Evasione fiscale e lotta all’evasione in Italia

Di Vincenzo Visco Venerdì 13 Aprile 2012 15:43 Stampa

L’evasione fiscale non è un fenomeno ineluttabile: si può combattere e contenere anche in Italia, a patto di non nascondersi dietro l’alibi delle peculiarità del nostro sistema economico-sociale e affrontare con decisione quello che, invece, è un problema essenzialmente politico e un elemento fondamentale del processo di modernizzazione e riorganizzazione del sistema produttivo del paese. Per farlo sono però necessari sia il convinto accordo bipartisan tra le forze politiche sia quello all’interno dei singoli partiti.


La questione dell’evasione fiscale è tornata al centro dell’attenzione politica. Non è una novità: ogni volta che emergono difficoltà di bilancio si “scopre” che se non vi fosse un’evasione così elevata le entrate dello Stato potrebbero essere maggiori, dimenticando che se non vi fosse evasione è molto probabile che anche le imposte sarebbero più basse e che quindi rimarrebbero i problemi legati al livello della spesa pubblica. Non è un caso, comunque, che questa rinnovata attenzione si sia verificata sia verso la fine del primo governo Berlusconi (2004-05) sia alla fine del secondo (2011), quando la crisi della finanza pubblica è diventata, in ambedue i casi, più evidente.

Tutti oggi sembrano concordare sulla necessità di ridurre questo fenomeno; nessuno ricorda le reiterate dichiarazioni di Berlusconi non certo contrarie all’evasione fiscale; pochi ricordano che gran parte delle norme antievasione varate durante il secondo governo Prodi furono immediatamente soppresse dal nuovo governo insediatosi nel 2008; ancora meno numerosi sono quelli che ricordano che il governo Prodi era criticato dalla sua stessa maggioranza per i suoi “eccessi” in proposito, e che non pochi nel PD ritenevano che quelle politiche avessero fatto perdere voti; ancora oggi alcuni sottolineano che esiste un’evasione di necessità, senza rendersi conto che così si legittima l’evasione tout court.

Nel dibattito politico il tema dell’evasione fiscale appare quindi più un alibi e una esercitazione polemica periodica (e forse retorica), o una occasione per contrapposizioni politiche tra chi denuncia il fenomeno e chi invoca la privacy o denuncia il pericolo dello Stato di polizia, che non un impegno convinto. Eppure l’evasione fiscale è un fenomeno che si può combattere e contenere, pur non eliminandola completamente, anche in Italia. Vi è inoltre una tendenza diffusa a spostare il dibattito sul terreno sociologico, culturale, ricordando e sottolineando le peculiarità del nostro sistema economico-sociale. Certo queste peculiarità esistono: l’Italia è un paese ad alto tasso di illegalità, con un grado di corruzione molto elevato, con una forte presenza della criminalità organizzata, caratterizzato dalla prevalenza di piccole imprese familiari, da un forte individualismo, da una carenza di senso civico le cui origini vengono da alcuni fatte risalire alle modalità con cui nacque lo Stato unitario, da un dualismo economico che rende difficile il rispetto di regole uniformi in tutto il paese ecc. Al tempo stesso, però, si afferma, altrettanto giustamente, che l’Italia è la sesta potenza industriale del mondo, un paese ricco, con un elevato reddito pro capite nonostante il continuo declino degli ultimi dieci anni, con una forte presenza di imprese innovative e in grado di competere sui mercati, con grandi tradizioni culturali e di civismo (almeno in parte del paese).

E allora? Allora il problema dell’evasione, così come quello del definitivo risanamento della finanza pubblica, non è altro che un aspetto della necessaria modernizzazione del paese e dell’esigenza di una riorganizzazione del suo sistema produttivo, per troppo tempo rinviate per ragioni, e soprattutto timori, di natura politica, esacerbati negli ultimi tempi dal populismo leghista e berlusconiano e non contrastati a sufficienza da una sinistra non di rado attratta dagli slogan antistatalisti e anti-tasse della destra.

Se si vuole esaminare il problema più da vicino è bene partire da dati concreti. L’Italia è un paese ad alta pressione fiscale: nel 2012 essa supererà il 45% del PIL, e data la rilevanza dell’evasione, dell’erosione e dell’elusione, essa risulta particolarmente gravosa per alcune categorie di reddito. Il prelievo risulta quindi fortemente sperequato. L’evasione viene valutata (prudentemente) in circa 120 miliardi di euro: l’8% del PIL, oltre il 18% delle entrate fiscali e più del 27% di quelle tributarie: da 2 a 3 volte quella riscontrabile negli altri paesi europei (Grecia esclusa).

L’evasione riguarda tutti i redditi, ma in modo differenziato: i redditi di lavoro dipendente evadono poco (straordinari in nero, altri fuoribusta); i pensionati un po’ di più (secondi lavori in nero); l’evasione è rilevante, ma contenuta, nel settore industriale; è molto alta nelle costruzioni, nel commercio, in agricoltura, nei servizi; evadono di più le imprese individuali e familiari che quelle più strutturate. L’evasione è più elevata al Nord in valore assoluto e al Sud come percentuale del reddito. I professionisti evadono meno delle piccole imprese essenzialmente perché una parte dei loro compensi è assoggettata a ritenuta d’acconto. I redditi di capitale non evadono perché interamente “tracciati” dagli intermediari; tuttavia essi, come i redditi dei fabbricati e dei terreni, sono esclusi dall’imposta progressiva e tassati con aliquote poco più che simboliche. L’evasione si aggiunge così a una detassazione legale dei redditi che derivano dalla proprietà, contribuendo ad accrescere le diseguaglianze. Le società per azioni evitano e riducono il prelievo eludendo, quando possono, anche in maniera aggressiva.

In sostanza, la costituzione materiale del sistema fiscale italiano che emerge dall’analisi delle informazioni disponibili sembra essere quella secondo la quale esso accentra il prelievo sui lavoratori dipendenti (e pensionati) che storicamente sono stati (e sono) anche i beneficiari principali del sistema di welfare italiano; prevede una tolleranza molto ampia per i ceti professionali o imprenditoriali, indipendentemente dalle dimensioni delle loro attività; un prelievo adeguato ma non eccessivo sulle società di capitale e una tassazione molto attenuata o del tutto assente per i ceti proprietari. Dietro questa realtà si può intravedere una continuità di visione politica su quella che viene considerata la distribuzione del reddito più favorevole allo sviluppo in un paese come l’Italia, o anche, più semplicemente, l’espressione di rapporti di forza consolidati: a favore del lavoro dipendente nel welfare, e delle attività indipendenti e dei titolari di patrimoni nella distribuzione del carico fiscale. È precisamente questa analisi che rende evidente il rapporto tra riduzione dell’evasione e modernizzazione del paese.

L’ammontare medio dell’evasione non è particolarmente elevato, si va da alcune migliaia di euro ad alcune decine di migliaia. Ciò significa che l’evasione fiscale in Italia è un fenomeno di massa che coinvolge milioni di contribuenti. Ed è proprio questo aspetto che rende molto difficile il contrasto e la riduzione del fenomeno. La lotta all’evasione pone infatti un rilevante problema di consenso e può comportare una non trascurabile perdita di voti per chi volesse praticarla seriamente. In altre parole, la lotta all’evasione in Italia è soprattutto un problema politico prima che tecnico, ed è molto difficile praticarla in assenza di un convinto accordo bipartisan tra forze politiche e all’interno dei singoli partiti.

Da un punto di vista tecnico, i modelli teorici sull’evasione fiscale indicano che essa dipende da tre fattori essenziali: il livello delle aliquote (ma questo è un risultato incerto), il livello delle sanzioni e il numero degli accertamenti. Il precedente governo ha inizialmente ridotto le sanzioni (riducendo quindi il disincentivo all’evasione), ma ha insistito molto sull’effetto positivo di deterrenza degli accertamenti (il che è giusto, ma solo in parte). Sull’evasione influiscono anche fattori di natura etica (la cosiddetta morale fiscale) o politica (la percezione di una spesa pubblica inefficiente, di una corruzione diffusa ecc.). Ma probabilmente il fattore più rilevante negli attuali sistemi tributari di massa consiste nella disponibilità di informazioni sui singoli contribuenti, soprattutto di quelle fornite da parti terze o incrociabili tra loro. Questo è il vero significato del termine “tracciabilità”, che erroneamente (e forse non casualmente) nel dibattito corrente viene identificato con l’uso di strumenti di pagamento diversi dal contante, che è solo uno degli aspetti della tracciabilità.

Studi teorici ed empirici, ma anche l’esperienza concreta dimostrano – come si è visto – che là dove compensi e transazioni sono interamente tracciati, e cioè nel caso dei redditi di lavoro dipendente, pensione e capitale, l’evasione è assente o molto ridotta. Essa invece è molto più elevata per gli altri redditi, per i quali è quindi necessario creare condizioni di contesto (di tracciabilità) simili, o comunque non troppo diverse da quelle che esistono per i redditi tracciati. Perciò è molto importante il ricorso a sostituti di imposta là dove è possibile, o la diffusione dell’uso di strumenti elettronici, nonché la reintroduzione della fatturazione elettronica e dell’elenco clienti/fornitori che oggi è sicuramente la fonte di tracciabilità più importante. Si noti che l’invio al fisco da parte dei datori di lavoro dei dati relativi ai loro dipendenti non è altro che un elenco fornitori: non si capisce allora perché situazioni molto simili dovrebbero continuare a essere trattate in modo diverso. Queste e altre misure analoghe erano contenute nel decreto Visco-Bersani presentato dal governo Prodi, successivamente abrogate e solo in parte, e dopo molte esitazioni, reintrodotte dal governo Monti (è il caso dell’elenco clienti/fornitori).

La limitazione del contante è importante, ma va utilizzata selettivamente: l’introduzione di un unico limite di 1000 euro è sicuramente utile per l’azione antiriciclaggio, ma molto meno a fini fiscali, dal momento che la grande maggioranza delle transazioni effettuate è inferiore a quel limite e molte altre possono essere agevolmente suddivise in più pagamenti. Sarebbe stato quindi più utile reintrodurre l’obbligo dei pagamenti solo con strumenti tracciabili per le attività professionali, estendendolo anche al pagamento di canoni o oneri deducibili o detraibili al pagamento delle retribuzioni. Inoltre, l’uso del contante potrebbe essere limitato anche per le micro transazioni incentivando l’uso del cosiddetto borsellino elettronico, vale a dire carte di pagamento collegate a un conto bancario, già in uso in altri paesi. Le banche dati disponibili, incluse quella degli studi di settore e quella clienti/fornitori, possono essere utilmente completate da quella relativa ai rapporti finanziari, introdotta dal governo Monti, ma che non si sa come e quando sarà operativa. Tutte queste informazioni, debitamente elaborate mediante procedure informatiche standardizzate, potrebbero fornire all’Amministrazione tutti gli strumenti di deterrenza e di conoscenza della situazione economica effettiva dei contribuenti e potrebbero porre le basi per un mutamento fondamentale del funzionamento e delle modalità operative dell’Amministrazione. Infatti, per i contribuenti titolari di redditi “sensibili” andrebbe recuperato un rapporto individuale diretto e continuativo con l’Amministrazione precedentemente alla presentazione della dichiarazione, al fine di segnalare al contribuente le informazioni di cui il fisco dispone sul suo conto lasciandolo poi libero di tenerne conto nella dichiarazione finale. Si può essere fiduciosi che l’utilizzazione di un tale approccio potrebbe trasformare l’attuale evasione di massa in una emersione di massa.

In che misura l’azione effettiva dell’Amministrazione corrisponde alla strategia prospettata? Non molto, si deve dire. Da questo punto di vista il governo Monti, pur essendo chiaramente impegnato sul piano politico a sottolineare l’importanza della riduzione dell’evasione, sembra continuare sul percorso tracciato dal precedente governo evitando di affrontare frontalmente e radicalmente il problema e seguendo una linea che tende a escludere i “piccoli” evasori (cioè la grande maggioranza) dai controlli,1 secondo una strategia del tipo kick the can down the road, e cioè guadagnando tempo, raschiando il fondo del barile delle riscossioni coattive (Equitalia), escogitando interventi al margine per recuperare gettito e, da ultimo, utilizzando l’impatto mediatico di azioni come quella di Cortina: azioni che non sono inutili ai fini del recupero del gettito a breve termine e della percezione dell’opinione pubblica, ma appaiono e sono frammentarie, disorganiche e insufficienti a medio-lungo termine.

In particolare, negli ultimi tempi si è molto propagandato il nuovo redditometro come strumento decisivo nella lotta all’evasione. Ma così non è: il redditometro è da sempre uno strumento di accertamento sintetico o di ausilio agli accertamenti analitici utilizzato per poche decine di migliaia di casi ogni anno. Ora lo strumento viene riorganizzato, ma non è ancora chiaro come funzionerà. Inizialmente sembrava che il redditometro dovesse diventare uno strumento per accertamenti induttivi di massa. Ciò avrebbe creato non pochi problemi. Infatti, a differenza degli studi di settore – che in molti casi sono in grado di approssimare correttamente la realtà operativa dell’impresa –, risalire al reddito effettivo individuale sulla base di valutazioni statistiche relative ad alcuni consumi è opera del tutto incerta e poco affidabile: le stime delle funzioni del consumo che normalmente vengono e possono essere effettuate riguardano l’intera collettività o gruppi omogenei di individui e famiglie, ma non singole persone o famiglie; utilizzare un tale strumento (peraltro utile a fini conoscitivi) per accertamenti di massa può risultare molto rischioso e può condurre a una generale sottostima dei redditi effettivi al fine di evitare o limitare errori e proteste. Inoltre, l’attuale normativa prevede che l’accertamento induttivo tramite redditometro abbia effetto solo sulla determinazione del reddito imponibile e non si estenda a IVA, IRAP e contributi, sicché un accertamento via redditometro potrebbe addirittura risultare conveniente. Infine, non va trascurato che l’uso del redditometro come strumento di accertamento di massa rappresenterebbe una ulteriore tendenza verso una esplicita forfetizzazione dell’imposta a beneficio di alcune categorie di contribuenti.

Analogo discorso può essere fatto per lo spesometro, e cioè per la norma che prevedeva l’invio al fisco dei dati relativi agli acquisti e alle vendite superiori a 3000 o 3600 euro. Questo sistema rappresentava un infelice surrogato dell’elenco clienti/fornitori, che avrebbe complicato molto la vita delle imprese tanto che molte di esse richiedevano, in alternativa, il ripristino di quest’ultimo. Inizialmente il limite era stato fissato a 25.000 euro, e non si sa se e in che misura la norma sia stata rispettata.

Va ancora segnalato che molta attenzione andrebbe riservata agli annunci sul recupero dell’evasione fiscale che vengono periodicamente divulgati: 30-40-50 miliardi in un anno! È evidente che se questi dati fossero veri basterebbero un paio di anni per risolvere il problema dell’evasione fiscale in Italia. In realtà quelle cifre rappresentano una mera pretesa teorica del fisco, che normalmente si traduce, dopo molti anni, in gettito aggiuntivo per non più del 10%.

Analogamente, nel presentare i dati sul recupero di gettito (9, 10, 11 miliardi) bisognerebbe distinguere i proventi dell’attività di accertamento vera da quelli relativi al recupero di imposte dichiarate e non versate o derivanti dalla correzione di errori formali delle dichiarazioni; si vedrebbe che i risultati degli accertamenti rappresentano poco più della metà del gettito recuperato e che sono pressoché costanti da un anno a un altro.

Concludendo, il fatto che si discuta tanto di evasione e contrasto all’evasione e che il nuovo governo affermi che questo è uno dei cardini della sua azione politica è positivo ed esprime anche il desiderio di un impegno sincero. Purtroppo una cosa è parlare di lotta all’evasione, altra cosa è farla veramente. Inoltre, se non si sciolgono i nodi politici sottostanti è molto difficile poter essere ottimisti sulle prospettive future.

 


 

[1] Tra il 2009 e il 2010 le uniche categorie per le quali gli accertamenti si sono ridotti sono state quella delle piccole imprese e quella del lavoro autonomo; per queste categorie, inoltre, la maggiore imposta accertata si è fortemente ridotta (da 17.700 a 12.600 euro).

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