Jobs Act a rischio di incostituzionalità

Di Maria Vittoria Ballestrero Mercoledì 13 Maggio 2015 15:18 Stampa

Se in termini generali è possibile nutrire dubbi circa la compatibilità costituzionale dell’intero modello di flexicurity che le continue modifiche al diritto del lavoro stanno costruendo il Italia, il Jobs Act, nello specifico, presenta diversi elementi di incoerenza con i principi fondamentali della Carta costituzionale italiana e dell’ordinamento europeo, in merito sia alla scelta del ricorso alla delega legislativa, sia alla disparità di trattamento tra vecchi e nuovi assunti e alla precarizzazione del contratto a tempo indeterminato che va a introdurre.

Da diversi anni a questa parte, e specialmente nella concitata fase attuale, il diritto del lavoro è afflitto da una grave forma di bulimia regolativa, determinata dalla persistente convinzione che i problemi sempre più gravi del lavoro siano causati (anche se non soprattutto) dalla eccessiva rigidità delle regole di funzionamento del mercato del lavoro dal lato dell’offerta, e possano perciò trovare soluzione nella (incessante) riforma delle regole nel segno di una sempre maggiore flessibilità. A partire dalla legge Biagi del 2003, passando attraverso il “collegato lavoro” (legge 183/2010) e la riforma Fornero (legge 92/2012), la disciplina del lavoro ha subito trasformazioni profonde; trasformazioni ancora più profonde sono prefigurate nella legge delega 83/2014 (volgarmente detta Jobs Act) e stanno prendendo corpo nei decreti legislativi di attuazione della delega (primo tra tutti il decreto 23/2015, sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti). Di queste trasformazioni – ci piacciano o no – siamo costretti a prendere atto: il problema però è capire in quale direzione stiano andando e se si tratti di una direzione compatibile con i vincoli posti dalla nostra Costituzione, oltre che dal diritto dell’UE.

A me pare indubbio che il Jobs Act si ponga nel solco di una tendenza relativamente costante che porta il diritto del lavoro italiano a far proprioun modello “mediterraneo” di flexicurity, apprezzato dalla governance europea, alla quale viene offerto in cambio di allentamenti del Patto di stabilità. Si tratta di un modello in due tempi: flessibilità ora (con un’accentuazione marcata rispetto alla legge Fornero); sicurezza certamente migliorata rispetto alla legge Fornero ma in buona parte rinviata a quando ci saranno risorse adeguate a rafforzare ed estendere la protezione dei lavoratori nel mercato.

Esiste, a mio giudizio, un problema di compatibilità costituzionale dell’intero modello di flexicurity che si sta realizzando, a causa dell’erosione dei diritti fondamentali dei lavoratori cui dà inevitabilmente luogo. Per affrontarlo seriamente, sarebbe necessario fare un lungo discorso, richiamando almeno i principi fondamentali contenuti negli articoli 3 (principio di eguaglianza) e 4 (diritto al lavoro), senza dimenticare l’articolo 1 (la Repubblica “fondata sul lavoro”) della nostra Costituzione. Ragioni di spazio mi costringono però a limitare il mio intervento al solo Jobs Act e, in esso, alle questioni sulle quali si è registrato, nei mesi scorsi, un acceso dibattito.

Una prima questione, su cui si è fin da subito appuntata l’attenzione, è quella della dubbia legittimità costituzionale del ricorso, anziché a un ordinario disegno di legge, alla delega legislativa. La questione si pone perché il contenuto della legge delega è smisurato (praticamente la riforma dell’intero diritto del lavoro) e perché le disposizioni sono formulate in modo alquanto generico. Le correzioni apportate dalle Commissioni parlamentari hanno contribuito a riempire la delega di contenuti più precisi, ma i dubbi di fondo restano. Infatti, approvando la legge delega 183/2014 (l’approvazione è avvenuta sottoponendo il maxiemendamento del governo al voto di fiducia nelle due Camere: e anche su questo varrebbe la pena di soffermarsi), il Parlamento ha attribuito al governo il potere di dettare una grande quantità di regole (nuove), in ordine alle quali la delega, malgrado le correzioni apportate, resta in più punti “in bianco”. Infatti, in più punti, essendo l’oggetto della delega genericamente indicato, manca la determinazione di quei “principi e criteri direttivi” ai quali, secondo quanto previsto dall’articolo 76 della Costituzione, il governo deve attenersi nella formulazione dei decreti legislativi di attuazione della delega.

Porto ad esempio anzitutto l’articolo 1, comma 6, lettera b della legge delega 183/2014, che conferisce al governo il potere di procedere alla “semplificazione”, «anche mediante norme di carattere interpretativo, o abrogazione delle norme interessate da rilevanti contrasti interpretativi, giurisprudenziali o amministrativi». Si può dare per scontato che l’esercizio della delega porterà alla formulazione di norme nuove (che potranno anche essere dotate di efficacia retroattiva), senza che sia formulato un criterio direttivo capace di circoscrivere la discrezionalità del governo. Ulteriore esempio è il comma 7, lettera a, che delega al governo il potere di semplificare, modificare, superare le attuali “tipologie contrattuali”. Lo scenario che si apre in questo caso è quello di un “disboscamento” dell’attuale giungla dei 48 o 36 o 24 (dipende da come si contano, ma sono sempre troppi) contratti di lavoro autonomo e subordinato. La legge delega non dice in quale direzione avverrà il disboscamento (pure auspicato da più parti), se non menzionando la coerenza con il “tessuto occupazionale” e “il contesto produttivo nazionale e internazionale”: criteri (se così possiamo definire indicazioni tanto vaghe) alla luce dei quali si possono giustificare operazioni di “semplificazione” del più vario contenuto politico e tecnico. Per rendersene conto basta guardare allo schema di decreto legislativo sulle “tipologie contrattuali”: le tipologie contrattuali restano più o meno le stesse e invece si introducono dosi ancora più massicce di flessibilità (si pensi alla somministrazione a tempo indeterminato).

Quelli che ho menzionato possono – a mio avviso – essere considerati due buoni esempi di delega “in bianco”, di cui è, per ciò stesso, fortemente dubbia la conformità all’articolo 76 della Costituzione. Di ciò, dalle parti di Palazzo Chigi, nessuno sembra tuttavia preoccuparsi: evidentemente si fa affidamento sull’orientamento della Corte costituzionale, la cui giurisprudenza in materia si mostra notoriamente assai tollerante di una prassi che altera l’equilibrio dei poteri fra legislativo ed esecutivo. L’affidamento potrebbe tuttavia rivelarsi eccessivo: basterebbe che la Corte si ricordasse di dire che anche le regole costituzionali sulla delega legislativa (come quelle relative alla decretazione d’urgenza) costituiscono garanzie poste a presidio sia del riparto di competenze tra Parlamento e governo, sia della tutela dei diritti dei cittadini.

Ma non mi faccio illusioni. Salvo rare eccezioni, alla valutazione della conformità della delega all’articolo 76 della Costituzione si arriva in via subordinata attraverso il decreto delegato e la strada del rinvio del decreto alla Corte costituzionale è lunga, e quanto fruttuosa non è dato sapere. Potrebbe tuttavia esserlo almeno in un caso, nel quale il vizio potrebbe riguardare proprio il decreto legislativo (per eccesso dalla delega). Si tratta della disposizione del decreto sul contratto a tutele crescenti (articolo 10), che introduce un nuovo regime sanzionatorio dei licenziamenti collettivi, sopprimendo quel che restava dopo la riforma Fornero del diritto dei lavoratori licenziati alla reintegrazione (fatta eccezione per il solo caso patologico della violazione della forma scritta del licenziamento).

Che la legge delega non contenga alcun riferimento ai licenziamenti collettivi mi pare indubbio: non si può infatti sostenere (e soprattutto non può sostenerlo un giurista) che parlando di “motivo economico” la delega includa implicitamente anche il licenziamento per riduzione del personale. “Motivo economico” è un’espressione atecnica (ed è già sorprendente che il legislatore la utilizzi): tecnicamente (cioè alla luce del diritto vigente, per questa parte non riformato) un “motivo economico” inclusivo delle riduzioni del personale non esiste; la legge tiene infatti distinta la nozione di licenziamento individuale (per giustificato motivo oggettivo) dalla nozione di licenziamento collettivo per riduzione del personale, diversamente definito (dalla legge 223/1991, in conformità alla definizione comunitaria) nelle causali e nei requisiti quantitativi e spazio-temporali.

Tenuto conto di ciò, le Commissioni lavoro del Senato e della Camera hanno espresso circostanziati pareri negativi sull’articolo 10, che il governo ha totalmente ignorato. È vero che il parere (ove previsto: e lo è, nella specie) è obbligatorio ma non vincolante: tuttavia era legittimo attendersi che il governo chiarisse le ragioni che lo hanno indotto a cestinare il parere delle Commissioni.

Certamente non è una motivazione attendibile quella della omogeneità del regime sanzionatorio, non solo perché i licenziamenti individuali e collettivi sono di per sé disomogenei, ma anche perché in un licenziamento collettivo che coinvolgesse vecchi e nuovi assunti troverebbero applicazione regimi sanzionatori diversi, dando luogo a una irrazionale e irragionevole disparità di trattamento. Peraltro, un criterio di scelta che inserisse nella riduzione del personale solo nuovi assunti sarebbe evidentemente discriminatorio.

Entrando brevemente nel merito del Jobs Act, segnalo (solo) due problemi di compatibilità costituzionale: la disparità di trattamento tra vecchi e nuovi assunti e la precarizzazione del contratto a tempo indeterminato. Il nuovo contratto a tempo indeterminato (detto “a tutele crescenti”: ma di quel modello si sono perse anche le tracce) presenta come caratteristica essenziale la soppressione del diritto alla reintegrazione, ormai confinata in casi marginali e patologici. La reintegrazione è sostituita da un modesto indennizzo, crescente in ragione dell’anzianità di servizio ma entro un tetto massimo (di 24 mensilità di retribuzione), ovvero da un indennizzo ancora più modesto (anche qui con un tetto massimo, di cui è facile capire la ragione, ma è difficile giustificare la ragionevolezza), accettato dal lavoratore a fronte della proposta conciliativa offerta dal datore di lavoro, con contestuale rinuncia all’impugnazione del licenziamento.

Essendo quella del contratto a tutele crescenti una disciplina generale, applicabile a tutti i rapporti di lavoro instaurati dopo il 7 marzo 2015, emerge con evidenza una disparità di trattamento tra lavoratori occupati fianco a fianco nella stessa unità produttiva e che magari svolgono anche le stesse mansioni; disparità di cui è difficile immaginare quale possa essere una giustificazione tanto ragionevole da superare lo scoglio rappresentato dall’articolo 3, comma 1, della Costituzione. Regimi differenziati dei licenziamenti erano stati a suo tempo ritenuti “ragionevoli” dalla Corte costituzionale, ma nessuno degli argomenti usati dalla Corte è spendibile a fronte di una disciplina sostanzialmente omogenea per tutti i nuovi assunti (livellata verso il basso, e ancora più in basso quando si tratti di piccole unità produttive), ma fortemente differenziata rispetto a quella dei lavoratori già in forze (che godono ancora della tutela di cui all’articolo 18, nella versione già depotenziata dalla legge Fornero).

Può ben comprendersi perché sia mancato al governo il coraggio politico di modificare per tutti (vecchi e nuovi assunti) il regime dei licenziamenti, livellandolo verso il basso, e si sia scelta l’assai meno compromettente strada dell’eutanasia dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. La mancanza del coraggio politico ha aperto però il problema giuridico di cui ho detto, perché il trattamento differenziato tra vecchi e nuovi assunti non trova alcuna giustificazione nella diversità della loro condizione: la data dell’assunzione non è, del tutto evidentemente, una differenza apprezzabile sotto questo profilo. E certo non costituisce una ragionevole giustificazione della disparità di trattamento lo scopo di favorire le assunzioni a tempo indeterminato, «in coerenza con le indicazioni europee» (sic!), rendendo questo contratto più conveniente. Il contratto a tutele crescenti è visibilmente concepito come contratto concorrenziale in termini di costi diretti (incentivi e sgravi contributivi) e indiretti (flessibilità in uscita) rispetto al contratto a termine e perciò stesso come modo standard di assunzione, come vuole appunto il diritto dell’UE. Peccato che il rispetto della regola generale dettata dalla direttiva 1999/70/CE sia solo apparente: da un lato perché la disciplina del contratto a termine di cui alla legge 78/2014 (atto primo del Jobs Act) non rispetta le regole europee (ma qui non posso entrare nei dettagli); dall’altro perché il decreto 23/2015 riscrive il contratto a tempo indeterminato in modo tale che la regola comunitaria perde di senso. Questa regola nella sostanza significa che deve essere privilegiato il lavoro stabile rispetto al lavoro precario; ma avendo reso instabile il contratto a tempo indeterminato, attraverso la decostruzione della tutela contro i licenziamenti ingiustificati, l’opposizione stabile vs. precario perde appunto di senso. Indubbiamente la forte riduzione dei costi del contratto a tutele crescenti e la sua appetibile instabilità lo rendono tanto concorrenziale rispetto al contratto a temine, da far presagire un forte incremento delle assunzioni a tempo indeterminato: ma non è la concorrenza tra contratti instabili l’obiettivo cui tende la regola comunitaria.

Queste ultime considerazioni portano a fare qualche riflessione sulla compatibilità costituzionale del regime dei licenziamenti ingiustificati dei nuovi assunti. La riflessione dovrebbe essere centrata sul valore costituzionale della stabilità, come deducibile dall’articolo 4 della Costituzione, nonché dall’articolo 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, come integrato dall’articolo 24 della Carta sociale europea. Non potendo qui affrontare una tale riflessione, mi limito a richiamare i capisaldi di una disciplina dei licenziamenti coerente con la nostra Costituzione (nella interpretazione che ne ha dato la Corte costituzionale, a partire dal lontano 1965) e con le fonti europee: il principio indefettibile della necessaria giustificazione; l’adeguatezza delle sanzioni e la loro funzione deterrente; la impugnabilità del licenziamento di fronte a un giudice imparziale. Tutti e tre questi capisaldi sono messi fortemente in discussione dalla disciplina dei licenziamenti contenuta nel decreto 23/2015, per la ragione che, per i nuovi assunti, un licenziamento sostanzialmente ingiustificato porterà alla perdita del posto di lavoro, senza neppure un adeguato compenso in termini monetari, e potrà inoltre essere agevolmente sottratto al controllo di un giudice imparziale (così nel caso della conciliazione “spontaneamente” offerta dal datore di lavoro). Da vecchio conservatore quale sono, continuo a pensare che, quando si mette un lavoratore di fronte a una somma (per di più modesta) di denaro in cambio della reintegrazione nel posto che gli è stato ingiustamente tolto, si viola il significato costituzionale del lavoro (articoli 1 e 4) e anche la dignità del lavoratore, perché il lavoro è parte essenziale della sua personalità.

Resterebbe ancora molto da dire sulle questioni di compatibilità costituzionale che potrebbero emergere nelle discipline che si vanno prefigurando nei decreti legislativi (ancora in cantiere) che daranno attuazione all’articolo 1, comma 7, lettere e ed f. La delega prevede un affievolimento (per tutti i lavoratori, questa volta) dei diritti di libertà e dignità, che trovano tutela sia nella nostra Costituzione, sia nella Carta dei diritti dell’UE; diritti dei quali il governo è delegato a dettare nuove discipline ispirate (è questo il criterio direttivo) al contemperamento con gli interessi e le esigenze organizzative dell’impresa, introducendo nuove regole di flessibilità gestionale in materia di controlli a distanza e mansioni.

È presto per commentare, ma non per esprimere forti preoccupazioni per la sostanziale cancellazione di quelle disposizioni dello Statuto dei lavoratori nelle quali diritti fondamentali del cittadino (la libertà e la dignità, anche ma non solo professionale) sono “portati dentro” il contratto di lavoro e tutelati mediante la previsione di limiti inderogabili ai poteri organizzativo, direttivo, di controllo (e conseguentemente disciplinare) del datore di lavoro. Dignità, libertà (e riservatezza) del lavoratore rischiano di essere compromesse in nome del contemperamento con le (insindacabili) esigenze dell’impresa: resta da dire che, per quanto il lavoratore eserciti i propri diritti fondamentali nell’ambito di un contratto di scambio, è il contratto a doversi fare carico del rispetto dei diritti fondamentali e non i diritti fondamentali a dover essere sacrificati alla logica mercantile del contratto.