Democrazia oltre la divisione destra/sinistra

Di Nadia Urbinati Martedì 17 Aprile 2018 16:07 Stampa

Molto è stato detto e scritto sull’esito delle elezioni del 4 marzo scorso, una sconfessione senza appello dei piani di chi aveva voluto questa legge elettorale. Quella che è conosciuta come Rosatellum è stata concepita in vista di due obiettivi: la formazione di una maggioranza certa e, come piano B, una possibile alleanza tra Forza Italia e Partito Democratico, con l’obiettivo nemmeno troppo implicito di mettere nell’angolo il Movimento 5 Stelle, la lista più temuta sia da Silvio Berlusconi che da Matteo Renzi. Temuta non soltanto perché il M5S ha dimostrato di essere in grado di ottenere una progressione di spettacolari risultati, ma anche perché si è rivelato capace di attirare lo scontento proveniente da ogni parte, grazie a una calcolata retorica anti establishment. I timori di Renzi e Berlusconi erano realistici. Le elezioni del 4 marzo sono state un terremoto dal quale entrambi avranno difficoltà a risollevarsi. Se Berlusconi ha perso essenzialmente a destra, con un travaso di voti alla Lega di Matteo Salvini, il partito di Renzi ha perso su entrambi i fronti, cedendo voti a destra e ai pentastellati. Una Caporetto senza all’orizzonte il riscatto eroico di un esercito entusiasta con alla guida un Diaz.

Ci vorrà pazienza per metabolizzare le trasformazioni della democrazia dei partiti organizzati. Ci vorrà studio e intelligenza per esaminare con profitto questo esito. Si dovrà lasciare cadere il facile (e inutile) rifugio nella paura per un Movimento che viene dipinto come non solo malevolmente opportunista, ma anche rischioso per la democrazia costituzionale. Ma il rischio è connaturato al governo democratico, anche se un rischio non assoluto e irragionevole fino a quando la partita è giocata con le regole stabilite dalla Costituzione, in primis la divisione dei poteri e l’autonomia del potere giudiziario, due condizioni senza le quali i diritti civili non sono sicuri, e con essi fatalmente anche quelli politici. Con questa premessa di metodo e propositi affacciamoci al dopo 4 marzo 2018, tendendo insieme il crollo della sinistra (comunque meritevole di una indagine; un crollo di idee progettuali e di identità di valori, non semplicemente o solo di questa o quella leadership) con il successo dei due movimenti che hanno dato la fisionomia a queste elezioni: la Lega e il M5S.

Vediamo di capire prima di tutto la geopolitica postelettorale. Come nell’Italia prerisorgimentale le Italie del dopo 4 marzo 2018 sono più di una: sono tre per accorpamenti ideologici e sono due per forme della rappresentanza. Nel primo caso sono tre: il Sud compattamente monocromatico, pentastellato; il Centro risicatamente e a macchia di leopardo di centrosinistra; il Nord monocromatico di centrodestra (benché non estrema o fascista, ma comunque destra molto accentuata e che ha indebolito la componente centrista della coalizione Berlusconi-Salvini-Meloni). Ma se l’identità geo-ideologica è triadica, circa la natura della rappresentanza politica il paese ha due facce: la tradizionale divisione tra destra e sinistra tiene al Centro-Nord, ma crolla al Sud, dove il M5S propone una forma di rappresentanza che non è partitica in senso tradizionale perché “né di destra né di sinistra”. Al Nord abbiamo ancora uno schema tipologico da “democrazia dei partiti”, in quanto la Lega non si propone come ecumenica e aggregativa di rivendicazioni disomogenee; al Sud non più. Questa è la divisione davvero dirompente, la faccia in fieri della democrazia post partitica.

“Né di destra né di sinistra” vuol significare una forma di rappresentanza che pretende di essere espressione della gente ordinaria, senza connotazioni partigiane e neppure classiste. Si potrebbe usare una formula come gentismo o genericismo a significare che i cittadini sono uniti non da o in un progetto di società contro un altro o altri, ma da varie rivendicazioni che sono tenute insieme dalla volontà di scalzare la classe politica esistente con un’altra nel nome di un “noi” che non ha altra specificazione se non l’appartenenza a questo stato. Neppure la categoria “popolo” è stata mai usata da Beppe Grillo e i suoi seguaci – e quando Gianroberto Casaleggio si esprimeva in termini di “populismo” lo faceva specificando che intendeva con esso la genteordinaria (“uno vale uno”) secondo la promessa democratica: senza intermediazioni tra i cittadini e lo Stato, e soprattutto senza una classe politica separata che pretende di parlare in “loro” nome e occupare lo Stato. Questa premessa (che porta alla mente alcune suggestioni del movimento di Guglielmo Giannini, ma ancora di più il progetto di Adriano Olivetti di una “democrazia integrata” senza partiti, edificata su una società federata per funzioni lavorative e professionali e con un largo decentramento amministrativo) è tutto quel che il M5S rappresenta. Ed è il motivo principale della diffidenza che riscuote nel mondo dei partiti politici. Dal punto di vista della rappresentanza, il M5S è forse il primo affronto diretto alla democrazia dei partiti a ricevere tanto consenso – frutto popolare del seme piantato dai qualunquisti e poi dal Partito Radicale.

A differenza delle precedenti forme antipartitiche, più attente ai diritti di libertà individuali e alla rivendicazione di uno Stato solo amministrativo e non politico, il M5S ha un’ambizione di governo della società che gli proviene dalla base elettorale nella quale ha pescato: scontenti per il tenore di vita, per la tassazione vessatoria, per la mancanza di prospettiva lavorativa o occupazionale. Il tema del lavoro è quindi l’elemento scatenante – quello che ha sancito da un lato il divorzio tra ceti popolari e PD (ma in generale tutti i partiti della sinistra tradizionale) e dall’altro la novità del gentismo grillino. Il M5S unifica varie ragioni di scontento radicate nella questione sociale, a partire dalla riforma Fornero delle pensioni al Jobs Act e alla povertà, un grappolo di questioni che hanno anche incrementato il disgusto per i “pochi” che vivono bene, a spese dei molti, l’insopportabilità per la condizione di povertà e la mancanza di prospettive. La proposta di un “reddito di cittadinanza” (che tra l’altro ha avuto un ottimo teorico in Philippe Van Parijs) è la formula magica che ha raccolto tutte le speranze degli sventurati innescando, nel Sud soprattutto, una tempesta perfetta. Il terreno fertile per l’anticasta al Sud è segno di una specificità della società che non è di oggi. Qui anche la sinistra che fece breccia alcuni decenni fa aveva uno stile diverso da quello del Centro-Nord, più movimentista e populista, più elastica nell’adesione alle pieghe diuna società meno organizzata e con forme di degrado non tipiche di una società industriale. Il Partito comunista napoletano che ha vinto con Bassolino era diverso da quello delle Regioni rosse. Il Sud è stato tradizionalmente una fucina di lotta e contestazione, più che di radicamento organizzativo come al Nord. Anche questa è una ragione della facilità con cui ha vinto il M5S. È chiaro che questa è una spiegazione fondata su idealtipi, che non ha la pretesa di comprendere ogni aspetto della realtà, ma di essere un modello interpretativo.

Il Movimento di Grillo ha aspetti populisti, nello stile e per il suo voler saltare le rappresentanze partigiane, e rivendica la legittimità della volontà politica di chi sta fuori dal potere proprio perché sta fuori dal potere. È impreciso mettere tutti nella categoria del populismo, è vero: tuttavia tali aspetti sono populisti nel senso in cui Ernesto Laclau ha usato questo termine.

Il confronto con la Lega di Salvini ci aiuta a capire in che senso si deve usare l’aggettivo “populista” nel caso dei pentastellati. La Lega è un partito di destra anche se usa uno stile populista (come l’hanno usato altri, del resto, anche nel PD) e come un normale partito ha un’ideologia definita, idee radicali e selettive – non si rivolge ai generici “cittadini” ma agli “italiani arrabbiati” e ha una visione nazionalistica e discriminatoria della quale va fiera. La Lega non è per nulla ecumenica e anzi è molto partigiana. Al contrario del M5S, che è ecumenico o inclusivo e rivendica di stare al di là di ogni divisione partigiana, oltre i partiti appunto. Questo sembra essere il volto del populismo nelle democrazie post partitiche.

Il populismo non è la causa della crisi della democrazia dei partiti, ma ne raccoglie i frutti. Quella che si squaderna sotto i nostri occhi è una forma di rappresentanza che ha successo laddove i partiti organizzati declinano e il potere dell’audience si fa imperante, anche grazie a internet. La novità e radicalità di questi aspetti rendono la democrazia dell’audience un’incognita, diversa dalle democrazie del dopoguerra, nate sulla base di masse di cittadini organizzati proprio per domare l’elettorato come “gente” generica. Non sappiamo bene come una democrazia che vuole essere oltre la divisione destra/sinistra si strutturi. Ma di qui occorre partire per conoscere questo nostro tempo.