Una famiglia italiana

Di Adele Grisendi Lunedì 06 Dicembre 2010 12:22 Stampa

Cesare era il nome di mio padre, nato nel 1915 in terra emiliana, provincia di Reggio Emilia. Figlio di Umberto Grisendi, contadino, da tutti chiamato Berto e di Adele Gualerzi, lui del 1881 e lei del 1886. I bisnonni paterni, anch’essi contadini, si chiamavano Ardemio e Luigia, nati nel 1848 e nel 1852. La famiglia era meglio conosciuta con uno scutmaj, un soprannome: Giavaréina.

 

Cesare era il nome di mio padre, nato nel 1915 in terra emiliana, provincia di Reggio Emilia. Figlio di Umberto Grisendi, contadino, da tutti chiamato Berto e di Adele Gualerzi, lui del 1881 e lei del 1886. I bisnonni paterni, anch’essi contadini, si chiamavano Ardemio e Luigia, nati nel 1848 e nel 1852. La famiglia era meglio conosciuta con uno scutmaj, un soprannome: Giavaréina.

Il nome della mamma era Jolanda, figlia nata nel 1920 da Paradiso Denti, classe 1892 e da Virginia Andreoli, classe 1894. I bisnonni materni, Gherardo e Filomena Braglia erano nati nel 1858 e nel 1863. Lo scutmaj della famiglia Denti era Znér.

Io sono venuta al mondo nel 1947. Dunque, figlia di contadini. E, se faccio il conto delle tre generazioni in linea paterna e materna che mi hanno preceduto, le mie radici affondano nel Risorgimento italiano. Ardemio, infatti, nel 1861, quando nacque l’Italia unita, aveva tredici anni. Un adolescente destinato a crescere insieme alla nuova nazione italiana e con un re al comando. Insomma, quello era il periodo storico che, a distanza di oltre un secolo, io avrei studiato sui libri nel corso dei miei anni scolastici.

Berto Grisendi non fu chiamato sotto le armi nel 1915. Forse per ragioni di età o di carico famigliare. A 34 anni era già padre di Gildo e di Cesare, che al momento della dichiarazione di guerra, nel maggio, contava sì e no tre mesi. O forse a non farlo partire fu un’intercessione ecclesiastica, essendo Berto un fratello attivo nella confraternita parrocchiale.

Fu in virtù di quell’appartenenza che la Curia di Reggio Emilia gli concesse in affitto e non a mezzadria un podere alle porte del paese di Montecchio Emilia. Vasto, di buona terra, con una grande cascina. Accanto all’abitazione per i cristiani, oltre il portico, comprendeva una stalla capace di ospitare parecchie mucche da latte. Ma soprattutto, essendo in affitto, permise alla famiglia di lavorare anche per sé e non di tirarsi il collo principalmente per ingrassare un padrone.

Paradiso Denti, il padre della mamma, apparteneva a una famiglia cattolica e molto osservante. Vi rimase fedele per tutta la vita. Con la moglie Virginia educarono entrambe le figlie secondo gli stessi principi. Diversamente da Berto Grisendi che, dopo lo scioglimento della confraternita, credo che non sia più entrato in chiesa.

Paradiso partì soldato allo scoppio della guerra, ma prima si fidanzò con la futura moglie Virginia. Nel 1918, firmata la pace, si sposò ma rimase nell’esercito per altri sette anni diventando sergente maggiore. Infine, stanco della vita militare, alla nascita di Lina, la seconda figlia, si congedò e riprese a fare il contadino. E coltivare la terra, prima da mezzadro, poi da affittuario e infine da proprietario del suo podere, è stato il mestiere di tutta la vita.

Le famiglie contadine dell’Emilia che conosco meglio, il Reggiano, erano perlopiù larghe. Composte dal capofamiglia e dalla moglie, la rezdóura, dai figli maschi con le mogli e i bambini. A volte, in casa viveva un fratello celibe o una sorella nubile o vedova e, fino a quando il Signore non li chiamava a sé, anche i vecchi genitori del capofamiglia.

Nelle nostre famiglie lavoravano tutti: gli uomini, le donne, i grandi e i piccoli. Quando le braccia non bastavano, chi poteva permetterselo, all’inizio della primavera, si metteva in cerca di un servitore. Quasi sempre si trattava di ragazzi di sedici o diciassette anni che venivano dall’Appennino reggiano o anche parmense. E, dal momento del loro arrivo, diventavano a tutti gli effetti parte della famiglia.

Il servitore lo si ingaggiava tramite un mediatore, ma il più delle volte si ricorreva al parroco per avere l’indicazione di dove trovarlo. Poi, il contratto veniva stipulato con i genitori che riscuotevano per intero l’importo pattuito. Stava alla loro decisione quale parte consegnare al figlio.

Le più sfruttate erano senz’altro le donne. Al lavoro come tanti uomini nei campi e nella stalla, con in più la cura della casa e dei famigliari. Nelle ore libere, specialmente la sera, mentre gli uomini si ritrovavano per giocare a carte, a loro toccava fare la maglia, rammendare o cucire gli abiti del marito o del suocero.

Non ho mai dimenticato lo stordimento provato quando la mamma mi raccontò che nonna Adele, a pochi giorni dal partorire, spalava letame sopra un carro. E siccome il suo stato ne rallentava i movimenti, ecco che il nonno la incitava rabbioso a darsi una mossa.

I bisnonni li ho conosciuti grazie alle fotografie ritrovate nelle scatole, fra i documenti da non perdere e affidate alle donne di casa per conservare la loro memoria. Raffigurano gente austera, compunta, rigida nella posa, seria, come incapace di regalare anche soltanto un debole sorriso alla macchina fotografica. Nei nostri anni pieni di immagini spesso sguaiate, messe in rete alla visione di chiunque, le loro camicie bianche e gli abiti scuri li fanno apparire davvero persone di un altro mondo. Risorgimentali.

Adele, la nonna paterna della quale porto il nome, se n’è andata prima della mia nascita. Ho di lei un ricordo vivissimo proprio grazie a un grande ritratto fotografico in bianco e nero: quello di una donna molto bella, con la bocca increspata in un sorriso lieve e, come ornamento, uno dei gioielli portati in dote. Dentro una cornice di legno scuro, è rimasto esposto sopra il comò nella camera da letto del nonno fino a quando non ci siamo trasferiti nella casa nuova. Non ho mai saputo che fine abbia fatto e confesso di continuare a sentirmi defraudata dalla perdita di quel ritratto.

Il tempo non ha ancora cancellato la memoria visiva dei nonni Berto, Paradiso e Virginia. Come tutti i vecchi della loro generazione, compresi i più benestanti, li ricordo forti della loro dignità di gente onesta che lavorava duramente. Rispettosi degli onesti e delle autorità: il sindaco, l’assessore, il primario dell’ospedale, il medico di famiglia, nei riguardi dei quali usavano sempre il voi. Mai li ho visti servili. Mai falsamente ossequiosi. È così che hanno educato anche noi figli fin da bambini: a rispettare gli altri, ma avere forte il senso di noi stessi. Con una comune religione laica: il lavoro.

Li ricordo capaci di generosità nei confronti dei vicini e anche di semplici conoscenti. A volte persino più che verso un famigliare. Ma li rivedo anche capaci di liti furiose e di odi portati nella tomba. Come nel caso del nonno Berto e dell’astio nei confronti dell’altro nonno, Paradiso, per motivi mai dichiarati, però talmente forti da restare insuperabili. E nonostante i loro figli, Cesare e Jolanda, fossero marito e moglie.

Quando penso a Berto rammento la sua abitudine, a tratti insopportabile, di dire bestemmie. Quando sull’aia della nostra cascina si presentava don Ennio Caraffi, il parroco del paese, le sparava a raffica per il solo gusto di fargli un dispetto. Invece, si guardava bene dal lasciarsi scappare una qualsiasi imprecazione quando sul ponte svoltava il macchinone nero della Curia e ne scendeva l’arciprete don Baisi con almeno due giovani sacerdoti al seguito.

Allora, il nonno Berto diventava addirittura zuccheroso. Ordinava alle donne di casa di affrettarsi a mettere in un cestino non meno di due ventine di uova fresche in regalo. Quando nell’orto c’erano i gladioli fioriti, la zia non poteva neppure fare il gesto di rifiutarsi di coglierli e di offrirli per l’addobbo della cappella della Vergine Maria. In questo, più della volontà di omaggiare l’arciprete, c’era la devozione per la Madonna rimasta intatta. Ma anche tutta la perfidia che Berto riservava alla nuora, obbligata a mascherare la stizza sotto il migliore dei sorrisi.

I contadini lavoravano sodo. Pure la domenica. Durante tutto l’anno. Senza un giorno di requie. Con il sole e sotto la pioggia. Da prima che sorgesse l’alba a fin dopo il tramonto. La stagione del riposo, nel senso che non si andava nei campi, coincideva con l’inverno profondo. Gli uomini si occupavano di riparare i carri, di accudire le mucche senza l’aiuto delle donne che ne approfittavano per dedicarsi a tutto quello che con il tempo buono non potevano fare. Compresa la cura del proprio aspetto, recandosi dal parrucchiere e dalla sarta. Ogni tanto andavano al cinema in paese oppure a trovare i genitori con maggiore assiduità.

Lo zio Gildo era l’unico in casa nostra che guidava la moto, di solito parcheggiata nella nostra grande cucina, a destra della porta d’ingresso. Ma tra i vicini era il solo a possederne una. Il mezzo di trasporto per tutti era la bicicletta. Da che io ricordi, in casa tutti i grandi l’avevano. Con la canna quella degli uomini, senza quella per le donne. Ma non era sempre stato così. La mamma mi raccontò spesso che sia lei che la madre Virginia e la sorella Lina si erano sempre spostate a piedi. L’unica bicicletta presente in casa era quella del padre e neppure nuova.

Durante tutti gli anni delle elementari pure io sono andata e tornata da scuola a piedi, un passo dopo l’altro. Anche sotto la pioggia, con l’ombrello per ripararmi. Nessuno mi accompagnava, salvo in occasioni speciali. Quando nevicava forte si rimaneva a casa.

Noi bambini non correvamo pericoli. Passava qualche moto, le auto erano pochissime e, a parte la volta che uno stupido scese dalla bicicletta e si abbassò i pantaloni davanti a me, nessuno mi ha mai infastidito. Poi, il passaggio alle medie fu onorato con il regalo di una bicicletta tutta per me. Una Bianchi rossa fiammante che il nonno Berto una mattina cercò di rovinare, usandola per attraversare i campi bagnati di rugiada.

Nel 1956, il nonno si fece un regalo: acquistò un apparecchio televisivo. Tradì la sua vecchia Radio Marelli che gli consentiva da sempre di ascoltare i notiziari e le commedie e che, da quel momento, divenne di mia proprietà. Ma la TV era ben altra cosa. Il telegiornale ci portava in casa le immagini degli avvenimenti dei quali dava conto. Tutti noi, che al massimo eravamo arrivati fino a Bologna, potevamo vedere l’Italia e il mondo. E gli attori delle commedie. E i cantanti di musica leggera. Assistevamo all’opera senza essere a teatro. E pazienza se a decidere quale programma vedere era sempre e soltanto lui, quel vecchio bastardo del nonno!

Oggi viaggiamo in auto, su treni superveloci e gli aerei ci permettono di arrivare a Londra, negli Stati Uniti o in India in poche ore. In casa nostra, la prima auto parcheggiata sotto il portico è stata l’Innocenti Austin dello zio Gildo, acquistata all’inizio del 1961. Nell’estate del 1963, a farle compagnia arrivò il mio motorino: un Velosolex tutto nero. Infine, sul finire dell’estate del 1969, ho avuto in regalo la mia prima auto: una Mini Morris blu con il tettuccio bianco. Il nonno Berto ci aveva lasciato e chissà quante ne avremmo sentite. Lui che guardò in cagnesco mio padre quando lo informò che sarei andata alle medie e non mi avrebbe avviato al mestiere di contadina.

Le gonne si erano accorciate parecchio. Al posto di quelle lunghe alla caviglia o ai polpacci delle bisnonne e delle nonne e al posto di quelle al ginocchio delle nostre madri, noi giovani ragazze indossammo le scandalose minigonne di Mary Quant. E passavamo i pomeriggi della domenica al ritmo del ballo del mattone di Rita Pavone, provando senza nasconderli i primi sussulti del cuore.

Nel pensare a tutto questo, rifletto sui cambiamenti ininterrotti avvenuti tra il 1848, anno di nascita del bisnonno Ardemio, e questo 2010, anno in cui ne compio 63. Ma l’accelerazione intervenuta tra la fine del Novecento e questo primo decennio del Duemila è stata talmente incalzante da non poter essere confrontata con nessun altro periodo storico.

Mi dico spesso che se i vecchi tornassero al mondo per una mezza giornata si sentirebbero talmente persi e stralunati da voler rientrare subito nell’aldilà. Quella di oggi non è un’Italia che potrebbero amare e in cui voler tornare a vivere. È troppo lontana da quella che aveva portato Paradiso a combattere la grande guerra e poi a servire nell’esercito fino al 1925. Non è neppure l’Italia che ha visto nascere lo zio Gildo di ritorno dalla seconda guerra mondiale. E quella in cui ha sperato papà Cesare dopo la campagna d’Albania e i due anni di prigionia in Germania, conclusi nel lontano giugno del 1945.

Hanno faticato per migliorare la propria vita e quella dei figli e, insieme, per il progresso della loro patria. Praticando e insegnando l’onestà e il rispetto delle regole comuni. Non hanno mai evaso le tasse, anche se dallo Stato avrebbero dovuto ricevere di più. Ci hanno educato con l’esempio a preservare il bene pubblico. Ho ascoltato imprecazioni soltanto contro la Chiesa, contro il papa e contro il governo quando esagerava nel fare l’interesse dei ricchi.

Lo spirito più anarchico che ho conosciuto è stato senza dubbio papà Cesare. Appena la TV mostrava il pontefice all’Angelus da piazza San Pietro, ritornava a imprecare contro Pio XII perché, a suo dire, lo aveva mandato in guerra. Ma come non capirlo! Era stato portato in Germania da prigioniero e lì era rimasto per quasi due anni in un campo di lavoro, rischiando la pelle sotto i bombardamenti degli anglo-americani.

La prigionia e la paura avevano cambiato il suo carattere. Un tempo affettuoso e allegro, rientrato in famiglia passava da momenti di tristezza a scoppi d’ira. Finché ha trovato il simbolo sulla scheda ha votato per il PSIUP e poi sempre per i comunisti, senza però avere mai avuto il mito di Stalin. Jolanda, la mamma, fedele all’educazione ricevuta, invece ha sempre messo la croce sul simbolo della DC. Il papà non avrebbe mai potuto farlo, poiché per lui i preti e la Democrazia Cristiana erano la stessa cosa.

Entrambi, però, prima di essere emiliani, reggiani e poi montecchiesi, erano e si sentivano italiani. Hanno fatto in tempo ad ascoltare i propagandisti della secessione. Li rivedo scuotere il capo e risento la mamma affermare: «Se non son matti, non li vogliamo». Sul volto di papà si disegnava la stessa smorfia sardonica di quando osservava barcollare, per il troppo vino, uno dei vicini venuti a passare la sera nella nostra stalla. Anche se qualche volta mi chiedeva preoccupato: «Ma potrebbe davvero capitare che, per venire in Emilia da Roma a trovarci, ti venga chiesto di esibire la carta d’identità?».

Sono certa che se fosse ancora vivo, vedendo in TV i cumuli di immondizia del Napoletano e le violente contestazioni della popolazione locale, reagirebbe imprecando contro Garibaldi colpevole di avere unito il Meridione al resto d’Italia. Ma subito dopo sarebbe il solito tifoso acceso della nazionale di calcio. E mi direbbe orgoglioso: «Gliel’abbiamo fatto vedere di cosa siamo capaci noi italiani!». Come sempre soddisfatto per le vittorie, sopratutto quelle contro i tedeschi!

La mamma, dopo avere esultato per il romagnolo Marco Pantani e per le sue scalate al giro d’Italia o al Tour de France, oggi proverebbe la stessa passione per Vincenzo Nibali, il grande siciliano che corre in bicicletta.
Ed entrambi rimarrebbero in silenzio e con gli occhi umidi al suono dell’inno nazionale.