicano a qualsiasi forma di lavoro, a tutti i lavoratori in quanto lavoratori. Questo sarebbe un grande cambia­mento, anche per il sindacato, che si porrebbe così come soggetto di rappresentanza di tutte le forme di lavoro, allargando il campo d’a­zione, includendo, rispondendo a quel bisogno di protezione di cui dicevamo prima. Questa è una riflessione che si imporrà certamente nel 2020, a cinquanta anni dall’approvazione dello Statuto dei lavo­ratori, di cui rimangono attualissimi alcuni tratti – come la tutela dal licenziamento ingiusto, che è una questione di civiltà prima ancora che giuridica – ma in cui vanno inseriti diritti nuovi, come ad esem­pio quello alla formazione permanente o alla progettazione dei cam­biamenti congiunta con il datore di lavoro. Questo è un punto che deve riguardare anche la politica, che si deve interrogare sulle azioni da mettere in campo per ricomporre un fronte che si è sfilacciato sia dal punto di vista giuridico e legislativo che sociale.

Su questi fronti il paese deve dare delle risposte. Non tutto dipende dall’Europa, anzi, l’azione compiuta a livello nazionale può avere un impatto sulla prospettiva di costruzione dell’Europa. Il livello di eva­sione fiscale che abbiamo in Italia non è frutto di un’azione imposta da Bruxelles, così come la scelta di avere o meno una politica indu­striale. Il che riapre la riflessione su quale debba essere il ruolo dello Stato nell’economia all’interno dei processi globali attuali. Colpisce, riflettendo sull’aumento delle diseguaglianze, che anche nel nostro paese non manca la ricchezza. L’alto debito pubblico fa il paio con il più alto risparmio sui conti correnti o investito in fondi di varia natura. Questi dovrebbero essere elementi di una discussione ampia che veda il sindacato protagonista anche in una dimensione politica, di funzione generale del sindacato, perché in grado di unire l’azione nel luogo di lavoro con quella di trasformazione sociale fuori da esso. Per fare ciò sarebbe importante ricostruire quell’unità sindacale che dà forza all’azione del sindacato.

Un tempo la presenza nel nostro paese di tre sindacati poteva essere spiegata alla luce delle divisioni partitiche esistenti. Oggi quei partiti non ci sono più, e non ci sono quindi più ragioni di appartenen­za politica che impediscono la costruzione di un sindacato unitario. Ma non è la trasformazione del quadro politico che può portare in automatico all’unità sindacale. Si può però avviare una riflessione sul fatto che la precondizione dell’unità sindacale sia la democrazia, cioè la possibilità delle persone di poter partecipare, di poterci essere, anche grazie a una legislazione di sostegno alla rappresentanza e alla contrattazione. Tutto questo all’interno di un’azione per la costruzio­ne, su scala europea, di un sistema di diritti validi universalmente.

M. D’A. Introduzione di diritti universali ma anche ricostruzione di corpi intermedi che diano nerbo alla società. Serve che la politica torni ad avere un rapporto fisico con il lavoro. Bisogna tornare sul territorio, in modo che chi ha bisogno di risposte possa trovare fisicamente un inter­locutore, e recuperare un linguaggio utile a parlare al mondo del lavoro. È stata la distruzione dei corpi intermedi, politici, sindacali, sociali, con la loro estrema corporativizzazione, una causa essenziale dell’indeboli­mento della democrazia.­