Perché è di destra l’uomo che ha sconfitto Berlusconi

Di Alessandro Campi Martedì 17 Aprile 2018 16:06 Stampa


Tra gli effetti prodotti dal risultato elettorale c’è anche la fine del centrodestra (pure risultato vittorioso come coalizione) per come lo abbiamo conosciuto nell’arco di quasi venticinque anni. Il sorpasso della Lega a danno di Forza Italia ha infatti determinato il venir meno di uno storico equilibrio di potere, in virtù del quale l’area cosiddetta “moderata” aveva in Berlusconi il suo indiscusso e inamovibile leader. Del centrodestra come formula d’alleanza e come blocco politico-elettorale, del resto, quest’ultimo è stato l’inventore, allorché gli riuscì di mettere e tenere insieme nelle elezioni del marzo 1994, grazie alle sue capacità di mediatore, alla sua forza patrimoniale e al suo oggettivo carisma, il partito nordista guidato da Bossi, all’epoca oscillante tra un programma confusamente federalista e tentazioni pericolosamente secessioniste, e la destra postfascista di Fini, che di lì a poco sarebbe passata attraverso il lavacro purificatore di Fiuggi con l’idea di trasformarsi in un partito nazional-conservatore sul modello di analoghe esperienze europee. Un’aggregazione originale, mai sperimentata prima nella politica italiana, ma destinata da allora in poi a una grande fortuna.

Resta ovviamente da capire quale significato si debba attribuire a tale sorpasso e quali siano le ragioni che lo hanno determinato. Partendo da queste ultime, un fattore che certamente ha contato è stata la scelta del segretario leghista di proporsi come contendente del leader di Forza Italia alla luce del sole. Nel passato non sono mancati tentativi di dare la scalata al centrodestra o di contrapporsi al Cavaliere. Ma i suoi avversari o contestatori interni – da Casini a Tremonti, da Follini ad Alfano, sino al caso eclatante di Fini – si sono spesso mossi per linee oblique, dando l’impressione di volerlo scalzare attraverso manovre di Palazzo o, peggio ancora, con la complicità dei suoi ne mici politici della sinistra. Salvini ha invece dichiarato apertamente le sue intenzioni e ha sfidato Berlusconi senza mai dare l’impressione di voler minare o mettere in difficoltà la coalizione di centrodestra. La sua è stata dunque percepita dagli elettori come una competizione dura ma leale. In questa sua scelta Salvini è stato indubbiamente aiutato dallo scarto generazionale che intercorre tra lui e Berlusconi e dal fatto che quest’ultimo si trovi indubbiamente in una fase di progressivo declino fisico-politico. Ma il piglio da capo assoluto e volitivo mostrato da Salvini, contestualmente al suo ambizioso disegno teso a trasformare la Lega da partito territoriale in forza nazionale, ha certamente contribuito ad attirargli consensi e simpatie anche da settori dell’elettorato tradizionalmente berlusconiano.

Sul punto appena richiamato – la nazionalizzazione della Lega – va peraltro detto che Salvini ha avuto ragione sia rispetto ai suoi avversari interni sia rispetto alla gran parte degli osservatori esterni. Si pensava che sarebbe stato assai difficile dare un profilo credibilmente “italiano” a un partito fortemente insediato nel Nord non solo dal punto di vista elettorale, ma anche – per così dire – sul piano della mentalità e dell’antropologia, nato con una forte impronta antiromana e da sempre polemico (con toni che talvolta hanno rasentato la xenofobia) con i meridionali e la loro propensione all’assistenzialismo. Nonostante il suo impegno al Sud durante la campagna elettorale, lo sfondamento immaginato da Salvini non c’è stato, in virtù della grande vittoria ottenuta dal M5S e della forza che ancora mantiene il partito berlusconiano in questa parte d’Italia. Ma non c’è dubbio che dopo il 4 marzo l’operazione di trasformare la Lega Nord in Lega “Italia” (con la scomparsa dal simbolo del riferimento alla Padania, l’abbandono del colore verde a vantaggio del blu e la personalizzazione definitiva del partito) abbia sortito un effetto comunque positivo. Oggi la linea del consenso leghista si è stabilmente spostata dalle aree settentrionali all’altezza del Lazio, con una penetrazione particolarmente forte in quelle che erano le cosiddette “Regioni rosse” e con consensi che cominciano a essere significativi anche nelle zone meridionali del paese. Naturalmente ciò non è stato solo il frutto di un riassetto organizzativo o del cambio dello storico simbolo in una chiave di puro marketing politico o di opportunismo propagandistico. Quella leghista è stata anche una metamorfosi ideologica che si sbaglierebbe a liquidare come impregnata unicamente da un linguaggio razzista, discriminatorio e violento (ovvero come una trasmutazione in chiave postmoderna dell’eterno fascismo italiano, secondo una chiave di lettura che sembra avere molto corso nel mondo della sinistra intellettuale). Al di là dei toni e dei proclami certamente in alcuni casi aggressivi e virulenti, specie sul tema dell’immigrazione – che è stata la vera posta in gioco, anche se non dichiarata apertamente come tale, dell’intera campagna elettorale e, più in generale, del dibattito politico degli ultimi due anni –, la scelta “nazionalista” di Salvini si è tradotta in una propaganda che ha enfatizzato non solo la questione della sicurezza personale dei cittadini (contro una criminalità diffusa che sarebbe alimentata soprattutto dall’immigrazione clandestina), oppure la polemica contro la tecnocrazia dell’Unione europea e l’euro, ma anche la tutela del lavoro contro la globalizzazione che tende a decentrarlo per pagarlo di meno o a renderlo precario, l’assistenza alle fasce sociali meno protette (pensionati, portatori di handicap, disoccupati, con un’enfasi posta sul dovere di assistere e aiutare prima gli italiani), la difesa della ricchezza che nasce dalle attività produttive contro quella che deriva dalla speculazione finanziaria, la lotta contro il degrado delle periferie urbane, la salvaguardia delle specificità culturali e sociali dei territori (contro l’immigrazione che rischierebbe di alterare persino gli equilibri demografici della nazione, ma anche contro chi specula sul paesaggio e contro una globalizzazione che tende a omologare le culture e annullare le tradizioni ereditate dal passato). Un mix, insomma, di conservatorismo culturale, tradizionalismo religioso, rifiuto del globalismo, protezionismo economico, produttivismo, senso della comunità e delle appartenenze che certamente ha molto a che fare con la tradizione politico-ideologica della destra novecentesca, ma che deve essere anche visto non come mera riproposizione di vecchie e screditate dottrine, ma come risposta – non priva di una sua coerenza e di una sua ragione storica – a talune patologie della postmodernità: a partire dal vuoto emotivo, dal senso di abbandono a opera dello Stato e della politica e dall’oggettivo impoverimento economico che sono tra i caratteri e fatto ri che più sembrano contraddistinguere le società europee odierne determinandone il malessere interno. E che sul piano del voto, nel caso dell’Italia, si sono tradotti non solo in una marcata frattura tra il Nord e il Sud del paese, ma anche – forse ancora più significativa – in una radicale differenziazione tra i contesti urbano-borghesi e quelli periferico-popolari socialmente e culturalmente più esposti al vento di un cambiamento spesso selvaggio e senza direzione, dove appunto la Lega ha raccolto la maggior parte dei suoi consensi.

Ideologicamente, il nuovo ricettario leghista è parso l’esatto contrario dell’individualismo a sfondo edonista e dell’ottimismo modernizzatore sul quale Berlusconi aveva costruito la sua immagine politica di uomo naturalmente vincente e che per anni è stato il modello cultural-antropologico dominante tra gli elettori di centrodestra (per inciso si tratta dello stesso modello ripreso successivamente da Renzi e anch’esso rivelatosi inadeguato rispetto alle paure e ansie odierne degli elettori). La stessa attenzione mostrata dalla Lega salviniana al mondo delle aziende e al tessuto imprenditoriale, oltre a rispondere a una concezione pragmatica della politica e del sostegno che quest’ultima deve offrire allo sviluppo economico, maturata grazie alla grande esperienza amministrativa che la Lega può vantare nei territori del Nord che da anni controlla e governa, è stata tradotta all’interno di una visione territoriale e comunitaria che tende a considerare l’impresa come l’espressione di un tessuto collettivo virtuoso, integrato e solidale e non come il frutto di uno sforzo creativo individuale o di una personalità eccezionale. E anche in questo si coglie facilmente una differenza con la visione del capitalismo, impregnata d’individualismo e tutta orientata al successo personale, che è sempre stata di Berlusconi.

La Lega – come del resto anche il M5S, con altri argomenti e un altro linguaggio – sembra dunque aver incarnato quel bisogno di comunità e rassicurazione (che è cosa diversa dalla sicurezza intesa in senso riduttivamente poliziesco-repressivo) che altri partiti non sono stati in grado d’intercettare o soddisfare e che, per essere un sentimento collettivo ormai profondamente radicato e frutto dei processi di radicale trasformazione che hanno investito le società contemporanee, difficilmente può essere considerato reversibile o effimero ovvero frutto di un generico stato di malessere e rabbia. Certi cambiamenti mentali e cognitivi indotti soprattutto nelle nuove generazioni dalla rivoluzione digitale; una sempre più problematica percezione del tempo storico (con la difficoltà a riannodare il nostro vissuto odierno con il passato e con la dimensione della storia e con il senso d’angoscia e inquietudine prodotto ormai da tutto ciò che attiene a un futuro che non riusciamo più né a prevedere, né a indirizzare, né a immaginare migliore del presente); i cambiamenti anch’essi largamente irreversibili nella cultura e nell’organizzazione del lavoro, che tende sempre più ad atomizzarsi, a essere instabile e a svolgersi fuori dagli spazi collettivi di un tempo – quelli appena elencati, per quanto sommariamente, sono tutti fattori destinati ad avere un impatto strutturale e permanente sulla dimensione politico-sociale e, in particolare, sulla vita quotidiana delle persone. E proprio l’attenzione mostrata alla quotidianità dell’esistenza, per quanto la si voglia considerare un’attenzione strumentale e declinata in forme culturalmente grossolane, è stata una delle ragioni che probabilmente hanno reso Salvini – nei suoi panni di uomo del popolo tra il popolo, anche nel suo modo ruvido di parlare – più credibile di altri leader, percepiti invece come distanti e troppo chiusi nelle stanze del potere.

La debolezza elettorale del mondo berlusconiano è nata anche dalla mancata percezione di questi problemi e di questi cambiamenti (e dei sentimenti collettivi che essi hanno prodotto e radicato). Lo scarso ricambio nel gruppo dirigente di Forza Italia (simboleggiato dalla caparbietà con cui Berlusconi ha continuato a proporsi come dominus della coalizione, salvo dover regredire dopo il voto al ruolo di regista politico e padre nobile della medesima), la percezione che quella realtà politica si configuri sempre più come un mero possesso personale destinato a implodere con la scomparsa o il ritiro dalla scena del suo fondatore, si sono infatti sommati a una campagna elettorale nel corso della quale Berlusconi e i suoi uomini si sono mossi secondo linee politiche assai vetuste e tradizionali. Nel mentre si andava preparando un vero terremoto sociale ed elettorale, Forza Italia ha continuato a coltivare come suo (peraltro non esplicitamente dichiarato) obiettivo politico quello di un accordo di governo con il PD renziano, che l’impasse politico-parlamentare da tutti prevista come conseguenza della nuova legge elettorale avrebbe reso necessario e inevitabile. Al tempo stesso, agli elettori – vecchi e potenziali – in cerca di risposte nuove e desiderosi di un grande cambiamento non si è fatto altro che offrire il solito ricettario liberal-liberista delle origini di Forza Italia, rivendicando come vero e unico argomento a proprio favore il fatto di potersi presentare sulla scena politica con abiti moderati e ragionevoli, che come tali – anche se non sostenuti da alcuna particolare idea o visione programmatica – sarebbero stati maggiormente graditi dall’Europa e dalla comunità internazionale rispetto al radicalismo verbale dell’alleato leghista, che Berlusconi ha continuato a credere fosse inferiore a lui nei consensi e nelle preferenze. Salvo appunto dover prendere atto, a urne chiuse, che la forza del suo carisma si è ormai fortemente indebolita e, soprattutto, che molti suoi elettori ritengono il giovane Salvini un leader affidabile e concreto al di là delle sue intemperanze (è stato questo, ad esempio, l’atteggiamento che al Nord ha portato molti piccoli e medi imprenditori a spostarsi da Forza Italia alla nuova Lega).

Si dice spesso, alla luce dell’esperienza di quasi tre decenni di storia politica, che il centrodestra è in grado di vincere le elezioni, ma non è in grado di governare proprio in virtù della sua eccessiva eterogeneità interna. Il copione potrebbe in effetti prodursi anche questa volta, sempre che la coalizione si mantenga unita in vista della costituzione del nuovo governo. Di sicuro il cambiamento negli equilibri e negli orientamenti che si è prodotto col voto, nel segno di una crescente radicalizzazione dell’elettorato e di un suo massiccio spostamento verso le posizioni leghiste, sembra aver aperto una fase nuova e originale. Il fronte dei moderati guidato da Berlusconi non esiste più. Sempre ammesso che i moderati come forza politica, come cultura di governo e come forma mentis siano mai esistiti nella storia italiana.