Obama, la crisi ucraina e le relazioni tra Russia e Stati Uniti

Di Mario Del Pero Martedì 15 Luglio 2014 09:38 Stampa

Una delle priorità della politica estera dell’Amministrazione Obama era il rilancio delle relazioni con la Russia. Lo scoppio della crisi ucraina ha rivelato, però, quanto fragili fossero le basi di questo tentativo di “reset”, come dimostrato anche dallo scarsissimo volume di scambi commerciali tra i due paesi. La reazione americana alla crisi – sulla quale hanno pesato fattori come un inconscio riflesso anti-russo, il legame con la nuova Europa postcomunista, il peso di un internazionalismo liberale e interventista e timori di ordine geopolitico – ha raccolto un consenso unanime all’interno degli USA, ma rischia adesso di acuire ulteriormente lo scontro tra le due potenze.

Uno degli obiettivi primari della politica estera di Obama è stato quello di migliorare i rapporti con la Russia ovvero di ricostruire una relazione collaborativa, dopo le tensioni degli anni di Bush (2001-09) culminate con la crisi georgiana dell’agosto 2008. Come ebbe ad affermare il vicepresidente Biden già nel febbraio del 2009, per la nuova Amministrazione democratica era fondamentale “resettare” tale relazione e rilanciarla su basi nuove, più solide e produttive.

Diversi fattori sembravano spingere in questa direzione e rendere un rapprochement russo-statunitense tanto auspicabile quanto inevitabile. L’attenzione dedicata da Obama alla proliferazione nucleare rilanciava quello che era stato il fattore d’interdipendenza primario tra le due superpotenze della guerra fredda e il loro terreno principale di dialogo e negoziato. Il comune denominatore offerto dagli arsenali nucleari permetteva cioè di riaprire un dialogo dalla forte rilevanza simbolica, che sarebbe culminato nell’accordo New Start, firmato a Praga nell’aprile del 2009 e ratificato, non senza opposizione, dal Senato americano qualche mese più tardi. Le difficoltà degli Stati Uniti e le pressioni della loro opinione pubblica per un disimpegno dai molti teatri di crisi in cui si trovavano aggiungevano un secondo elemento. Finita la sbronza unilateralista del post 11 settembre 2001, gli USA tornavano – per scelta, principio e necessità – a un approccio collaborativo e multilaterale nel quale anche alla Russia si assegnavano un ruolo e una funzione ben precisi. Soprattutto, l’aiuto russo appariva cruciale in alcuni importanti dossier, il nucleare iraniano e, come si sarebbe visto di lì a poco, la crisi siriana su tutti. Infine, incideva anche il mutamento più generale delle priorità geopolitiche statunitensi, che assegnava minore centralità al quadro europeo e transatlantico e individuava nel teatro dell’Asia- Pacifico il nuovo centro degli interessi statunitensi verso cui indirizzare attenzione, impegno, uomini e mezzi. In un’Europa meno importante si pensava che anche una Russia più responsabile (e auspicabilmente meno “putiniana”) potesse contribuire alla stabilità e all’ordine del continente. L’affievolimento della dimensione transatlantica ed eurocentrica dell’azione internazionale di Washington indicava, però, già un problema di questo tentato reset delle relazioni russo-statunitensi. Dall’accordo New Start alla decisione di Obama di abbandonare il progetto, tanto inviso a Mosca, di dispiegare un sistema di difesa missilistica in Polonia e nella Repubblica Ceca, non erano mancate decisioni finalizzate tra l’altro a migliorare il rapporto con Mosca. In un contesto nel quale, però, i fattori forzosi e strutturali di collaborazione – le forme effettive d’interdipendenza, in aggiunta a quella “strategica” prodotta dalle armi nucleari – erano e rimangono limitati. I dati relativi a scambi commerciali e investimenti sono al riguardo emblematici. Nel 2013 il volume complessivo di scambi commerciali tra Russia e Stati Uniti non ha raggiunto i 40 miliardi dollari, contro i 560 di quello tra Cina e USA e i 550 di quello tra USA e UE. La Russia è divenuta negli anni una delle principali destinazioni di investimenti diretti stranieri: addirittura la terza, dopo Cina e USA, nel 2013 (un dato in parte, ma solo in parte, drogato dall’investimento di British Petroleum in Rosfnet). Quelli statunitensi, che hanno conosciuto una contrazione significativa dopo il picco del 2009, rimangono però limitati. Infine, manca tra Russia e Stati Uniti una terza interdipendenza – quella energetica –, che lega invece così strettamente Mosca ad alcuni paesi europei, la Germania su tutti, e, in prospettiva, alla Cina.

I limiti dell’interdipendenza russo-statunitense si sono intrecciati con altri fattori nell’ostacolare e, in ultimo, far deragliare il riavvicinamento auspicato dall’Amministrazione Obama. Hanno pesato, e continuano a pesare, l’eredità di un passato che si rifiuta di passare, tanto in Russia quanto negli Stati Uniti. L’allargamento della NATO sino alle porte dell’impero sovietico che fu e il mancato rispetto della sfera d’influenza russa hanno alimentato lamentele e rancori, culminati alcuni anni or sono nella famosa affermazione di Putin secondo la quale la fine dell’Unione Sovietica avrebbe costituito una delle più «grandi catastrofi geopolitiche del XX secolo». Negli USA il lessico della guerra fredda sembra riaffiorare ogniqualvolta si alza la soglia della tensione tra le due parti. Durante la campagna elettorale del 2012 il candidato repubblicano Mitt Romney presentò la Russia come “il principale nemico geopolitico degli Stati Uniti”. La decisione russa di concedere asilo a Edward Snowden, dopo le sue rivelazioni sull’azione di spionaggio promossa dalla National Security Agency (NSA), è stata denunciata da uno dei principali critici di Putin negli USA, il senatore e candidato John McCain, come un ritorno “ai giorni della guerra fredda”. Lo stesso Obama, durante il suo ultimo viaggio europeo, ha utilizzato la medesima analogia, presentando i manifestanti ucraini come “gli eredi di Solidarnosc”.

Le pressioni esterne degli alleati europeo-orientali, e la loro capacità d’inserirsi in questa discussione politica interna statunitense, hanno a loro volta contribuito a ostacolare il reset cercato da Obama. Che è stato reso più difficile anche da quanto accadeva dentro la Russia, dove l’auspicata transizione liberale, a cui avrebbe dovuto contribuire anche la nuova leadership di Medvedev, non aveva luogo e si assisteva, invece, a una controversa involuzione neoautoritaria, denunciata con forza da influenti organizzazioni per i diritti umani e dibattuta a più riprese dallo stesso Congresso statunitense.

All’esplodere della crisi ucraina, in altre parole, le relazioni tra Russia e Stati Uniti erano già precipitate ai livelli del 2008 e il loro auspicato reset era stato da tempo archiviato. Nondimeno, di tutto l’Amministrazione Obama aveva bisogno in questo momento, politicamente assai difficile, fuorché di un deterioramento dei rapporti con la Russia e della conseguente necessità di tornare a concentrarsi sul teatro europeo e sulle relazioni transatlantiche. Anche se le responsabilità della crisi sono da imputare principalmente alla Russia e all’ex presidente ucraino Viktor Yanukovich, è però utile individuare quelle statunitensi per comprendere la risposta data dall’Amministrazione Obama.

Nella reazione di Washington a quanto accadeva in Ucraina hanno, infatti, pesato quattro fattori che hanno finito per esasperare i problemi invece di facilitarne il superamento. In primo luogo agisce, e ha agito, un riflesso anti-russo, che sembra ancor oggi costituire un lascito sedimentato e inscalfibile della guerra fredda. Un elemento, questo, capace di condizionare il dibattito pubblico e politico negli USA più di quanto spesso non si comprenda. Il secondo fattore è il legame speciale che gli Stati Uniti, o quanto meno una parte del mondo politico e dell’opinione pubblica del paese, nutrono nei confronti della “Nuova Europa” postcomunista. Quando si parla di Ucraina, gli interlocutori privilegiati di Washington diventano quasi automaticamente la Polonia e i paesi baltici, con tutte le conseguenze del caso. Terzo, continua a farsi sentire il peso, politico e intellettuale, di un internazionalismo liberale, interventista e “umanitario”, capace, nelle sue diverse declinazioni, di grande trasversalità: di trovare appoggi e consensi tanto tra i democratici quanto tra i repubblicani. Lo si è ben visto, negli ultimi anni, sia nelle relazioni tra Stati Uniti e Russia sia, appunto, nelle vicende ucraine. Si pensi solo alla decisione di Obama di nominare ambasciatore a Mosca uno studioso controverso, e noto per le sue posizioni assai critiche nei confronti della Russia, come Michael McFaul o, ancor più, al caso esploso in seguito alla pubblicazione della conversazione del febbraio scorso tra l’ambasciatore statunitense a Kiev, Geoffrey Pyatt, e la vicesegretario di Stato per gli affari europei ed eurasiatici, Victoria Nuland, nella quale si rivelava l’entità dell’ingerenza statunitense in Ucraina e si formulavano commenti assai pesanti nei confronti dell’Europa e della sua presunta passività. Intrecciati tra di loro, questi tre elementi spiegano molto delle tante iniziative adottate dal Congresso per denunciare le violazioni delle libertà politiche e civili da parte del regime russo, su tutte l’istituzione della cosiddetta “lista Magnitsky” approvata a larga maggioranza bipartisan nel dicembre 2012: una lista di funzionari e oligarchi russi che si ritiene siano convolti nell’assassinio del paladino alla lotta alla corruzione Sergej Magnitsky o nella violazione di diritti umani e ai quali sono stati congelati i beni e viene proibito l’ingresso negli USA. Il quarto e ultimo fattore è legato alla geopolitica: al timore, in qualche misura vivido anche prima della crisi in Ucraina, che il rinnovato attivismo russo, le difficoltà americane e una certa passività euro-statunitense possano ingenerare un effetto domino capace gradualmente di rovesciare le dinamiche dell’ultimo ventennio e l’allargamento dello spazio atlantico nell’orbita postcomunista e post sovietica.

Questi elementi hanno ovviamente informato la reazione dell’Amministrazione Obama a quanto accadeva in Ucraina, determinandone contenuti e, anche, limiti e contraddizioni. Essi aiutano a comprendere il consenso, ampio e trasversale, che ha accompagnato questa reazione all’interno degli USA, dove pochissime sono state le voci critiche e dove a Obama si è imputato, e si continua a imputare, al massimo un deficit e non un eccesso di fermezza nei confronti di Mosca. Obama ha, infatti, operato sulla base di considerazioni geopolitiche, libero in larga misura dalle costrizioni che invece condizionano e limitano l’agire europeo, e sotto la spinta di forti pressioni politiche interne. Le misure adottate e le richieste fatte ai partner europei si ponevano non tanto l’obiettivo di rovesciare l’annessione russa della Crimea, che non è realisticamente reversibile e, comunque, non modifica sostanzialmente gli equilibri geopolitici nella regione, quanto quello di attivare una nuova strategia di contenimento, funzionale a evidenziare la credibilità dell’impegno statunitense, dando un messaggio inequivoco ad alleati e nemici: rassicurare i primi (Polonia su tutti) e impedire ai secondi (ovvero la Russia) di promuovere altre azioni. Il tutto in un contesto nel quale s’intravedeva la possibilità di sfruttare l’imperizia russa per giungere a un paradossale successo geopolitico: trovarsi cioè con un’Ucraina amputata di una Crimea che di fatto già controllava poco e sempre più legata agli Stati Uniti e alla UE germanocentrica.

I pericoli e i limiti di una simile strategia sono, però, evidenti. Essa rischia, come è di fatto già in parte avvenuto, di acuire lo scontro invece di facilitarne una risoluzione. Mette in discussione la tenuta di una relazione, quella transatlantica, già in difficoltà, nella quale la fermezza statunitense non è (e forse non può essere) pareggiata da quella europea. Rischia di alienare definitivamente un soggetto, la Russia, che continua nonostante tutto a costituire un attore fondamentale del sistema internazionale e un partner necessario in alcuni dossier cruciali. Soprattutto, confligge con quello che è il diverso peso assegnato da Russia e Stati Uniti all’oggetto del contendere – l’Ucraina –, come si è ben visto nella successiva evoluzione nella parte orientale del paese. Ucraina per la quale, a Mosca si è forse pronti a morire, diversamente che negli USA o in Europa.

Acquista la rivista

Abbonati alla rivista