Il voto della volatilità

Di Michele Prospero Martedì 18 Giugno 2019 15:13 Stampa

Il primo dato che emerge dal voto del 26 maggio è la elevata volatilità del consenso. Gli spostamenti di preferenza che si registrano rispetto alle consultazioni del marzo 2018 raggiungono nel complesso il 49% delle schede. Segno evidente, anche questo, che il sistema politico rimane ancora molto fluido, più nulla di organizzato è in grado di resistere. Il mutare rapido delle fortune elettorali dà la sensazione di un sistema incapace di consolidamento, sprovvisto di una forza di controllo e di direzione da parte dei movimenti politici.

Le tornate europee sono per consuetudine un invito allo scioglimen­to delle appartenenze, e questo rompete le righe non accade solo in Italia. Quest’anno anche in Inghilterra si è ripresentato, come nel­le precedenti votazioni peraltro, un generale rimescolamento delle schede. Per via della fenomenologia della volatilità tra una votazio­ne e l’altra anche la leadership, con qualche cenno euroscettico, di Corbyn si è gravemente appannata. La sua stella ha mostrato limiti politici rilevanti proprio sul tema europeo ed è stata per questo seve­ramente censurata dall’elettorato.

Anche la sinistra radicale francese, con le sue venature tradizional­mente scettiche sul progetto europeo, è crollata d’un tratto. Non basta radicalizzare l’offerta e illudersi di inseguire le destre sovraniste sul loro terreno per catturare il voto dei ceti popolari sedotti dal ver­bo securitario.

Dinanzi a parole, simboli, atteggiamenti come quelli esibiti dalle de­stre populiste, è impossibile per la sinistra competere senza perdere credibilità e dignità ideale. E anzi il semplice collocarsi sul medesi­mo terreno dei populismi è ovunque apparso la ragione di un crollo elettorale significativo. Le sinistre – questo è diventato un tratto che accomuna tutte le democrazie occidentali – sono maggiormente ra­dicate nei soggetti con più elevata scolarizzazione, con più marcate sensibilità civiche e ambientaliste, con Pensare di recuperare voti tra le periferie metropolitane stigmatizzan­do le tematiche imposte dai nuovi movimenti ecologisti, femministi, per i beni comuni non porta a significativi risultati. La guerra alle libertà e ai diritti piuttosto determina la fuga dell’elettorato più in­formato e con inclinazione partecipativa (che ha anch’esso una consi­stenza di massa entro la società della conoscenza e che ha consentito al PD, in una fase così incerta, di conquistare un ampio primato in tutte le più grandi città italiane) che abbandona la sinistra tradiziona­le attratta dai liberaldemocratici, dai verdi. La sinistra, per coniugare i diritti e il sociale, deve definire una strategia per sfidare la contrad­dizione culturale del tardo capitalismo che vede una polarizzazione tra città e aree rurali, centro e periferia, scolarizzati e marginali.

In Italia la contraddizione culturale del nanocapitalismo è ancora più evidente che altrove. Gli analisti dei flussi documentano che la composizione dell’elettorato leghista vede per il 55% la presenza di persone che non hanno frequentato alcuna scuola oltre le elementari o si sono fermate alla licenza media. Questo dato dell’arretratezza dell’Italia profonda veniva in passato diluito ne­gli effetti distruttivi dalla capacità della sinistra di tenere in piedi una coalizione sociale eteroge­nea. Con la prova di governo degli ultimi anni, le politiche adottate hanno però alienato il soste­gno della componente operaia (Jobs Act, artico­lo 18), minato la fedeltà di voto degli insegnanti (scuola-azienda), la vicinanza del pubblico im­piego (età pensionabile).

In tal senso, la metamorfosi del Partito Demo­cratico è tra le cause dell’insorgenza populista. La rottura della sua coalizione sociale tradizionale accresce la capacità di penetrazione dei due populismi dominanti. Più che con l’adozio­ne di un tocco di populismo di sinistra, il problema della crisi di rappresentanza si può affrontare solo con una compartecipazione di politica e sindacato. Gramsci riteneva che, entro crisi organiche nelle quali i media («la stampa gialla e la radio») sono in grado di «turbare il normale governo dell’opinione pubblica da parte dei par­titi organizzati e definiti intorno a programmi definiti», il sindacato, più ancora che il partito politico, riveste una funzione cruciale per recuperare le masse alla democrazia e all’innovazione. I media, nelle difficoltà della mediazione politica, riescono a «susci­tare estemporaneamente scoppi di panico e di entusiasmo fittizio», a costruire eventi, spostare opinioni. Salvini guadagna in un anno 3 milioni di voti e trionfa nel Nord-Ovest (con più 897.000 voti) e nel Nord-Est (con un incremento di 686.000 voti), penetra agevolmente nel Centro (con una impennata di 810.000 voti), nel Sud (con una crescita di 828.000 voti) e nelle Isole (con una avanzata di 236.000 voti). Il suo balzo in avanti si riscontra ovunque, anche dove la Lega non dispone di alcuna vera struttura organizzativa, e la crescita è im­ponente in aree disperse dove la presenza territoriale del Carroccio è molto circoscritta se non assente del tutto.

In tal senso, anche Salvini è un fenomeno che Gramsci chiamava dei «booms e colpi di mano elettorali». Senza le varianti odierne della stampa gialla e della radio, e cioè senza le trasmissioni della TV spaz­zatura pubblica e privata, non ci sarebbe quel senso comune (contro la politica, le élite, la cultura, la laicità, i migranti) sul quale Salvini poggia il suo estemporaneo successo tra la immensa «parte inorganiz­zabile dell’opinione pubblica».

La Lega che prosciuga i voti di Forza Italia, precipitata all’8,8%, e inghiotte quasi tutto il vecchio centrodestra, ha i propri intellettuali organici, nonché robusti costruttori di consenso, proprio nelle reti del biscione. Senza i contenuti, gli stili, le parole chiave delle tra­smissioni “politiche” di Del Debbio, Porro, Giordano (e su La7 di Giletti), e ancor più senza le immagini nichiliste della D’Urso, (e per la rete pubblica della Venier o di altri contenitori della TV realtà con programmi incentrati sulla ossessione securitaria, sulla mistica della paura, la cronaca nera, la violenza quotidiana, la corrida), la leader­ship forte di Salvini (il 76% degli elettori della Lega rimarca il ruolo del leader nella propria scelta di voto) rimarrebbe un fenomeno del tutto marginale.

Nella età della disintermediazione e dell’atomismo sociale, sosteneva Gramsci, «organismi che possono impedire o limitare questo boom dell’opinione pubblica più che i partiti sono i sindacati professionali liberi». A essi tocca ricostruire il perduto senso della realtà contro le ondate di panico, la deviazione semantica, e soprattutto collega­re le masse lavoratrici con «le grandi masse inorganizzabili profes­sionalmente o difficilmente organizzabili». Soprattutto in tempi di contraddizione culturale, al sindacato va riconosciuto il compito di allacciare alleanze, di definire una coalizione sociale capace di resi­stere ai calcoli di potenza delle classi dominanti che agognano la flat tax (il punto estremo del liberismo odierno camuffato con segnali di protezionismo sovranista) per i ricchi e ai poveri distribuiscono quote di odio.

Sul piano politico, il voto assegna al PD il compito di disegnare una alternativa di forze molteplici a un capo che maneggia il rosario e dialoga con la Madonna. Il disegno dei grandi media di accettare ed enfatizzare il dualismo Di Maio-Salvini salutandolo come la chiave centrale della nuova stagione politica è stato miseramente travolto. Il crollo del M5S, che cede oltre 6 milioni di voti, ha reso vano il soccorso attivo dei grandi media per proteggere i 5 Stelle dal declino (la creatura della Casaleggio vanta solo il 38% di fedeltà elet­torale) e impedire un ribaltamento dei rapporti di forza entro la coalizione giallo-verde (con una voracità incontenibile Salvini attrae il 17% dei voti dall’alleato pentastellato).

Dopo le europee, ha perso ogni senso politico l’i­dea di accarezzare un bipolarismo anomalo, con la strategia della grande stampa di enfatizzare una opposizione diffe­renziata, in segno di attenzione al M5S il cui “destino” è la naturale confluenza a sinistra, come immagina Cacciari. Solo il 4% dei vecchi elettori grillini è tornato a sinistra, e tra quelli rimasti il 70% si auto-classifica come di destra, di centro o apolitico; nel 30% rimanente, che si dichiara di orientamento di centrosinistra, è assai rilevante il detrito di esperienze di marca giustizialista che difficilmente è recu­perabile a una sintonia programmatica con il PD.

I segnali positivi che per il Partito Democratico vengono dal voto (anche in virtù della elevata percentuale di fedeltà, pari al 68%) non sortiranno effetti costruttivi significativi senza una radicale opera di innovazione culturale, politica, organizzativa. Per costruire una regia coalizionale efficace da esercitare in un campo plurale, il PD, che come argine alla destra ha attratto il voto anche della sinistra radicale (6%), di ex M5S (4%), di astenuti (10%), dovrebbe ripensare, anche con segnali evidenti di discontinuità, alle politiche che hanno accentuato la disintermediazione, l’alienazione politica del lavoro precario e disper­so. Mentre i ceti operai e periferici per oltre il 20% abbandonano il M5S, il PD non riesce a ricostruire una connessione con questi sogget­ti, decisivi per rilanciare le fortune di una componente della sinistra.

In un sistema fluido, che si presenta agli osservatori con celeri ascese e altrettanto rapide cadute nell’oblio, le rendite di posizione non sono garantite a lungo. E ciò significa che anche la posizione di Salvini, che al momento pare in incontrastabile ascesa (secondo gli analisti della SWG i flussi mostrano che la Lega ha conquistato voti tra i baby boomers, +19%, i millennials, +11%, i giovanissi­mi della generazione Z, +21%, gli operai, +29%, i professionisti, +12%, i ceti poveri, +18%, i ceti medio-bassi, +18% e le donne, +17%), presenta ampie zone di vulnerabilità.

Il voto personale per il leader poggia anch’esso su qualcosa di volubile, e i ceti periferici attratti dal rosario e dalla ruspa non possono per l’eter­nità sentirsi appagati dal capo con la divisa della polizia che si segnala per la ossessiva esortazione della galera, della castrazione chimica e del rito dei porti chiusi. Se tutta la costruzione simbo­lica non si accompagna a realizzazioni tangibili anche sul terreno economico-sociale, le parole grosse, i fischi al papa, le minacce a Bruxelles si sciolgono come neve al sole. È arduo ipotizzare che una società complessa e differenziata, anche in tempi così decadenti nelle credenze delle masse, si lasci se­durre a lungo dalle parole armate contro l’immigrazione, dalla mito­logia della legittima difesa, dalla battaglia navale contro i profughi.

Accanto alle dure repliche dell’economia e della società deve esserci però l’iniziativa politica per delineare un credibile progetto di cam­biamento. Gli analisti dei flussi della SWG registrano che il PD ha riconquistato marginali preferenze tra i millennials (+6%), tra la ge­nerazione Z (+9%), tra i ceti poveri (+6%) e medio-bassi (+3%). Però anche il voto europeo conferma la strutturale e originaria diffi­coltà del PD a riprendere una qualche sintonia con il mondo operaio (solo il 13% vota per il Partito Democratico).

Una collocazione sociale nel lavoro non è eludibile, e non più rin­viabile è anche una più esplicita collocazione a sinistra. Rispetto al 2014, i dati della SWG riscontrano una contrazione significativa di elettorato centrista (–8%) cui corrisponde una marcata accentuazio­ne della sensibilità di sinistra (+16%). Questo dato esige delle corre­zioni visibili nell’identità e nel profilo programmatico.

Nella ripresa parziale del PD si rinviene una domanda di resistenza all’onda nera leghista e salviniana (per il 69% degli elettori il voto al PD era anzitutto una dichiarazione di battaglia contro il populismo). Questo compito, che ha prosciugato il voto al M5S, percepito come subalterno al regime in gestazione, è stato assolto nella prima fase della lunga marcia per stanare la destra illiberale. Il passaggio ulte­riore da compiere è quello molto problematico di ricostruire un arco di culture per ribaltare i rapporti di forza e porre un freno al declino della democrazia.