I dilemmi di una politica etica

Di Colin Crouch Giovedì 03 Maggio 2012 15:35 Stampa

Pur riconoscendo che spesso la pratica politica si traduce in una lotta per la conquista del potere non bisogna cedere all’idea che sia possibile e giusta una politica slegata dall’etica. Signifi cherebbe cadere nel cinismo, a cui le moderne società, complesse e multiculturali, possono opporsi attraverso l’introduzione di strumenti di controllo e informazione e l’attiva partecipazione dei cittadini.


Che i giochi egoistici di potere, che costituiscono gran parte dell’attività politica, debbano avere una qualche relazione con l’etica può sembrare un fatto straordinario, persino ridicolo; ma l’idea di una politica slegata dall’etica è agghiacciante. È questo il paradosso centrale dal quale non è mai possibile prescindere, e che rende la questione del rapporto tra politica ed etica al tempo stesso affascinante e di vitale importanza.

La politica è chiaramente un gioco di potere, nel quale individui ambiziosi usano qualsiasi stratagemma a loro disposizione per battere i propri rivali, al fine di esercitare il potere. Quei politici che si contengono all’interno di questo gioco, sottolineando che agiranno solo in maniera assolutamente corretta dal punto di vista morale, semplicemente si legano da soli le mani dietro la schiena prima di affrontare la battaglia. E allora, perché non possiamo separare completamente la politica dalle preoccupazioni etiche? Perché insistiamo comunque su una loro interconnessione? Ci sono due risposte, differenti tra loro, a questa domanda.

La prima, che concerne un ambito più ristretto ma non meno importante, risiede precisamente nel fatto che, proprio perché i politici sono impegnati in un gioco di potere,dobbiamo imporre loro l’obbligo di riconoscere l’esistenza di alcuni vincoli morali. Se costoro esercitassero il potere con totale cinismo – come molti hanno fatto nel passato – rappresenterebbero una terribile minaccia per tutti noi, dal momento che potrebbero fare ciò che vogliono senza alcuna restrizione. Per quale  motivo, infatti, come in passato per i re e i signori feudali veniva utilizzato l’appellativo “grazioso”, e ai ricchi esponenti della borghesia e   dell’aristocrazia veniva riconosciuto il monopolio dell’uso del termine “gentile”, ai politici dei nostri giorni viene ufficialmente conferito l’epiteto  di “onorevole”? Non esprimono forse questi aggettivi il desiderio   del popolo di tentare di assicurarsi che i politici siano all’altezza delle aspettative, e che non useranno il loro potere contro di noi senza alcuna grazia, crudelmente, in modo disonorevole?

Nelle moderne società democratiche temiamo   non tanto la durezza dei governanti quanto la   loro disonestà, sia nel senso di una loro condotta disonesta e corrotta, sia in riferimento all’inganno che perpetrano a  nostro danno fornendoci false informazioni in merito all’economia e alla società che essi governano per nostro conto. Gli incentivi ad agire in modo disonesto sono per loro enormi. In attività come l’appalto di contratti pubblici essi hanno molte possibilità di incorrere in fenomeni di corruzione, così come sono fortemente incentivati a mentire agli elettori per influenzarne le intenzioni di voto. Entrambe queste tipologie di comportamento nuocciono agli interessi dei cittadini, ma questi incontrano grandi difficoltà ad assicurarsi l’onestà dei politici poiché tenuti all’oscuro di molte cose. Una delle poche, e deboli, armi a nostra disposizione è sottolineare continuamente, nel dibattito politico, l’importanza di un comportamento etico, è insistere sul fatto che bisogna sempre applicare dei criteri etici all’azione politica. La seconda ragione, molto più ampia, per insistere su un legame tra politica ed etica è che quasi tutte le azioni politiche sono direttamente connesse a questioni morali. Noi guardiamo alla politica per risolvere problemi di pubblico interesse che non possono essere lasciati ai mercati o ai comportamenti privati o familiari. Cosa bisognerebbe fare per limitare i danni all’ambiente? Fino a che punto garantire agli anziani l’accesso alla crescente ricchezza della società che essi non stanno più contribuendo a realizzare? Quanto debbono essere negligenti nei loro comportamenti i genitori prima che si decida di fare qualcosa per allontanare da loro i figli? Esistono migliaia di simili questioni, che si presentano in varie forme ogni giorno e che necessariamente comprendono anche una dimensione morale, per le quali noi guardiamo allo Stato, al   mondo della politica, per aiutarci a trovare risposte adeguate. Lo Stato detiene questo ruolo perché è l’unica istituzione dotata di potere che si posiziona almeno in parte al di fuori dei mercati e delle famiglie, e che   può amministrare risorse non disponibili per noi in quanto privati individui. Se lo Stato non avesse alcun carattere morale, se non fosse in alcun modo una sorta di specialista etico, sarebbe del tutto inutile indirizzare a esso tali interrogativi; e a eccezione dello Stato non esiste altra istituzione con caratteristiche simili.

Per essere più precisi, nel passato lo Stato ha condiviso queste responsabilità morali collettive con la Chiesa. Nei primi secoli della storia europea si sarebbe potuto dire più esattamente che era la Chiesa   l’istituzione a cui il popolo guardava per ricevere ausilio riguardo alle problematiche morali della collettività, mentre la Chiesa a sua volta chiedeva l’aiuto dello Stato quando non riusciva ad agire efficacemente senza il ricorso a un qualche potere di coercizione. Per capire come la Chiesa abbia perduto tale predominanza occorre considerare l’intera storia della secolarizzazione, il declino delle credenze religiose, la lotta tra Stato e Chiesa scatenata dalla Rivoluzione francese e ancor prima dalla crisi morale presentata dalla Riforma e dalla Controriforma. Per i nostri fini è necessario trarre un solo elemento chiave   da questa lunga storia, e in particolare dalla storia della Riforma: la Chiesa, in quanto insieme di anime umane, è stata incapace nella sua condotta quotidiana di rimanere all’altezza della sua pretesa di essere la principale depositaria dell’etica della società. È questo il punto in   cui ciò che è strettamente personale e ciò che è invece ampiamente sociale si uniscono; ed è anche un problema per la nostra vita politica   contemporanea.

La Chiesa ha dato le sue risposte al problema dei preti corrotti e peccatori: dal momento che l’umanità nasce nel peccato, nè possibile che anche nella stessa Chiesa vi siano alcuni individui peccatori; tuttavia,   essa rimane lo strumento di Dio sulla Terra, e il potere di Dio è sufficientemente grande per operare attraverso uno strumento imperfetto. I politici non hanno a loro disposizione argomenti grandiosi quanto questo, ma possono offrirne una versione molto più banale: i funzionari dello Stato possono non essere, se presi individualmente, migliori del resto dell’umanità; ma come nessun altro lo Stato possiede risorse per   raggiungere gli obiettivi della collettività, e questo rimane vero a dispetto delle singole debolezze umane. Dietro entrambe queste argomentazioni sta lo stesso paradosso che è alla base della vita umana: essere capaci di avere una prospettiva di bontà e di qualità morale che, tuttavia, nessuno di noi è in grado di realizzare nella propria personale condotta.


Che fare?

Il discorso non può concludersi con questa annotazione di totale sfiducia. Possiamo e dobbiamo creare istituzioni che pongano un freno alla corruzione e alla disonestà: specifici provvedimenti di legge, requisiti di trasparenza, la costruzione di istituzioni che facciano parte dello Stato ma che siano (nelle intenzioni e nel concreto tentativo di renderle tali), al di fuori della lotta politica per il potere. A quest’ultimo aspetto vanno ricondotti anche la supremazia della legge sull’esercizio del potere, la creazione di banche centrali indipendenti, di un sistema radiotelevisivo pubblico indipendente, di servizi (enti) di informazione e raccolta dati statistici. Queste strutture non sono affatto perfette. Diventano anzi particolarmente difficili da gestire quando il potere politico e quello economico si concentrano nelle stesse mani e divengono in grado di mettere alla prova questi importanti meccanismi di controllo ed equilibrio. Questo sta diventando un problema che desta sempre maggiore preoccupazione, dal momento che le società moderne diventano sempre più diseguali, con la ricchezza concentrata in un numero relativamente ristretto di mani che cercano di estendere la loro presa anche sulla politica. Tuttavia, bisogna continuare a usare tali strumenti, posto che si abbiano l’energia e la volontà di combattere a volte contro un nemico diffuso. Esse, infatti, possono aiutare a risolvere il primo aspetto del problema della relazione tra etica e politica, quello strettamente personale.

La seconda questione, più ampia, è più difficile da affrontare. Non si tratta solo del fatto che pochi individui hanno la statura morale per battersi per uno Stato che abbia dei fini etici; ma che oggi non c’è accordo su quali possano essere tali fini. Per semplificare al massimo, si potrebbe affermare che vi sono tre approcci a questo problema che pongono concrete difficoltà.

In primo luogo vi sono coloro che non attribuiscono alcun compito morale allo Stato, ma lo vedono semplicemente come uno strumento che serve agli scopi di chi lo controlla. Essi ci restituiscono l’incubo di   uno Stato totalmente cinico.

In secondo luogo vi è poi chi è pieno di propositi morali e cerca di usare lo Stato per realizzare tali propositi; ed è convinto di avere il diritto di operare in tal modo. Essi ci restituiscono l’incubo di uno Stato fanatico. Peggio ancora, nel caso smarrissero i loro scopi morali, anche essi diverrebbero latori di uno Stato cinico.

In terzo luogo vi sono coloro che, a differenza degli altri due casi, ritengono che sia troppo pericoloso usare lo Stato per altri scopi se non quello di rendere più facile per i cittadini curare da sé i propri affari,   lasciando loro la facoltà di perseguire la propria agenda morale (qualora scelgano di averne una). Scompare, dunque, il problema di decidere in merito a obiettivi morali collettivi; essi semplicemente non esistono.   Questa è certamente la caratteristica degli Stati fondati sul libero mercato. Non costituisce sicuramente un incubo come i due precedenti, tuttavia lascia irrisolti due nodi importanti. Che possibilità si offre a quei cittadini che non sono abbastanza ricchi per poter raggiungere da sé i propri obiettivi – siano o meno essi morali – attraverso il mercato? E come è possibile affrontare quelle tematiche (come ad esempio il cambiamento climatico) che non possono essere gestire attraverso il mercato, o che il mercato riesce ad affrontare solo se riorganizzato appositamente per farlo, dal momento che tale riorganizzazione prevede   l’intervento dello Stato?

E qui ci arriva in soccorso un quarto approccio. Non sappiamo se renda più rapida la soluzione del problema o la complichi; arriva con esitazione e cautela, ma sorprendentemente spesso arriva, ammesso che lo si lasci arrivare. Questo approccio dice: negando la possibilità di obiettivi etici collettivi i liberisti stanno lasciando tale possibilità alla capacità tecnica di un meccanismo, il mercato, di decidere quello che è possibile in merito alla nostra vita collettiva. Le soluzioni tecniche mal si adeguano ai problemi etici. Non possiamo ignorare le possibilità che esistono di usare le capacità dello Stato per rimediare a queste debolezze. Tuttavia, giustamente i liberisti vogliono evitare gli incubi di uno Stato cinico o fanatico. Occorre allora usare il potere dello Stato sulla base di un vasto consenso, che sia il risultato di una sincera ricerca di un accordo. Per le società multiculturali che vengono prodotte dalla globalizzazione non c’è alternativa a questa pazienza, anche se essa provoca ritardi nella soluzione di questioni che alcuni (ma non altri) vedono come problemi urgenti.

E ancora, continuando il ragionamento, dobbiamo abbandonare la comoda  abitudine di pensare allo Stato come al nostro specialista morale, che si occupa al nostro posto degli obiettivi etici della società, mentre   noi ci occupiamo della nostra vita privata. Non solo lo Stato e i sui funzionari non si meritano un tale onere, come abbiamo tentato di dimostrare sopra, ma il pluralismo, il poter prendere in considerazione delle   alternative, la ricerca di un accordo all’interno di un necessario orizzonte multiculturale, possono avere luogo solo se un largo numero di individui si considera coinvolto in prima persona. Società complesse e multiculturali possono evitare di cadere nel cinismo politico o di essere preda del fanatismo solo se i loro cittadini sono preparati a essere attivi, ma in modo paziente e tollerante. È possibile farlo?

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